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Il problema della formazione politica

Scritto da Lorenzo Gaiani.

Lorenzo GaianiArticolo pubblicato da Il Giornale dei Lavoratori
Quello della formazione politica è oggi un problema di prima grandezza di fronte al pressapochismo e alla mediocrità di un classe dirigente che, nella dirigenza dei partiti e nelle assemblee locali non meno che in quelle legislative, dimostra ogni giorno i danni del dilettantismo e dell’improvvisazione. Ma per dare a questo problema la giusta collocazione occorre liberarsi da alcuni pregiudizi, il primo dei quali è quello di ritenere possibile una formazione politica “neutra”. Fu questo, ad esempio, il malinteso di fondo che condizionò i famosi corsi di formazione politica avviati dalla Diocesi di Milano all’indomani del Convegno diocesano sulla carità del 1986: l’intuizione del cardinale Martini fu quella di ritenere possibile il crescere di nuove vocazioni all’agire politico attraverso un percorso formativo che tenesse insieme l’insegnamento sociale della Chiesa con la condivisione delle tecnicalità necessarie alla gestione degli strumenti istituzionali. 
Tuttavia il progetto presentò subito dei limiti nella fase esecutiva, certamente legati alla gestione burocratico-curiale delle tematiche e del modello organizzativo, con conseguente marginalizzazione delle forze vive dell’associazionismo che non chiedevano di meglio di poter dare il loro contributo progettuale. Ma soprattutto il limite vero fu quello dell’assenza di uno sbocco possibile, nel senso che non potendosi dare da parte di un’istituzione ecclesiastica degli indirizzi di carattere politico/partitico (nessuno meno del card. Martini poteva essere sospettato di tentazioni neo–collateralistiche), inevitabilmente il modello formativo mancava della necessaria capacità di orientamento che deve sostanziare una proposta politica, perché una proposta politica non c’era.
Questa fu una delle principali ragioni che spinsero circa dieci anni dopo un grande specialista della formazione come Gino Mazzoli a considerare esaurito l’esperimento in un severo articolo pubblicato su “Aggiornamenti sociali”.
Dunque la formazione politica è consustanziale all’agire politico, ne è anzi una premessa necessaria, ma non può sostituire una proposta politica inesistente, men che meno può essere agita al di fuori della struttura di azione politica per eccellenza, cioè il partito.
Nella cosiddetta Prima Repubblica, la formazione nei partiti politici e nelle organizzazioni affini di natura sindacale o associativa (come le ACLI) aveva quale necessario presupposto la centralità dell’impianto ideologico e del programma dell’organizzazione, ed era esplicitamente finalizzata alla creazione di un nuovo ceto dirigente pronto ad assumere la guida del partito a livello centrale o locale ovvero a ricoprire incarichi di natura amministrativa o legislativa. Certo, le logiche erano diverse, e la prassi del funzionariato di partito in uso nel Partito comunista, e, in misura minore, in quello socialista, era assai diversa da quella più imprecisa in uso nella DC (vi era più simile l’esperienza della Scuola centrale per quadri associativi voluta da Livio Labor per le ACLI).
In un certo senso, questi modelli formativi erano una sorta di università popolare, che anche nelle versioni meno specializzate erano comunque utili per comunicare ad un ceto popolare diffuso nozioni politiche, economiche, sociali, storiche di cui nessun altro gli parlava, e per conseguenza di renderlo più consapevole dei propri diritti e della propria dignità. Inoltre, i capaci ed i meritevoli sapevano di poter avere in qualche modo, secondo l’espressione napoleonica, il bastone di maresciallo nel loro zaino.
Ma per l'appunto questo modello formativo era proprio di forze politiche sicure di sé, con un forte radicamento sociale e convinte di avere una continuità di presenza storica che andava oltre l’orizzonte temporale di una legislatura. Il “Big bang” del sistema politico postbellico avvenuto dal 1992 in poi ha creato una serie di sigle e di strutture partitiche o simili – tali che portava con sé il duplice stigma della precarietà e della confusione di idee. In effetti, per quanto nelle loro articolazioni nazionali, regionali e locali questi soggetti politici più o meno provvisori avessero in organigramma una delega alla formazione, di fatto essa veniva esercitata assai blandamente senza che vi fosse un programma serio a sostenerlo, e spesso l’assegnazione di un simile incarico era una modalità per giustificare l’ingresso di qualcuno negli organi dirigenti.
Ora, questo è l’esatto contrario di ciò che serve alla politica oggi, e lo dimostra l’esempio tedesco, dove non solo i partiti politici sono ben radicati nel contesto sociale, ma ognuno di loro è anche collegato ad una fondazione legalmente riconosciuta che ha il compito di ricerca e di studio (la “Konrad Adenauer” della CDU, la “Friedrich Ebert” della SPD, la “Heinrich Böll” dei Verdi, la “Rosa Luxemburg” della Linke….), svolgendo una funzione quasi di livello universitario con tanto di ricercatori, borse di studio e sezioni all’estero.
Sembra però che anche nel nostro Paese si stia giungendo ad una diversa concezione del ruolo della formazione politica e per conseguenza dei partiti politici, e non è un caso che tali segnali arrivino dalla maggiore forza politica, il Partito democratico, che con la recente intervista all’ “Espresso” di Matteo Renzi ha riconosciuto la necessità di un maggiore radicamento della struttura del partito, premessa necessaria per la costruzione di un progetto formativo di ampio respiro. La stessa annunciata presentazione di un progetto di legge per l’attuazione dell’art. 49 della Costituzione va in questo senso.
Il cammino sarà lungo, ma la necessità è tale da richiedere che esso venga imboccato con decisione.

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