Le riforme per il Paese e le politiche PD
Proverò a sottolineare il fatto che c’è un’idea di Paese in ciò che stanno facendo il PD e il Governo Renzi, che attraversa le riforme (alcune già attuate e altre progettate), tutto il lavoro di questi sette mesi e gli interventi radicali per cambiare il nostro Paese.
Oggi l’Italia vive una crisi economica molto pesante, la ripresa economica annunciata, in Europa non c’è stata e, nonostante gli sforzi di risanamento dei bilanci del Paese (o forse proprio a causa del fatto che per risanare i bilanci non è stato possibile investire sul futuro), abbiamo perso competitività e, soprattutto, siamo in recessione. Questo Paese ha bisogno di interventi urgenti e di riforme profonde, sapendo che questo può significare anche dover rimettere in discussione assetti, privilegi e abitudini radicati nella nostra società.
Per raggiungere l’obiettivo stiamo mettendo in campo una serie di riforme che sono collegate tra loro: in esse è contenuta l’idea di come bisogna cambiare il Paese. Questa idea viene perseguita nell’unico modo in cui è possibile farlo e cioè con un Governo che lavora per realizzare al più presto le riforme. Questo cambia inevitabilmente anche il modo di intendere i rapporti con le parti sociali rispetto al passato.
Tuttavia, vorrei sottolineare, che l’immagine che viene dipinta di un Governo in cui la maggioranza impone le leggi così come sono state presentate all’inizio è una caricatura: la riforma costituzionale è uscita dal Senato in modo molto diverso da come è arrivata (a partire dalla composizione del Senato, al Titolo V, alle competenze dei nuovi senatori) e lo stesso si può dire per il Jobs Act (il maxi-emendamento su cui il Governo ha posto il voto di fiducia conteneva al suo interno gran parte delle indicazioni scritte negli emendamenti presentati al testo originario da alcuni membri del PD).
Guardando il Jobs Act, ad esempio, uno dei punti su cui il testo è stato modificato riguarda la questione del demansionamento. Si tratta di uno dei punti che aveva suscitato maggiori preoccupazioni. Personalmente penso che ci fosse bisogno di regolamentare il demansionamento, che oggi viene utilizzato ogni volta che c’è bisogno di intervenire per salvare posti di lavoro in una fabbrica in crisi (e lo sanno bene anche i sindacalisti). Con il testo approvato in Senato questo viene fatto, stabilendo che il demansionamento non può comportare una riduzione salariale per il lavoratore.
Così come il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti diventa l’unico contratto incentivato dallo Stato e c’è già una traduzione chiara e concreta di ciò all’interno della Legge di Stabilità. Non è vero, quindi, che non c’è ascolto ma c’è uno stile diverso che, personalmente, ritengo sia quello che serve in questo momento, in cui abbiamo bisogno di correre.
Mentre stavamo discutendo il Jobs Act, in molti hanno detto che non era quella la soluzione ai problemi dell’Italia per l’occupazione e la crescita economica ma nessuno, infatti, aveva detto che da solo quel provvedimento sarebbe stato sufficiente. In Senato, oggi abbiamo iniziato a discutere il decreto sulla riforma della giustizia civile, perché sappiamo tutti che le lungaggini e le incertezze generate dalla giustizia civile sono elementi che allontanano gli investimenti dall’Italia. Alla Camera dei Deputati è stata incardinata la legge anticorruzione. Abbiamo iniziato a lavorare alla riforma della Pubblica Amministrazione perché il tema della burocrazia è un altro problema che occorre affrontare per far tornare a crescere il Paese.
Il Jobs Act, quindi, si va ad inserire all’interno di una serie di interventi e, al di là delle polemiche che ci sono state, occorre chiarirsi su quali finalità ha la riforma del lavoro. In Italia ci sono 9 milioni di lavoratori con contratti precari che, nel momento in cui perdono il lavoro, restano da soli e non hanno alcun ammortizzatore sociale che li tuteli. L’obiettivo da raggiungere, quindi, era quello di capire come si potevano estendere gli ammortizzatori sociali (ovviamente riformandoli) a tutti i lavoratori che perdono l’occupazione, garantendo loro un periodo in cui possano godere di un salario di disoccupazione - in rapporto agli anni di lavoro - e garantendo che in quel periodo ci sia un impegno dello Stato non solo alla formazione ma anche a presentare proposte alternative di occupazione. Questo implica una riforma delle agenzie del lavoro (anche perché oggi la moltiplicazione di esse e delle agenzie che si occupano della formazione hanno prodotto un sistema eterogeneo che non funziona e che spesso è dispendioso, in cui si annidano anche corruzione e sperperi) che si traduce nella proposta di ricostruire un sistema con un’unica agenzia nazionale.
Un altro problema è che attualmente sono in vigore circa 40 forme contrattuali e sono troppe, per cui si è reso necessario raccogliere l’indicazione che viene dall’Unione Europea di rendere il contratto a tempo indeterminato la forma prevalente. Questo implica il tentativo di ridurre il numero di contratti e, quindi, fare in modo che nessuno dei contratti diversi da quello a tempo indeterminato a tutele crescenti sia economicamente conveniente per le aziende (oggi, infatti, molti dei contratti a termine vengono utilizzati esclusivamente perché sono economicamente più convenienti per le imprese e non perché hanno necessità di quella tipologia di lavoratore). Nel testo approvato c’è scritto questo e l’indicazione è quella di lasciare solo i contratti a termine o stagionali che sono necessari davvero all’azienda e non di farli utilizzare perché costano meno. L’unico contratto incentivato, quindi, sarà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Con il decreto attuativo si vedranno nel dettaglio le tutele crescenti, tuttavia, già oggi, possiamo dire che c’è una norma all’interno della Legge di Stabilità con cui si stanziano 2 miliardi per pagare i contributi per i primi 3 anni, esentando le imprese, per i nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. In questo sta l’incentivo e la convenienza economica per le aziende e la prospettiva per il mercato del lavoro.
Ragionando nel campo delle tutele crescenti, occorre pensare a che tipo di tutele garantire nel nuovo contratto per avere ciò che con il vecchio contratto era garantito dall’art. 18, cioè la garanzia per il lavoratore rispetto alla possibilità di licenziamento.
Probabilmente la garanzia non sarà molto diversa da quella che garantisce oggi l’art. 18 come riformato dalla Legge Fornero. L’art. 18, in ogni caso, non viene tolto ma rimane per tutti i contratti in essere così come previsto nella forma attuale della Legge Fornero e, quindi, applicabile solo ai lavoratori di un’azienda con più di 15 dipendenti che, in caso di licenziamento senza giusta causa, possono chiedere il reintegro. L’esperienza di questi tre anni in cui è stato in vigore, però, dimostra che quasi sempre anche il lavoratore chiede la monetizzazione.
Il tema, quindi, non è quello di togliere le tutele a chi le ha per darle agli altri. Questa ipotesi non è mai stata in discussione. Non si toglie alcuna tutela a chi ne ha ma occorre costruire un contratto che garantisca a chi oggi non ha tutele di averne, magari diverse o inferiori a quelle garantite dall’art.18 nella sua versione originaria, ma questa è la strada. Nella Legge di Stabilità si stanziano quindi 2 miliardi con lo scopo di rendere concreto l’obiettivo di incentivare il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e si dà concretezza anche all’idea della riforma degli ammortizzatori sociali (cioè il salario di disoccupazione per tutti coloro che perdono il lavoro) mettendo un miliardo e mezzo nella per questa finalità.
Serve comunque una riforma degli ammortizzatori sociali e dell’ASPI, che deve diventare un’assicurazione personale del lavoratore pagata dalle aziende per garantire il salario di disoccupazione. Deve esserci una partecipazione dello Stato ma, soprattutto, delle aziende redistribuendone tra esse il carico, perché è paradossale che oggi, ad esempio, per la cassa integrazione succede che pagano le aziende sane e chi ne beneficia non ci mette un euro.
Anche la riforma del Senato sta dentro a questo ragionamento, così come la riforma del finanziamento pubblico ai partiti. In questi 7 mesi abbiamo costruito un percorso con due obiettivi: rilanciare il Paese dal punto di vista economico e ridare credibilità all’Italia in Europa, sapendo però che o questo Paese ricostruisce un rapporto di fiducia tra i cittadini e la politica e tra i cittadini e le istituzioni o non ce la facciamo a chiedere ai cittadini di modificare gli assetti e di rinunciare allo status quo. Abbiamo bisogno di ricreare la fiducia nei cittadini e per questo credo che vadano in questa direzione la riforma del finanziamento pubblico ai partiti, la riforma del Senato e l’idea di modificare snellendo e rendendo più moderno l’assetto istituzionale. Non penso che il nuovo assetto sarà meno democratico. Se ci poniamo il problema della partecipazione in realtà, abbiamo introdotto norme che rendono i referendum abrogativi meno difficili, abbiamo anche introdotto il referendum propositivo, abbiamo modificato il Titolo V per evitare una serie di contenziosi che hanno di fatto reso più difficile il funzionamento dello Stato in questi anni (anche per responsabilità nostra perché la prima riforma del Titolo V l’aveva fatta il centrosinistra). L’idea, insomma, è quella di dire ai cittadini che innanzitutto cambiamo noi: dobbiamo cambiare il Paese ma sappiamo che prima di tutto dobbiamo cambiare la politica e le istituzioni e credo che questo sia un messaggio forte e di cui non dobbiamo avere paura.
La crisi della rappresentanza è una questione che non riguarda solo i partiti. Nessuno deve avere paura di misurarsi con il tema di come cambiare di fronte alla crisi di rappresentanza che oggi coinvolge tutti i soggetti intermedi (i sindacati, le rappresentanze professionali, le categorie), perché tutti hanno problemi.
In Senato, facendo il relatore della Legge sull’emergenza abitativa, ho incontrato 20 associazioni imprenditoriali, quindi è chiaro che non si sentono sufficientemente rappresentati da Confindustria, che c’è un ripiegamento corporativo e ognuno vuole rappresentare il “proprio orticello” ma così diventa tutto più complicato.
Un altro capitolo è quello della Legge di Stabilità, che credo sia una scommessa straordinaria e difficile ma necessaria. Una manovra di queste dimensioni l’abbiamo fatta solo quando abbiamo dovuto entrare in Europa ma era diversa perché allora si fondava sulla tassa per l’Euro mentre questa è una manovra che si fonda per 18 miliardi sulla riduzione del carico fiscale. Esattamente quello che tutti hanno chiesto di fare: hanno continuato a spiegare che il Jobs Act non sarebbe servito a niente perché il vero problema era abbassare il carico fiscale; adesso c’è una manovra che abbatte il carico fiscale di 18 miliardi e in essi c’è la conferma degli 80 euro e c’è l’estensione di questo bonus in forma di detrazione ad una serie di partite IVA e alle famiglie in difficoltà e c’è una riduzione dell’IRAP alle aziende per 5 miliardi. Oggi serve mettere le aziende nella condizione di avere più soldi, spendere meno e pensare al futuro.
Nella discussione, penso che possa essere utile fare un tentativo per far mettere questi 5 miliardi di riduzione dell’IRAP a disposizione soprattutto delle aziende che si impegnano ad investire.
Siccome si fa uno sforzo molto grande, quello sforzo deve essere indirizzato in maniera più cogente a promuovere investimenti perché i 5 miliardi di riduzione dell’IRAP non possono servire per aumentare il profitto o difendere l’azienda ma devono rilanciare la crescita. Così come gli 80 euro devono servire a rilanciare i consumi.
In questo sta anche il ragionamento sul TFR. Nella Legge di Stabilità è prevista un’uscita di 100 milioni sulla manovra per il TFR e serve a garantire le aziende che devono versare il TFR in busta paga che non perderanno i soldi. La finalità della manovra sul TFR è quella di provare anche in questo modo a mettere in circolazione soldi che possono essere funzionali al rilancio dei consumi. Al momento ci sono molti dubbi, però, si sta parlando comunque di una scelta volontaria e che non riguarda i soldi già depositati ma i prossimi maturati in un periodo circoscritto fino al 2018 e questo limita un po’ le preoccupazioni. Resta il tema delle tasse perché, probabilmente, per i redditi medio-alti, il TFR in busta paga può rischiare di far alzare l’aliquota. C’è poi anche il tema del pubblico impiego: oggi i lavoratori pubblici non possono ritirare il TFR neanche per pagarsi il mutuo, come invece possono fare i lavoratori del settore privato. Tuttavia, resta una manovra che costa poco, è volontaria e dura solo fino al 2018.
Dentro alla Legge di Stabilità viene poi stanziato 1 miliardo per allentare il Patto di Stabilità dei Comuni e dare ad essi la possibilità di spendere un po’ di più. C’è 1 miliardo e 200milioni che servono a cofinanziare gli interventi promossi con i Fondi Europei e, quindi, è utile perché consentirà all’Italia di utilizzare le risorse messe a disposizione dall’UE più di quanto non sia stato fatto fino ad ora. Ci sono anche 500 milioni per la scuola.
Questo, insomma, è il quadro strategico.
Vorrei sottolineare, inoltre, che nella Legge di Stabilità non c’è alcuna clausola di salvaguardia. Nelle precedenti manovre tutte fondate su imposte e non sulla defiscalizzazione come questa, c’è sempre stata una clausola di salvaguardia per cui se non si riusciva a raggiungere gli obbiettivi di risanamento sarebbero aumentate le accise o l’IVA (cosa che è successa all’inizio del Governo Letta, dove è aumentata l’IVA dell’1% perché era stata messa da Berlusconi come clausola di salvaguardia nella sua ultima manovra). Ci sono poi 11 miliardi a debito. Abbiamo sentito dire per mesi che l’Europa era “cattiva” perché ci impediva di investire e oggi, invece, con questa manovra riusciamo a rispettare i parametri, a non sforare il 3% ma anche ad andare a debito per investire. Questi 11 miliardi non saranno finanziati con le tasse.
Ci sono 3 miliardi e mezzo finanziati dalla lotta all’evasione fiscale e questo oggi è un po’ più credibile perché alla Camera dei Deputati è stata approvata la norma sul rientro dei capitali dall’estero e la norma sull’autoriclaggio, che c’è già in tutta Europa mentre in Italia mancava e può costituire un deterrente per gli evasori e coloro che hanno portato i soldi all’estero, essendo un reato penale.
Autoriciclaggio sono i fondi di provenienza illecita (e anche l’evasione fiscale è considerata provenienza illecita) che vengono utilizzati per speculare in attività economiche e ora diventa un reato punibile dai 2 agli 8 anni. Questo è uno strumento importante per la lotta all’evasione fiscale e anche per far rientrare i capitali dall’estero.
C’è poi la questione della semplificazione: con la Delega Fiscale è anche finanziata la scelta di arrivare ad un’unica tassa sulla casa, anche allo scopo di semplificare.
Arriveranno 1,5 miliardi dal gioco d’azzardo con l’aumento della tassazione sui giochi, cosa che avevano chiesto tutti e 3,5 miliardi arriveranno dalla tassazione sulle rendite (che era stata introdotta con il provvedimento degli 80 euro).
E poi ci sono 15 miliardi di spending review. Credo che tradurre spending review in tagli orizzontali sia una scorrettezza. Spending review non vuol dire tagli alla Sanità o ai servizi ma significa fare ciò che tutti sostengono da anni che bisogna fare e cioè i tagli agli sprechi, rendendo lo Stato più efficiente e più magro. Sei di questi 15 miliardi sono di riduzione dei costi dei Ministeri e dello Stato, quindi il grosso dell’intervento sarà lì, mentre 4 miliardi saranno sulle Regioni. In Regione Lombardia, qualche giorno fa, hanno dato 20mila euro di premio di produzione a qualche centinaio di dirigenti che guadagnano 100/200mila euro all’anno, e personalmente ritengo che si sarebbe dovuto evitare e giustamente vada chiesto di tagliare. Non esiste l’automatismo per cui ogni volta che qualcuno dice che occorre tagliare gli sprechi c’è qualcun altro che risponde che i cittadini si troveranno a dover pagare di più la Sanità e ad avere meno servizi nascondendo che, a quel punto, sarà una responsabilità della Regione se sceglie di far pagare di più i cittadini invece di risparmiare.
Se si dice che diminuiamo le tasse viene risposto che mancheranno i servizi, se aumentiamo le tasse rispondono che vessiamo i cittadini, è ovvio che dobbiamo trovare una strada e io credo che quella tracciata da questa Legge di Stabilità sia una strada possibile ed equilibrata.
In Parlamento verrà fatta la discussione e si modificherà ciò che è necessario. Ad esempio, a mio avviso, non è corretto che tutte le Regioni paghino la stessa cifra.
L’idea che spending review voglia dire automaticamente tagli sulla Sanità e tasse per i cittadini (come oggi sostiene anche una parte del sindacato), però, è scorretta.
Ad oggi la manovra che abbiamo di fronte è fatta di 18 miliardi di riduzione delle tasse.
Penso che questa possa creare posti di lavoro, così come con il Jobs Act può eliminare le diseguaglianze profonde che oggi ci sono nel mondo del lavoro tra chi ha un contratto a tempo indeterminato e chi rischia di non averlo mai, che garantisce a tutti i lavoratori ciò che prima non era garantito, cioè gli ammortizzatori sociali. Stiamo facendo ciò che serve al Paese e lo stiamo facendo anche redistribuendo un po’ della ricchezza perché gli 80 euro sono stati 9,5 miliardi andati tutti ai lavoratori dipendenti che guadagnano tra i 1000 e i 1500 euro ed è un’operazione anche di redistribuzione, così come lo è la tassazione sulle rendite finanziarie.
La cosa inaccettabile è dire che queste cose sono inique o che si sta facendo “macelleria sociale” perché non è vero. Se c’è della preoccupazione perché questi provvedimenti si possano tradurre in altro, lavoriamo tutti perché non succeda ma non credo che questo possa essere altro se non ciò che serve al Paese, cercando di aiutare il più possibile chi ha bisogno.
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Video dell'intervento conclusivo»