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Fragilità d’Italia, tra economia sommersa e lavoro povero

Scritto da Antonio Calabrò.

Articolo di Antonio Calabrò pubblicato da Huffington post.

L’occupazione in Italia cresce, superando il tetto dei 24 milioni di persone con un lavoro, più o meno stabile, più o meno all’altezza dei propri bisogni e delle proprie aspettative. I disoccupati sono appena il 6,2%, mai così pochi almeno dal 2009.
I mercati finanziari tutto sommato non mostrano particolari preoccupazioni sulla tenuta del sistema Italia e dei conti pubblici, senza far crescere lo spread. E il governo Meloni ha ragione di vedere il bicchiere dell’economia mezzo pieno, anche se sono sempre sempre meno le possibilità di arrivare alla fine dell’anno a una crescita del Pil dell’1%, così come previsto da Palazzo Chigi (la Banca d’Italia stima ragionevolmente un +0,8%).
“Paradossi (e record) del lavoro”, scrive Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera mettendo in evidenza “i timori” legati a una situazione in cui il tasso di occupazione italiano è al 62,3% mentre negli altri grandi paesi Ue è attorno all’80% e i giovani e le donne continuano a essere in buona parte estranei al mercato del lavoro. Bassi salari, che non hanno recuperato l’inflazione degli ultimi anni. Crescente disaffezione rispetto alle imprese e alla pubblica amministrazione in cui si è occupati. Carenza di mano d’opera, aggravata dalle prospettive di “inverno demografico”. E un clima generale che fa temere che il dinamismo di cui l’Italia aveva dato prova proprio nel post Covid, più che in altre aree europee, tenda a scemare.
A guardare bene le cronache delle ultime settimane, al di là dell’andamento della congiuntura, si intravvedono però degli elementi di fragilità che è indispensabile tenere ben presenti, proprio per poter impostare politiche economiche e sociali in grado di rianimare l’economia e impostare una ripresa più solida, più duratura. E quegli elementi sono sia la crescita del peso dell’economia sommersa e illegale sia l’aumento della povertà, anche tra i lavoratori.
L’allarme risuona nelle parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Sacche di salari bassi lacerano la coesione sociale”, ha detto, alla cerimonia delle Stelle al merito per chi si è distinto nella sua attività lavorativa. Non si tratta solo di una questione economica. Ma di una ferita nel corpo del Paese, con conseguenze rilevanti sulla tenuta delle relazioni e sulla stessa solidità della comunità nazionale. La coesione sociale, infatti, è fondamentale per la democrazia. E senza questa coesione sono in discussione anche le possibilità di costruire robuste ipotesi di futuro e di sviluppo sostenibile per le nuove generazioni. Una democrazia solida è quella che riesce a tenere insieme le libertà politiche, sociali e civili, l’economia di mercato e dunque l’intraprendenza e la crescita economica e il welfare, il benessere diffuso. Altrimenti, la crisi si aggrava.
Insiste dunque il presidente Mattarella: “È vero che i dati sulla crescita confortano. Ma è anche vero che l’occupazione si sta frammentando, tra una fascia alta in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part time involontari e da precarietà. Si tratta di un elemento si preoccupante lacerazione della coesione sociale”.
Vediamo i dati, allora. Ci sono in Italia, secondo l’Istat (dati ‘23) 5,7 milioni di persone in povertà assoluta (erano 4,1 milione dieci anni fa) e le famiglie sono 2,2 milioni, con una percentuale dell’8,4%, in crescita rispetto al 6,2% del 2014. La povertà colpisce anche le famiglie che hanno come persona di riferimento un operaio: sale al 16,5% la loro quota, dal 14,7% del ‘22. Il Mezzogiorno è l’area più colpita. È vero che aumenta l’occupazione, dice sempre l’Istat, ma l’inflazione ha vanificato l’incidenza positiva del salario conquistato sulle possibilità di spesa: un calo dell’1,5% in termini reali della spesa equivalente. E più in generale, le retribuzioni reali hanno perso il 10% dal 2019 (dati Inps, Il Sole24Ore 18 ottobre).
C’è un altro fatto su cui riflettere: l’incidenza di povertà assoluta tra i minori, che si attesta al 13,8% e riguarda 1,3 milioni di bambini e ragazzi: generazioni che vedono compromesso il loro futuro e che rischiano di ritrovarsi ai margini dello sviluppo economico e della vita civile, con drammatiche discriminazioni sulla formazione, la sanità, la qualità della vita. Un’alterazione profonda del dettato della Costituzione sull’uguaglianza delle opportunità per i cittadini.
Su queste condizioni incide molto l’avere una economia “in nero”, sommersa o illegale: lavori poveri, bassa sicurezza, alta precarietà, carenza di diritti, misere prospettive. Ecco la seconda fragilità. Cui non si pone sufficiente rimedio (la storica tendenza ai condoni, previdenziali e fiscali, non aiuta certo l’emersione e la trasparenza economica).
“Economia sommersa e illegale: record a 202 miliardi (+9,6%), scrive Carlo Marroni sul Sole24Ore. L’economia sommersa vale 182 miliardi, quella illegale, terreno di potere e violenza di ‘ndrangheta, camorra e mafia oltre che delle varie altre organizzazioni criminali, sfiora i 20 miliardi. I dati sono dell’Istat e certificano come questa economia “nera” valga il 10% del Pil. Una crescente alterazione degli equilibri economici e sociali, un’altra mina che mette seriamente in pericolo la coesione sociale del Paese e ne limita fortemente le possibilità di sviluppo sostenibile, ambientale ed sociale.
Che risposta politica darne? Al di là delle misure, indispensabili, per tamponare le condizioni estreme di povertà e delle iniziative di contrasto del lavoro “in nero” e dell’evasione fiscale (si stanno recuperando risorse, ma poche e lentamente, con un Fisco che continua a gravare sul lavoro dipendente e le imprese in regola), serve una radicale, profonda politica economica e fiscale che promuova la crescita e la modernizzazione del Paese. E una politica industriale di respiro europeo che incoraggi gli investimenti nei settori che hanno più futuro. A cominciare dall’industria di qualità. E dunque faccia crescere i salari, agganciandoli alla produttività (e proprio su questo servirebbe avere una fiscalità di vantaggio).
Vale la pena, per averne un’indicazione, leggere le parole di Mario Carraro, uno dei migliori e più lungimiranti imprenditori italiani, 95 anni, industria metalmeccanica di qualità a Campodarsego (Padova) e grande passione per la cultura: “L’amore per la fabbrica e la riflessione costante fanno nascere il futuro”, ha detto in una intervista a Paolo Bricco (Il Sole24Ore, 20 ottobre). Ricerca, produttività, sguardo internazionale, politica di riforme, attenzione per l’innovazione e le energie delle giovani generazioni.
La crescita equilibrata del Paese, infatti, ha come cardine la sua industria migliore. Con la promozione e il sostegno fiscale a un made in Italy che non si concentri solo sul “tipico” ben conosciuto (abbigliamento, arredamento e agro-alimentare) ma faccia leva sui settori più competitivi e produttivi, la meccatronica e la robotica, la chimica e la farmaceutica, la cantieristica navale e l’aerospazio, la gomma e la componentistica automotive, cioè su tutte quelle produzioni industriali che fanno da pilastro per quei 630 miliardi di export che tengono in piedi il sistema Paese e alimentano una lunga serie di servizi innovativi per l’impresa. Qualità, innovazione e sviluppo, insomma. Salari e benessere. L’industria come cardine anche di quella coesione sociale che sta giustamente a cuore al presidente Mattarella e agli italiani più responsabili.
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