Le code di paglia
Fa veramente specie la levata di scudi generalizzata rispetto al progetto di legge presentato dai senatori del PD, prima firmataria Anna Finocchiaro, per una nuova disciplina del sistema dei partiti secondo lo spirito dell’art. 49 della Costituzione.
Tale articolo infatti prescrive alle forze politiche di partecipare “con metodo democratico” a determinare l’indirizzo politico del Paese:
per anni si è fatto mostra di credere che il metodo democratico fosse riferito ad extra, ossia all’accettazione della regola democratica come base del sistema politico del nostro Paese per cui la maggioranza governa e la minoranza controlla e si oppone. Ciò permetteva di passare al di sopra delle modalità con cui i diversi partiti politici si organizzavano al loro interno, dal tesseramento delle anime morte nella DC al centralismo democratico (dove spesso il sostantivo faceva premio sull’aggettivo) del PCI fino ai congressi missini che, in omaggio alle radici fasciste, finivano regolarmente a botte. Poi vennero gli anni delle prime forme di leaderismo, gli anni di Craxi, dell’Assemblea Nazionale socialista eletta all’unanimità e a voto palese, gli anni delle tangenti che servivano per comperare le tessere che servivano a mantenere il potere che serviva a raccogliere altre tangenti…
Crollato quel sistema arrivò la Lega Nord, setta carismatica stretta intorno a Bossi che promuoveva e cacciava chi voleva lui ed i cui organismi esistevano essenzialmente per ratificare il volere del Capo il quale, complice il declino psico-fisico, arrivò come ovvia conseguenza a prefigurare quale suo successore uno dei suoi figli, poi rivelatosi un avido cretino.
Poi è arrivato Berlusconi, che ha generato per partenogenesi il partito dall’azienda e lo considera parte integrante del suo patrimonio, che la democrazia non sa nemmeno dove sta di casa e non tollera il dissenso, come ha scoperto a sue spese Gianfranco Fini cacciato a furor di popolo e senza motivazioni con il voto unanime di un’assemblea di fantocci scelti tutti personalmente dal Sire e dai suoi fidi.
Infine è arrivato il Movimento Cinque Stelle, che voleva rappresentare la rivoluzione della democrazia diretta contro il fallimento di quella rappresentativa, che ha un “non statuto” ed una democrazia interna alquanto teorica, che sceglie i suoi parlamentari in modo imperscrutabile ma di fatto secondo il criterio della fedeltà alla regia superiore, e che ha preteso di spacciare come “candidato del popolo” alla Presidenza della Repubblica un rispettabile signore scelto con 4677 voti su 28 mila partecipanti ad una selezione via web alquanto opaca, che caccia via (ancora una volta) i dissenzienti per volontà superiore, che ha un apparato finanziario perlomeno sfuggente e che di fatto è imperniato su di un meccanismo a due basato sull’accordo esclusivo fra un vecchio attore comico incarognito ed un esperto di nuovi media dalle idee eccentriche (per usare un eufemismo).
A fronte di ciò, la generale preoccupazione di politologi e costituzionalisti che denunciano il peso crescente del denaro e dei media a servizio di quel denaro in politica, e riflettono su quanto sia possibile che rimangano democratiche le istituzioni che vengono gestite da soggetti non democratici.
Ecco dunque il senso di una proposta come quella dei senatori PD, che è facilmente sintetizzabile in questi termini: innanzi tutto, la chiarezza su “quali sono gli organismi dirigenti, le loro competenze e le modalità della loro elezione e la durata degli incarichi, che sono conferiti a tempo determinato”. Insomma: chi comanda, come è stato scelto e per quanto tempo. Quindi, “in che modo sono assunte le decisioni che caratterizzano la vita di un partito: le alleanze elettorali, la scelta di uno schieramento e così via”. Inoltre, “lo statuto deve disciplinare i rapporti con le articolazioni territoriali” e spiegare come e perché si possa precedere, ad esempio, al loro scioglimento o commissariamento. E garantire “il diritto all’informazione (sugli atti interni) e il diritto al contraddittorio” a tutela delle minoranze interne, per evitare che chiunque la pensi diversamente possa essere espulso con un atto d’imperio del capo, come già si è visto nei mesi scorsi proprio nel M5S. “Gli istituti – scrivono i senatori democratici – devono includere anche le misure disciplinari che possono essere adottate nei confronti degli iscritti (o delle articolazioni territoriali del partito), gli organi competenti ad assumerle e le procedure di ricorso previste, assicurando il diritto alla difesa e il principio del contraddittorio”.
Rispetto ai finanziamenti, poi, la proposta del Pd prevede che almeno il 5 per cento sia destinato alla formazione e, soprattutto, che “il controllo del rendiconto è affidato alla Corte dei conti”. Inoltre, il 25 per cento dei rimborsi elettorali è legato alla promozione delle primarie per la selezione di “tutte le candidature alle cariche apicali, di governo (sindaco, presidente di regione, candidato a premier) e per la scelta dei candidati alle assemblee rappresentative quando il sistema elettorale prevede la loro elezione in collegi uninominali con formula maggioritaria”.
Tutto qui? Sì, certo, con l’ovvio corollario dell’incandidabilità dei partiti e movimenti politici che non ottemperino a queste regole minime di democrazia liberale.
La reazione isterica di Grillo e dei suoi era prevedibile, ed è servita a mascherare la ben più corposa preoccupazione di Berlusconi, che, se simili norme venissero mai approvate, vedrebbe terminare il suo sistema monarchico.
Meno prevedibile è stata la reazione di personalità e commentatori interni al PD o ad esso vicine che hanno visto in queste norme di civiltà un “autogol”, un “regalo a Grillo” e chissà cos’altro. Ma leggere prima il contenuto complessivo del progetto, invece che limitarsi ai titoli, no? O forse è vero che la superficialità e l’emotività sono la cifra della politica odierna, anche in campo democratico?
Crollato quel sistema arrivò la Lega Nord, setta carismatica stretta intorno a Bossi che promuoveva e cacciava chi voleva lui ed i cui organismi esistevano essenzialmente per ratificare il volere del Capo il quale, complice il declino psico-fisico, arrivò come ovvia conseguenza a prefigurare quale suo successore uno dei suoi figli, poi rivelatosi un avido cretino.
Poi è arrivato Berlusconi, che ha generato per partenogenesi il partito dall’azienda e lo considera parte integrante del suo patrimonio, che la democrazia non sa nemmeno dove sta di casa e non tollera il dissenso, come ha scoperto a sue spese Gianfranco Fini cacciato a furor di popolo e senza motivazioni con il voto unanime di un’assemblea di fantocci scelti tutti personalmente dal Sire e dai suoi fidi.
Infine è arrivato il Movimento Cinque Stelle, che voleva rappresentare la rivoluzione della democrazia diretta contro il fallimento di quella rappresentativa, che ha un “non statuto” ed una democrazia interna alquanto teorica, che sceglie i suoi parlamentari in modo imperscrutabile ma di fatto secondo il criterio della fedeltà alla regia superiore, e che ha preteso di spacciare come “candidato del popolo” alla Presidenza della Repubblica un rispettabile signore scelto con 4677 voti su 28 mila partecipanti ad una selezione via web alquanto opaca, che caccia via (ancora una volta) i dissenzienti per volontà superiore, che ha un apparato finanziario perlomeno sfuggente e che di fatto è imperniato su di un meccanismo a due basato sull’accordo esclusivo fra un vecchio attore comico incarognito ed un esperto di nuovi media dalle idee eccentriche (per usare un eufemismo).
A fronte di ciò, la generale preoccupazione di politologi e costituzionalisti che denunciano il peso crescente del denaro e dei media a servizio di quel denaro in politica, e riflettono su quanto sia possibile che rimangano democratiche le istituzioni che vengono gestite da soggetti non democratici.
Ecco dunque il senso di una proposta come quella dei senatori PD, che è facilmente sintetizzabile in questi termini: innanzi tutto, la chiarezza su “quali sono gli organismi dirigenti, le loro competenze e le modalità della loro elezione e la durata degli incarichi, che sono conferiti a tempo determinato”. Insomma: chi comanda, come è stato scelto e per quanto tempo. Quindi, “in che modo sono assunte le decisioni che caratterizzano la vita di un partito: le alleanze elettorali, la scelta di uno schieramento e così via”. Inoltre, “lo statuto deve disciplinare i rapporti con le articolazioni territoriali” e spiegare come e perché si possa precedere, ad esempio, al loro scioglimento o commissariamento. E garantire “il diritto all’informazione (sugli atti interni) e il diritto al contraddittorio” a tutela delle minoranze interne, per evitare che chiunque la pensi diversamente possa essere espulso con un atto d’imperio del capo, come già si è visto nei mesi scorsi proprio nel M5S. “Gli istituti – scrivono i senatori democratici – devono includere anche le misure disciplinari che possono essere adottate nei confronti degli iscritti (o delle articolazioni territoriali del partito), gli organi competenti ad assumerle e le procedure di ricorso previste, assicurando il diritto alla difesa e il principio del contraddittorio”.
Rispetto ai finanziamenti, poi, la proposta del Pd prevede che almeno il 5 per cento sia destinato alla formazione e, soprattutto, che “il controllo del rendiconto è affidato alla Corte dei conti”. Inoltre, il 25 per cento dei rimborsi elettorali è legato alla promozione delle primarie per la selezione di “tutte le candidature alle cariche apicali, di governo (sindaco, presidente di regione, candidato a premier) e per la scelta dei candidati alle assemblee rappresentative quando il sistema elettorale prevede la loro elezione in collegi uninominali con formula maggioritaria”.
Tutto qui? Sì, certo, con l’ovvio corollario dell’incandidabilità dei partiti e movimenti politici che non ottemperino a queste regole minime di democrazia liberale.
La reazione isterica di Grillo e dei suoi era prevedibile, ed è servita a mascherare la ben più corposa preoccupazione di Berlusconi, che, se simili norme venissero mai approvate, vedrebbe terminare il suo sistema monarchico.
Meno prevedibile è stata la reazione di personalità e commentatori interni al PD o ad esso vicine che hanno visto in queste norme di civiltà un “autogol”, un “regalo a Grillo” e chissà cos’altro. Ma leggere prima il contenuto complessivo del progetto, invece che limitarsi ai titoli, no? O forse è vero che la superficialità e l’emotività sono la cifra della politica odierna, anche in campo democratico?