Game Change
Articolo di Lorenzo Gaiani per Affaritaliani.
I tre giorni di follia che hanno segnato le elezioni presidenziali, che si sono consumati pressoché per intero nel Partito Democratico hanno avuto molti effetti, alcuni dei quali probabilmente non si sono ancora compiutamente dispiegati.
Il primo di essi evidentemente è stato la caduta di Pierluigi Bersani e dell’intero gruppo dirigente che gli faceva corona. Si è trattato di un gesto necessario, perché l’incapacità di gestire il passaggio parlamentare della candidatura di Franco Marini prima e di Romano Prodi poi era solo la goccia che faceva traboccare il vaso di una gestione incerta del risultato elettorale di febbraio, che peraltro non era addebitabile solo al Segretario del Partito ma che in lui trovava il maggiore esponente, come è ovvio.
Il secondo è stato la rielezione di Giorgio Napolitano, unico punto di aggregazione possibile di fronte ad una gravissima crisi politica che si innestava nel cuore di un’altrettanto grave crisi sociale: la motivazione del rifiuto del PD di votare per la candidatura, assai rispettabile, di Stefano Rodotà sta essenzialmente nel fatto che non si poteva permettere al Movimento Cinque Stelle, dopo mesi di ostinati e sprezzanti rifiuti a trattare con il primo partito politico d’Italia, di porre in essere un’evidentissima OPA ostile sulla sinistra individuata come il ventre molle di un sistema che Grillo ed i suoi vogliono destrutturare e non riformare.
Il terzo è la riproposizione del tema del Governo da dare al Paese, che, stante l’impossibilità di trattare con il M5S, vuol dire avviare trattative con gli altri soggetti presenti in Parlamento, in particolare PDL e Scelta Civica. Non si tratta di scoprire improvvisamente che Berlusconi dopo tutto è un tipo rispettabile: Berlusconi rimane quello che è, un affarista spregiudicato che si è messo in politica per preservare se stesso ed il proprio patrimonio, ed ha spesso assunto atteggiamenti eversivi nati da una sostanziale ignoranza dei meccanismi della democrazia formale. Al tempo stesso, Berlusconi è da vent’anni il capo indiscusso di una forza politica che non è mai discesa al di sotto del 20% dei consensi popolari e per quattro volte – sia pure malissimo- ha guidato il Governo di questo Paese. Se si deciderà – come è molto probabile- di dare vita ad una qualche forma di governo che preveda la collaborazione fra PD e PDL occorrerà sempre ricordarsi di questa duplice natura di Berlusconi e porre i necessari paletti.
Il quarto effetto, ancora tutto da valutare, è la tenuta del PD, il quale è stato l’epicentro della crisi di questi giorni, forse perché è l’ultimo partito organizzato e con procedure democratiche interne più o meno certe che sia rimasto, e che ha rinnovato seriamente la sua rappresentanza parlamentare. La vicenda della mancata elezione di Marini e, soprattutto, il killeraggio di Romano Prodi da parte di 101 franchi tiratori quasi tutti di ambito democratico sono il segno di una crisi interna che nasce da rapporti irrisolti più che da questioni ideologiche non appianate. Certamente vi è anche un problema di costume politico, visto che ormai nessuno vuole più sentirsi vincolato da decisioni prese a maggioranza, come invece dovrebbe accadere in un contesto democratico. Inoltre, se è vero che i nuovi mezzi di comunicazione hanno accorciato le distanze fra le persone, e quindi anche fra elettori ed eletti, è anche vero che la loro gestione deve essere condotta con estrema prudenza, sapendo che se non li si domina si rischia di venirne dominati, al punto di scambiare per una dilagante volontà popolare il consenso a Rodotà espresso in ultima analisi da sole 4677 persone in base alle imperscrutabili regole delle “Quirinarie” pentastellate. Inoltre, se si insiste troppo a definire l’uno o l’altro come il “candidato Presidente degli Italiani” c’ è il rischio concreto che ci si possa domandare se non sia il caso di eleggerlo direttamente, su schede di carta, il Presidente della Repubblica: esito paradossale per chi ha sostenuto la candidatura di un fiero nemico di ogni forma di presidenzialismo! Si apre quindi un passaggio denso di incognite che il PD dovrà affrontare con grande fermezza e prudenza, dovendo nel contempo procedere a darsi una nuova dirigenza che sia all’altezza delle sfide del tempo soprattutto nel senso di essere estranea alle lotte e agli odi di una fase politica superata. Il PD ha le forze per gestire questo passaggio, ed è significativo che la prima verifica elettorale, quella delle elezioni regionali friulane, abbia visto l’affermazione di Debora Serracchiani e del PD come prima forza politica in una Regione che gli è sempre stato ostica, proprio mentre il M5S inizia a rinculare, forse perché coloro che lo avevano votato incominciano a dubitare della capacità di Grillo&Casaleggio di gestire un simile consenso.
Occorre quindi scartare con nettezza ogni tentativo di diversioni demagogiche in presenza di una grave crisi politica, economica e sociale.
In questo senso, le recenti uscite sgraziate e fuori tempo del Segretario della Federazione milanese del PD sono il miglior esempio di quello che non si deve fare in una simile fase: elogiare il dissenso rispetto a decisioni prese a maggioranza, affermare la necessità di “capire” gli anonimi affossatori della candidatura di Prodi e assumere atteggiamenti di facile populismo di fronte alle scelte responsabili che il PD deve prendere in questa fase non sono certo indice di quella prudenza e misura che si vorrebbero nel dirigente di una delle maggiori Federazioni metropolitane del Paese.
E’ chiaro che l’avvicendamento della classe dirigente deve partire anche da qui, ed il più presto possibile.