La maschera del potere
Articolo di Lorenzo Gaiani.
La vicenda umana di Giulio Andreotti si è legata in modo così inestricabile alla storia della Repubblica da sembrare quasi che l’una sia la biografia dell’altro, o viceversa. In effetti, quando il giovane laureato in Giurisprudenza si affacciò alla vita politica grazie alla fiducia di Alcide De Gasperi, quell’antico bibliotecario vaticano
che al loro primo incontro lo aveva un po’ strapazzato, forse non aveva ben chiaro come tutta la sua vita, da quegli ultimi anni di guerra fino ad oggi, sarebbe stata sotto il segno del potere.
Perché in effetti, più che della politica Andreotti fu il teorico ed il praticante della religione del potere, come ha bene intuito Paolo Sorrentino nel suo lucido e visionario film “Il Divo”, impreziosito dalla straordinaria interpretazione di Toni Servillo. A differenza di suoi compagni di partito come De Gasperi, Fanfani e Moro che erano portatori di progetti più o meno riusciti e comunque volti ad incardinare la vicenda politica della DC –alla quale tutti si sentivano legati- in un disegno di più ampio respiro, Andreotti, che dalla lunga frequentazione della Curia romana aveva tratto un sottile e spesso esplicito cinismo che era essenzialmente sfiducia nella natura umana e nella provvisorietà delle sue costruzioni, aveva tratto l’idea che la sola aspirazione che si confacesse a chi otteneva il potere fosse quella di durare.
Questa evidente mancanza di progettualità non gli impedì di ottenere risultati importanti, ad esempio nel delicato campo della politica estera, nella quale, checché se ne dica, molti dirigenti democristiani, dai citati Fanfani e Moro fino al superstite Emilio Colombo, si esercitarono con perizia riuscendo a fare virtù della difficile situazione dell’Italia intesa come Paese di frontiera, democrazia fragile esposta a continui rischi di eversione da parte di mai sopite frange di nostalgici del fascismo annidate nei vertici burocratici, giudiziari e militari, affacciata sull’Est europeo avendo in casa il maggior partito comunista d’Occidente. A questa scuola è ascrivibile anche la politica nello scacchiere mediterraneo ed in quello mediorientale, come dimostra la credibilità a lungo mantenuta dall’Italia fra tutti i contendenti, israeliani e arabi in primo luogo.
Non ha torto, ci sembra, lo storico Miguel Gotor quando afferma che Andreotti, in ragione della sua capacità di collocarsi perennemente nella zona grigia dove lo Stato di diritto si confronta con i suoi nemici, ha potuto essere l’ultimo baluardo della democrazia sia a destra sia a sinistra in circostanze delicate come il Golpe Borghese e la lotta contro il terrorismo.
Ovvio che poi una certa disinvoltura nel cercare degli alleati per perpetuare il suo ruolo di notabile di peso nella DC e nel Paese – egli non volle mai avere incarichi formali di rilievo nel Partito, puntando piuttosto agli incarichi parlamentari e di governo – lo portasse a frequentazioni non sempre limpide, come dimostra la sentenza della Corte di Cassazione che nel 2004 confermò il giudizio per cui fino al 1980 egli aveva dato una “concreta e non generica collaborazione” a Cosa Nostra in base ai reciproci interessi di potere. Non vi fu condanna solo perché all’epoca della sentenza tali reati risultavano prescritti.
D’altro canto, la sua tendenza a servirsi come luogotenenti di personaggi screditati o ricattabili – Lima, Evangelisti, Sbardella, Cirino Pomicino - era determinata da una dinamica per cui la corrente andreottiana non aveva finalità di carattere ideologico, ma era potenzialmente aperta a chiunque purché questo chiunque fosse portatore di interessi concreti (“Concretezza” fu il nome della rivista che egli pubblicò per circa vent’anni per i tipi di Rizzoli) e conseguentemente di consenso. La sapienza di uomini tipica del sottobosco clericale e politico romano lo rendeva correlativamente indulgente verso le evidentissime tare morali dei suoi seguaci, che erano anche un ottimo modo per tenerli a sé fedeli tramite l’oculata distribuzione di prebende, secondo un modello mutuato per li rami da Giovanni Giolitti, per cui il leader deve essere moralmente inattaccabile (ed infatti né il piemontese né il romano furono mai accusati di alcunché che attingesse la loro vita privata o le loro personali finanze) anche se è circondato da seguaci che visibilmente non lo sono.
Nel 1992 il suo sistema di potere era già logoro, ed egli non se ne accorse, nonostante l’avvisaglia chiarissima dell’assassinio di Salvo Lima e poi di Ignazio Salvo da parte di una Cosa Nostra infuriata per le mancate promesse in ordine all’invalidazione del maxiprocesso: la mancata elezione a Capo dello Stato fu il segnale definitivo del viale del tramonto per l’uomo che aveva incarnato l’equilibrio di quella che si conviene chiamare Prima Repubblica, e la sua morte avviene nel pieno di una tormentata stagione segnata dalla ricerca di un nuovo equilibrio che da vent’anni manca.
Articolo pubblicato da Nuovi Italiani.
Articolo pubblicato da Nuovi Italiani.