La strada da fare
Articolo di Lorenzo Gaiani.
La vicenda del Governo Letta incrocia quella del Congresso del Partito Democratico: anzi, ad essere sinceri la attraversa, ne diventa l'oggetto principale, ne ridefinisce i contenuti. Perché parlare di questo Governo significa parlare della vittoria dimezzata - che in termini politici è una sconfitta - alle elezioni di febbraio, al venir meno della prospettiva del Governo di cambiamento,
all'affermarsi di un'inedita e del tutto non richiesta alleanza con il PDL e degli infiniti problemi che essa comporta – come pure delle prospettive che potrebbe aprire.
Un'opinione pubblica sconcertata e disamorata non tollererebbe da quello che allo stato è il maggior partito politico del Paese l'aprirsi di una fase congressuale tutta incentrata sui regolamenti di conti interni, segno infallibile di una dialettica ripiegata su se stessa, e meno ancora gradirebbe le alchimie che alcuni giornali, tanto per attizzare le discordie interne, iniziano a distillare nel senso per cui se “gli ex DC” hanno avuto i maggiori incarichi di governo allora “gli ex PCI” debbono controllare il Partito … Ecco, se si deve cominciare da qualche parte a ricostruire il PD allora è bene evitare in qualunque circostanza di dire “noi e loro”, e diffidare di chiunque continui a usare simili espressioni. Anche perché, detto sottovoce, non è che in questi anni abbiamo assistito a chissà quali battaglie ideologiche o di principio, all’interno del PD: quasi sempre i nostri scontri interni sono stati motivati da obiettivi assai più terra terra.
Non si tratta di rinnegare la dinamica correntizia che sempre c’è stata (anche nei partiti che negavano l'esistenza al loro interno di correnti) e sempre ci sarà, ma di definire una volta per tutte a quale finalità si vuole tendere nell'insieme, e come l'aspirazione al cambiamento, all'“Italia giusta” per usare uno slogan sfortunato ma nondimeno pregno di significati, si coniughi con l'esigenza di sostenere un Esecutivo che dovrà basarsi su mille compromessi quotidiani con un alleato/avversario che fin da subito sembra adottare il linguaggio della provocazione e dell'umiliazione.
Anche perché, passati i giorni dell'ira dopo le tragicomiche vicende presidenziali, i settori più maturi e realistici dell'opinione pubblica di sinistra si rendono conto che non saranno dei “cantieri” vagamente onanistici a dare voce, forza e rappresentanza politica alle loro istanze. Un partito riformista e democratico c'è, e se lo si vuole più rispondente ai propri ideali bisogna agire dall'interno per cambiarlo, come sembra si stiano orientando a fare molti giovani con sano pragmatismo. Ma questo sarà possibile se l'articolazione del dibattito interno saprà definire meglio quelli che sono i capisaldi della linea politica del Partito ed accordarli con l’azione di governo, sapendo che non si potrà ottenere tutto quello che si vuole, ma che si dovrà agire per ottenere il meglio possibile.
E le difficoltà sono all’ordine del giorno, se è vero che la prima controversia, quella dell’IMU, ha dato la misura di quanto il PDL ritenga prioritarie le promesse demagogiche fatte in campagna elettorale piuttosto che i vincoli europei e i bilanci delle Amministrazioni locali (lo si vada a chiedere a molti Sindaci di destra che cosa significherebbe per loro e per i loro Comuni il venir meno di questa imposta). Ma se si vogliono evitare le improvvisazioni dilettantistiche - come ha ricordato bruscamente il Ministro dell’Economia Saccomanni - occorrerebbe inscrivere il tema dell’IMU in quello più generale della fiscalità locale, la quale a sua volta è un elemento della concezione del rapporto fra Stato, Regioni ed Enti locali e in senso più lato dell’idea di Stato di cui un partito politico che ha le ambizioni del PD è portatore. E in questa prospettiva si colloca anche la vicenda dell’abolizione delle Province, di cui pure ha parlato Letta nel suo discorso programmatico, che a sua volta è collegata alla vicenda delle Città metropolitane: tutti organismi di rilievo costituzionale, la cui sorte deve per conseguenza inquadrarsi in un disegno più ampio.
Per il resto, la preoccupazione che il profilo politico del PD non si confonda con quello dei suoi attuali compagni di strada è forse quella che angustia di meno: infatti, se la legge elettorale nazionale arieggiasse almeno lontanamente quella delle Regioni e dei Comuni il problema del Governo di larghe intese nemmeno sussisterebbe, tanto evidente è la differenza di impostazioni, di idee e di costumi fra PD e PDL i quali infatti a tali livelli presentano candidati fra loro contrapposti.
Un piccolo esempio per chiarire il concetto: durante il dibattito sulla fiducia alla Camera il 29 aprile l’on. Claudio Fava ha ricordato che il giorno dopo sarebbe caduto il trentunesimo anniversario dell’assassinio per mano mafiosa di Pio La Torre. A questo nome i parlamentari del PD, di SEL, del M5S e di Scelta civica si sono alzati in piedi ed hanno applaudito. Gli altri – intendo PDL, Lega e Fratelli d’Italia – sono rimasti seduti. Non sono queste le cose che fanno cadere i Governi, beninteso. Però gesti – o non gesti- come questi tracciano un discrimine, definiscono una differenza.
E a questo discrimine, a questa differenza occorre rimanere aggrappati per passare attraverso questa difficile prova senza rinnegare noi stessi.
Un'opinione pubblica sconcertata e disamorata non tollererebbe da quello che allo stato è il maggior partito politico del Paese l'aprirsi di una fase congressuale tutta incentrata sui regolamenti di conti interni, segno infallibile di una dialettica ripiegata su se stessa, e meno ancora gradirebbe le alchimie che alcuni giornali, tanto per attizzare le discordie interne, iniziano a distillare nel senso per cui se “gli ex DC” hanno avuto i maggiori incarichi di governo allora “gli ex PCI” debbono controllare il Partito … Ecco, se si deve cominciare da qualche parte a ricostruire il PD allora è bene evitare in qualunque circostanza di dire “noi e loro”, e diffidare di chiunque continui a usare simili espressioni. Anche perché, detto sottovoce, non è che in questi anni abbiamo assistito a chissà quali battaglie ideologiche o di principio, all’interno del PD: quasi sempre i nostri scontri interni sono stati motivati da obiettivi assai più terra terra.
Non si tratta di rinnegare la dinamica correntizia che sempre c’è stata (anche nei partiti che negavano l'esistenza al loro interno di correnti) e sempre ci sarà, ma di definire una volta per tutte a quale finalità si vuole tendere nell'insieme, e come l'aspirazione al cambiamento, all'“Italia giusta” per usare uno slogan sfortunato ma nondimeno pregno di significati, si coniughi con l'esigenza di sostenere un Esecutivo che dovrà basarsi su mille compromessi quotidiani con un alleato/avversario che fin da subito sembra adottare il linguaggio della provocazione e dell'umiliazione.
Anche perché, passati i giorni dell'ira dopo le tragicomiche vicende presidenziali, i settori più maturi e realistici dell'opinione pubblica di sinistra si rendono conto che non saranno dei “cantieri” vagamente onanistici a dare voce, forza e rappresentanza politica alle loro istanze. Un partito riformista e democratico c'è, e se lo si vuole più rispondente ai propri ideali bisogna agire dall'interno per cambiarlo, come sembra si stiano orientando a fare molti giovani con sano pragmatismo. Ma questo sarà possibile se l'articolazione del dibattito interno saprà definire meglio quelli che sono i capisaldi della linea politica del Partito ed accordarli con l’azione di governo, sapendo che non si potrà ottenere tutto quello che si vuole, ma che si dovrà agire per ottenere il meglio possibile.
E le difficoltà sono all’ordine del giorno, se è vero che la prima controversia, quella dell’IMU, ha dato la misura di quanto il PDL ritenga prioritarie le promesse demagogiche fatte in campagna elettorale piuttosto che i vincoli europei e i bilanci delle Amministrazioni locali (lo si vada a chiedere a molti Sindaci di destra che cosa significherebbe per loro e per i loro Comuni il venir meno di questa imposta). Ma se si vogliono evitare le improvvisazioni dilettantistiche - come ha ricordato bruscamente il Ministro dell’Economia Saccomanni - occorrerebbe inscrivere il tema dell’IMU in quello più generale della fiscalità locale, la quale a sua volta è un elemento della concezione del rapporto fra Stato, Regioni ed Enti locali e in senso più lato dell’idea di Stato di cui un partito politico che ha le ambizioni del PD è portatore. E in questa prospettiva si colloca anche la vicenda dell’abolizione delle Province, di cui pure ha parlato Letta nel suo discorso programmatico, che a sua volta è collegata alla vicenda delle Città metropolitane: tutti organismi di rilievo costituzionale, la cui sorte deve per conseguenza inquadrarsi in un disegno più ampio.
Per il resto, la preoccupazione che il profilo politico del PD non si confonda con quello dei suoi attuali compagni di strada è forse quella che angustia di meno: infatti, se la legge elettorale nazionale arieggiasse almeno lontanamente quella delle Regioni e dei Comuni il problema del Governo di larghe intese nemmeno sussisterebbe, tanto evidente è la differenza di impostazioni, di idee e di costumi fra PD e PDL i quali infatti a tali livelli presentano candidati fra loro contrapposti.
Un piccolo esempio per chiarire il concetto: durante il dibattito sulla fiducia alla Camera il 29 aprile l’on. Claudio Fava ha ricordato che il giorno dopo sarebbe caduto il trentunesimo anniversario dell’assassinio per mano mafiosa di Pio La Torre. A questo nome i parlamentari del PD, di SEL, del M5S e di Scelta civica si sono alzati in piedi ed hanno applaudito. Gli altri – intendo PDL, Lega e Fratelli d’Italia – sono rimasti seduti. Non sono queste le cose che fanno cadere i Governi, beninteso. Però gesti – o non gesti- come questi tracciano un discrimine, definiscono una differenza.
E a questo discrimine, a questa differenza occorre rimanere aggrappati per passare attraverso questa difficile prova senza rinnegare noi stessi.