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La nostra storia

Scritto da Lorenzo Gaiani.

Lorenzo GaianiGli anniversari di quei personaggi che in un modo o nell’altro hanno segnato la storia diventano inevitabilmente l’occasione per riflettere su quanto del loro lascito sia vivo oppure irrimediabilmente defunto, e servono nello stesso tempo a fare un bilancio della loro esperienza umana, culturale e politica.
Certamente alcuni anniversari ci toccano più degli altri, e se abbiamo potuto passare quasi sotto silenzio il bimillenario della scomparsa di Ottaviano Augusto, cioè di una figura che a suo tempo ebbe una valenza universale e fu il signore di un impero sconfinato, altri anniversari più vicini nel tempo ci toccano più direttamente.
Non deve meravigliare perciò il dibattito che si è aperto intorno alle vite parallele ed opposte di Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti nel cadere ravvicinato dell’anniversario delle loro morti (19 agosto 1954 – 21 agosto 1964) , e ancor meno che esso abbia avuto un riflesso di carattere politico perché la vita di questi due uomini coincise pressoché interamente con la loro azione politica.

 

Naturalmente occorre andare oltre le contingenze, tipo la polemica ciociara originata dalla provocazione di Fioroni e dalla risposta di Sposetti – i Tom&Jerry della Tuscia - per cercare di comprendere meglio come queste due complesse figure storiche siano ancora in grado di parlare alla politica di oggi.
Ovviamente questa tematica investe in primo luogo il Partito Democratico, il quale non è nato da un’improbabile fusione fra DC e PCI, come ad alcuni piace credere, ma da un sofferto e forse non del tutto compiuto processo di amalgama fra soggettività diverse cui hanno indubbiamente contribuito persone che affondavano le loro radici nelle due maggiori forze politiche della Prima Repubblica, ma che hanno dimostrato per il fatto stesso di avere intrapreso questo cammino di collocarsi oltre esse, e di non concepire la loro storia personale e politica come un peso insopportabile o un’atavica maledizione. Prova ne sia la rapidità con cui il “democristiano” Renzi, una volta arrivato alla guida del PD, lo ha portato a pieno titolo nella famiglia del Partito socialista europeo diventandone rapidamente uno degli azionisti di maggioranza.
E allora quale è la lezione oggi possibile dei due uomini politici che segnarono la prima fase della vicenda repubblicana, che collaborarono al Governo e alla Costituente per poi rompere clamorosamente una volta mutate le circostanze interne ed internazionali e diventare i simboli dello scontro frontale delle elezioni politiche del 18 aprile 1948?
De Gasperi ebbe da subito la percezione che la sicurezza e lo sviluppo del nostro Paese stessero in un contesto di alleanze internazionali che passava attraverso la NATO ed il rapporto con gli Stati Uniti, ma soprattutto era orientato verso la realizzazione di una sempre crescente integrazione europea come garanzia contro gli orrori di due guerre mondiali che avevano dissanguato il nostro Continente e che aveva profondamente segnato la generazione cui De Gasperi stesso apparteneva. Infatti, lo scacco decisivo della sua politica fu il fallimento della Comunità europea di difesa (CED) come possibile strumento di integrazione militare che non prescindeva, visti i rapporti di forza dell’epoca, dal rapporto con l’alleato d’Oltreatlantico, ma in qualche misura avrebbe potuto prefigurare l’esistenza di una forza autonoma europea una volta venuta meno la logica dei blocchi (e ne avremmo tanto bisogno oggi…).
Nel contesto interno De Gasperi si orientò ad una politica di coinvolgimento di tutte le forze che fossero funzionali alla scelta di campo occidentale, scartando (e fu un elemento di contrasto con i suoi oppositori interni sia che facessero riferimento agli elementi più retrivi del mondo cattolico, come Luigi Gedda, sia a quelli più progressivi, come Giuseppe Dossetti) la possibilità di un’autosufficienza politica della Democrazia Cristiana, anche al fine di valorizzare l’apporto di settori sociali diversi alla difficile politica di ricostruzione nazionale dopo una guerra disastrosa. Si dice che egli abbia seguito in campo economico una linea rigorosamente liberista, ma non si considera come effettivamente sotto il suo governo vi sia stata la prima riforma agraria del nostro Paese – per quanto disorganica, ma sufficiente per mettere in allarme le destre- e che proprio De Gasperi abbia permesso ad Enrico Mattei non solo di non liquidare l’AGIP ma di trasformarla progressivamente, con la nascita dell’ENI, in uno dei principali poli di sviluppo del nostro Paese. Né va dimenticato come lo statista trentino sia sempre stato contrario ad ogni ipotesi di allargamento a destra – cioè verso monarchici e neofascisti – della sua maggioranza, scontando per questo non poche incomprensioni sia nei rapporti con la Gerarchia ecclesiastica (che avrebbe preferito per l'Italia una soluzione di tipo salazariano o franchista) che con certi settori dell’opinione pubblica.
Correlativamente, come ha fatto notare con grande finezza Guido Crainz, l’età degasperiana fu anche un periodo di “democrazia blindata”, di una gestione spregiudicata dell’ordine pubblico in base a leggi del periodo prefascista e fascista, di un’applicazione lacunosa della Costituzione, la cui piena realizzazione veniva implicitamente rimandata a quando fosse stato meno urgente il problema del contenimento della presenza dei social comunisti – percepiti come strumenti della politica di potenza sovietica- nella società italiana.
Togliatti dal canto suo fu segnato dalla sua vicenda di dirigente della Terza Internazionale nel periodo dell’affermazione più brutale del potere di Stalin, e quindi dall’aura di luogotenente del signore del Cremlino che lo accompagnò prima nelle vicende della guerra civile spagnola e poi nel contesto della ricostruzione della presenza del PCI in Italia durante e dopo la guerra di liberazione. Si è a lungo parlato della “doppiezza” del leader comunista, ossia del suo accreditare da un lato il PCI come forza perfettamente integrata nella democrazia italiana, ed anzi come più risoluto difensore del suo impianto costituzionale, senza peraltro rinnegare il “legame di ferro” con l’URSS e gli altri Paesi del blocco orientale, facendo intravvedere a militanti e simpatizzanti la possibilità di un esito analogo per il nostro Paese come conseguenza di un’affermazione elettorale peraltro problematica dopo il 1948.
L'interpretazione corrente è che tale linea di condotta fosse in qualche modo necessitata dalla duplice esigenza di radicare sempre di più il partito, che aveva conquistato l'egemonia a sinistra capovolgendo il rapporto di forze con un PSI estenuato dalle scissioni e dalla mancanza di una linea autonoma, in un contesto nazionale che ne facesse l'erede e la sintesi di tutte le forze progressive del Paese, e dall'altro di non perdere il richiamo fortissimo dell'esperienza sovietica come sovversione di una situazione sociale ancora segnata da secolari ingiustizie, nella consapevolezza della presenza di un'opposizione interna al PCI che avrebbe potuto far valere l'appoggio della centrale moscovita.
E' in questo senso che si situa l'operazione di recupero, ordinamento e utilizzo culturale e politico del pensiero di Antonio Gramsci da parte di Togliatti: è certo che il leader comunista abbia operato un approccio selettivo e in qualche caso stravolgente dell'opera del geniale pensatore marxista imprigionato dai fascisti, ma è altrettanto certo che senza Togliatti il pensiero gramsciano sarebbe rimasto sostanzialmente ignoto ai più. Proprio la lezione gramsciana, così ostica per i dirigenti comunisti di formazione strettamente cominternista, permise a Togliatti di operare l'aggancio del PCI ad un preciso filone di pensiero progressivo nella storia d'Italia, consentendo così al suo partito di accreditarsi quale grande forza nazionale e non come mero ripetitore delle istanze sovietiche, che lo avrebbe condannato alla progressiva emarginazione e al declino cui furono consegnati tutti gli altri partiti comunisti occidentali, compreso quello francese segnato da un feroce anti-intellettualismo. Può darsi abbia ragione Luciano Canfora quando afferma che la mediazione gramsciana fosse funzionale ad un disegno di reimmissione del PCI all'interno del filone socialdemocratico, ma è improbabile che, almeno per quanto riguardava Togliatti, tale obiettivo fosse dichiarato anche solo in foro interno.
Contemporaneamente Togliatti dovette mantenersi a cavallo di equilibri mutevoli interni ed esterni al Partito, avallando la repressione sovietica in Ungheria e l'esecuzione di Nagy e dei suoi collaboratori, e nello stesso tempo operando spietatamente per ridurre l'ampiezza delle frange insurrezionaliste e filosovietiche soprattutto dopo l'estromissione di Pietro Secchia dalla guida dell'organizzazione.
Ma il merito principale di De Gasperi e Togliatti sta essenzialmente nel fatto di non aver permesso che la vivace e spesso violenta contrapposizione politica aperta dall'estromissione dei socialcomunisti dal Governo nel maggio 1947 degenerasse in una seconda guerra civile interna allo schieramento antifascista. Non è un caso che uno dei rimproveri maggiori che le destre rivolsero al leader democristiano fu proprio quello di non aver messo fuorilegge i partiti dell'estrema sinistra, mentre invece tramite il suo fido collaboratore Mario Scelba faceva approvare una legge che parificava a reato la ricostituzione e l'apologia del fascismo.
Dal canto suo Togliatti rifiutò sistematicamente ogni approccio di carattere ribellistico ed insurrezionale, a costo di scontentare settori importanti della dirigenza del PCI e dello stesso PCUS, e anche dal letto di ospedale dove era ricoverato a seguito dell'attentato del luglio 1948 fece sempre opera di smorzamento di ogni velleità rivoluzionaria prevedendone in anticipo l'inutilità ed il fallimento.
In conclusione, si può dire che, essendo venute meno le condizioni fondamentali dell'esistenza dei partiti politici cui i due leader facevano riferimento, di loro debbono restare essenzialmente alcune caratteristiche fondamentali che, sia pure declinate in forma diversa, hanno segnato la loro esperienza personale e politica (che come abbiamo detto all'inizio, in due personalità del genere è pressoché indistinguibile).
In primo luogo, il radicamento in un quadro di convinzioni politiche e valoriali forti, che li apriva ad una visione di cambiamento del nostro Paese. Ad esso si univa una fiducia sostanziale nella capacità d'incidenza della politica come esperienza di massa gestita dai partiti politici nella prospettiva di riforme necessarie al cambiamento. Una forte attenzione alla realtà sociale e ai suoi cambiamenti. La capacità di gestire uomini e cose in modo spregiudicato, e per certi versi anche cinico, secondo le esigenze tattiche che si inserivano nel quadro generale della loro strategia politica.
Insomma, quell'insieme di virtù che distinguono l'uomo politico, e se si vuole lo statista, dal dilettante velleitario o dal trafficone corrotto. E, come sempre, se di quelli c'è penuria, di questi purtroppo c'è abbondanza.

 

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