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La musica e l’arte antidoti all’orrore della guerra

Scritto da Il Sole 24 Ore.

Articolo del Sole 24 Ore.

Narrano i biografi un episodio occorso ad Arturo Toscanini la sera del 14 maggio 1931. Si trovava il maestro a Bologna per dirigere un concerto al Teatro Comunale: musiche di Giuseppe Martucci, educatore all’arte di Wagner e compositore, nel ventennale della morte. Giungono in città, per una fiera commerciale, i notabili del regime Costanzo Ciano e Leonardo Arpinati, che pure vogliono assistere al concerto. Si chiede al maestro di dirigere, o far eseguire dall’orchestra, la Marcia Reale e Giovinezza. Toscanini rifiuta: non già per gesto di dissenso politico (qualche simpatia per il nazionalismo dannunziano e per il Mussolini gli sarà sempre imputata), ma per rispetto dell’austero e pietoso rito in memoria di Martucci. Una masnada di facinorosi lo attende all’ingresso del teatro, assale l’autista, schiaffeggia il maestro, che, sospeso il concerto e consigliato da amici, nella notte lascia Bologna e riparte per Milano. Corse voce che a levare le mani fosse il giovane Leo Longanesi, autore, il giorno dopo, su L’assalto, di un dissacrante articolo dal titolo “Fine di un’estetica”.
Capitolo della bruta e torbida violenza, che nega il carattere universale e la grandezza umana dell’arte. Violenza rozza e incolta, la quale è altro dalla forza creatrice delle idee e dal movimento storico di individui e popoli. Il rifiuto di Toscanini proteggeva il tempio, serbava l’antica venerazione per i riti dei morti, diceva la schietta voce della libertà interiore. Quella voce ascoltata dai cuori anche nei tempi oscuri di regimi tirannici.
A Wilhelm Furtwängler, sommo direttore d’orchestra (e autore di pagine finissime su suoni e parole), fu mossa accusa di esser rimasto in Germania negli anni del nazionalsocialismo. Ne seguì, dopo il 1945, un tristo processo di “denazificazione”, concluso con sentenze pienamente assolutorie. Ma doloroso fu il rapporto con Thomas Mann, esule in America (di cui si fece cittadino) e giudice severo di scrittori e artisti restati in patria. Alla fine d’una udienza denazificante, Furtwängler, secondo quello che narra la moglie Elisabeth nelle proprie memorie, pronunciò queste parole profonde: «Nessuno che non fosse allora qui in Germania può giudicare come si stava qui. Thomas Mann intendeva davvero che nella Germania di Hitler non si dovesse poter suonare Beethoven. Non poteva immaginarsi che mai uomini più dei tedeschi che dovettero vivere sotto il terrore di Hitler, ebbero maggiore necessità e bramavano più dolorosamente di ascoltare e rivivere Beethoven e il suo messaggio di libertà e di amore per gli uomini». Ma questo non intese la stampa americana che, settaria e minacciosa, nel 1948 impedì a Furtwängler di soggiornare a Chicago per alcun tempo e di dirigerne l’orchestra.
Queste cronache, che tuttavia esprimono alti e nobili significati, tornano alla memoria quando si legge di un sindaco di grande città (sindaco assai stimato per capacità e impegno amministrativo) che intima al maestro russo Valery Gergiev di condannare la propria patria in armi, e al rifiutante irroga la sanzione del silenzio musicale. Allievo di Yuri Temirkanov, Gergiev, invitato nei teatri di tutto il mondo, ha raggiunto fama e prestigio a tal segno da dirigere anche nell’aula solenne di una delle nostre Camere.
Gli schiaffi patiti da Toscanini, e la dolorosa dichiarazione di Furtwängler testimoniano che la musica, al pari di qualsiasi espressione d’arte, sta, essa sì, oltre ogni confine e lotta politica, simbolo e portatrice ai popoli di libertà spirituale. È la musica che risuona nella terra di nessuno, in labile tregua fra le truppe nemiche, dolce amica dell’una e dell’altra parte; o che echeggia solitaria in Varsavia distrutta e deserta, come nelle scabre immagini del film di Polanski. D’intorno la storia fa il suo corso, rovinano città e imperi, cadono regimi tirannici o democratici, ma questo filo di libertà interiore e di tenerezza spirituale mai si rompe, e sempre ci conforta nelle durezze del vivere.
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