Voglio un’etica della Politica
Articolo di Emilia De Biasi per Rolling Stone.
Una settimana di passione. Giorni di sms di insulti, di solidarietà, di smarrimento. Riunioni dei grandi elettori del PD dagli esiti istituzionali sconcertanti. Incontri notturni alla ricerca di una soluzione. Media scatenati come mai alla caccia della dichiarazione clamorosa, dello scoop destinato a svanire in un istante, del tassello mancante al disegno del complotto, e via così.
L’Aula, capirete, con più di 1000 persone che vi stazionavano appariva sempre di più una sorta di bivacco della politica d’oggi, fatta di volti noti, seminoti e tanti tanti sconosciuti. E sconosciute. I cinquestelle sempre fra di loro, gli altri insieme con la cauta diffidenza di chi ne ha già passate troppe insieme per potersi fidare impunemente. E dentro il PD un misto di ingenuità e vecchiovolpismo, di alcuni che erano fieri di aver disubbidito e altri che non si capacitavano della disubbidienza altrui. “Diteci chi sono i centouno che hanno tradito e non hanno votato Prodi!”, gridano dai circoli territoriali. E come si fa a sapere col voto segreto? Una cosa è certa: io voglio un’etica della politica, perché non è accettabile che si decida all’unanimità e poi ci sia chi nel segreto dell’urna fa quel che gli pare. La libertà non può mai essere scissa dalla responsabilità. Qui c’era in ballo il Paese, non una mozioncina da assemblea studentesca d’altri tempi. Incendiato Marini, leader del movimento operaio, fondatore dell’Ulivo e del PD, incendiato Prodi, l’unico ad aver battuto Berlusconi per due volte, incendiato Bersani, che si è dimesso da segretario del PD. Fermate le macchine! I grandi elettori PD al mattino hanno gli occhi della notte in bianco, la preoccupazione è alle stelle, la lettura dei giornali come un film dell’orrore. Si vota scheda bianca. Poi all’ora di pranzo, il miracolo. Giorgio Napolitano, ancora una volta tira fuori dai guai il Paese e accetta di rifare il Presidente di un paese a pezzi come la sua classe dirigente. Un Bersani provatissimo e furioso ci chiede di spegnere telefonini e facebook e ci intima di prenderci le nostre responsabilità di parlamentari. Si vota. Napolitano prende più della maggioranza assoluta richiesta dalla sesta votazione, molto di più. È il segnale dell’unità del Paese, della responsabilità delle istituzioni di fronte alla crisi crescente. Un lungo applauso accoglie la notizia. Tutti in piedi. Io come una mozzarella mi commuovo. I cinquestelle restano seduti. Hanno molto da imparare, mettiamola così. Stefano Rodotà frena la marcia su Roma di Grillo, “non mi sono mai piaciute le marce su Roma”, dichiara, e aggiunge che “ogni decisione del Parlamento è democratica”. È un grande, e il mio cuore è doppiamente sollevato. Oggi Napolitano ha giurato in un’Aula attenta e con un discorso altissimo. Da impunita quale sono aggiungerei che ci ha fatto uno shampoo doppio, una strapazzata ai partiti e ai cinquestelle. Mi avete voluto, ho accettato, ma ora tocca a voi, cari partiti finora incapaci di stare insieme e fare le riforme per l’Italia, e cari cinquestelle sappiate che non si deve contrapporre la piazza alle istituzioni. Una grande lezione sulla democrazia, un monito ultimativo ad osservare il nostro compito di eletti: legge elettorale, lavoro, crescita economica, scuola e ricerca. Insomma un governo. E se non siete capaci, ha aggiunto, e non lo fate, tirerò le conseguenze davanti al Paese. Non è più il tempo di guardare il proprio ombelico. Il tempo è scaduto. Usciamo dall’Aula sobriamente addobbata per la solennità come quelli che hanno rischiato di affossare un Paese e l’hanno scampata bella. Ci sarà molto da riflettere. Avremo tempo per farlo. Ora però dobbiamo dare all’Italia un governo. Nessuna politica, anche la più alta, può vivere senza una missione. La nostra è la salvezza del Paese. Non ci possiamo permettere un grande avvenire dietro le spalle.
P.S. Grazie Giorgio!