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Combattere la salute diseguale: ricerca, accesso, cura

Scritto da Piera Landoni.

Piera LandoniRelazione tenuta agli Incontri Riformisti 2017 (file pdf - video).

Negli ultimi decenni si è assistito ad un costante miglioramento della salute della popolazione italiana: è aumentata l’aspettativa di vita, si è ridotta la morbosità, si vive più anni in salute. Purtuttavia, non tutti i cittadini hanno beneficiato allo stesso modo di questi progressi e sebbene da anni ci si interroghi sul destino della sanità universale e sul rischio dell’acuirsi delle disuguaglianze nell’accesso alle cure, hanno colpito l’attenzione di molti i risultati del VII Rapporto RBM-Censis sulla Sanità Pubblica, Privata e Integrativa, preceduto, tra le altre, da molte importanti ricerche a tema analogo nel corso degli ultimi tre anni.
Il Sistema Sanitario Pubblico e Universale non è per tutti. I fabbisogni crescono a seguito dell’evoluzione sociodemografica ed epidemiologica e sempre più persone, se non potranno attingere alla sanità privata, andranno ad ingrossare l’area della sanità negata.
Sono 12,2 milioni gli Italiani che quest’anno hanno dovuto rinviare o rinunciare a curarsi per motivi economici (1,2 milioni in più rispetto all’anno precedente) con una tendenza in preoccupante aumento. Sono 7,8 milioni gli Italiani che hanno dovuto usare tutti i risparmi o si sono indebitati e 1,8 milioni quelli entrati nell’area delle nuove povertà. Ma sono tanti anche quelli che, pur avendo un reddito regolare, di fronte ad un esame o ad una visita più o meno urgente, senza controlli o quasi, hanno deciso di rivolgersi al mercato privato. Il rapporto ci dice che, anche impoverendosi, gli italiani nel 2016 hanno tirato fuori dalle loro tasche 35,2 miliardi di euro, il 4,2% in più rispetto al 2013. Più della spesa per altri consumi che, nello stesso periodo, sono cresciuti del 3,4%.
La spesa sanitaria privata è ormai una componente stabile dei consumi dei pazienti e col crescer dell’età e, di conseguenza dei fabbisogni sanitari, le persone si trovano a dover acquistare sempre più servizi e prestazioni sul mercato privato. A farne le spese, sia nel caso dell’out of pocket, sia nel caso estremo della rinuncia o del rinvio, sono soprattutto i più fragili, gli anziani over 65 che spendono una volta e mezza più dei baby boomers e i non autosufficienti che spendono il doppio.
Una spesa out of pocket crescente che, tenuto conto del fatto che il Rapporto non contempla la voce “assicurazioni sanitarie”, ma include i ticket per visite e farmaci, ci dice anche che questi ultimi, rispetto al 2007 sono aumentati del 53,7% (+162,2% per i ticket per i farmaci e +6,1% per i ticket sulle prestazioni sanitarie).
Il nostro Welfare si è evidentemente ristretto nel corso degli anni, tanto che la Corte dei Conti, nel suo Rapporto 2016, ha certificato che “gli investimenti nel settore sanitario hanno segnato una flessione molto consistente e il contributo dello stesso settore al risanamento negli anni della crisi è stato di rilievo”.
La razionalizzazione si è concretizzata, non solo nel taglio agli sprechi, ma ha abbracciato varie misure come l’individuazione dei prezzi di riferimento e di centrali d’acquisto, meccanismi di controllo delle prestazioni, il blocco del turn over del personale, la definizione di tetti e regole, l’aumento della compartecipazione.
La Corte dei Conti ha infatti quantificato una media di riduzione dell’1,1% all’anno nel periodo 2009-2015”, mentre nello stesso periodo in Francia la spesa pubblica è cresciuta dello 0,8% ed in Germania del 2%. In Italia la spesa sanitaria pubblica si è assestata al 6,8% del PIL, in Francia all’8,6% e in Germania al 9,4%.
Ciononostante, come più volte sottolineato nel corso del Festival dell’economia di Trento, centrato quest’anno sulle disuguaglianze in Salute, il nostro SSN si attesta fra i migliori al mondo in quanto a speranza di vita, rapporto fra spesa sanitaria e risultati raggiunti e trattamento delle patologie acute, ma i segnali di uno scivolamento progressivo sul piano dell’appropriatezza, della tempestività della risposta, del grado di soddisfazione e dell’equità, ci sono tutti. E riguardano la sostenibilità economica di un sistema, sempre meno in grado di far fronte ai cambiamenti strutturali, oggi in atto in termini di invecchiamento progressivo e massiccio della popolazione, di adeguamento allo sviluppo delle cronicità, delle comorbilità e dei bisogni assistenziali ad esse collegati (per il momento ancora sulle spalle delle famiglie), della presenza di forti differenze fra regioni.
La crisi non è l’unica responsabile di questo fenomeno. Le risultanze ci dicono che il vecchio sistema di welfare -stretto fra vecchie inefficienze, nuovi tagli alla spesa e prestazioni non più all’altezza della nuove esigenze di cura- richiede un ripensamento complessivo della Sanità. La fuga nella sanità privata e la rinuncia alle cure stanno lì a dimostrarlo.
Dietro la fuga dal SSN ci sono fattori (seppure in diversa misura fra Nord e Sud del Paese) come: l’eccessiva lunghezza delle liste d’attesa (sono 31,6 milioni gli italiani che hanno avuto difficoltà di accesso alle prestazioni sanitarie pubbliche, soprattutto per gli interventi chirurgici e le visite specialistiche, e si sono rivolti al privato); accessi impropri e sovraffollamento dei Pronto Soccorso; l’accesso sempre più limitato ai farmaci, perché al di là dei farmaci salvavita ve ne sono molti altri dei quali i pazienti non possono fare a meno e quindi devono acquistare di tasca propria; il costo dei ticket, ormai uguale, se non più alto, rispetto alle tariffe delle strutture private; le difficoltà di accesso a servizi essenziali, come i trasporti, soprattutto per le persone anziane e fragili; la scarsa diffusione delle cure domiciliari; i problemi sempre più crescenti con medici di famiglia e pediatri a causa di orari di ricevimenti non agevoli, di frequenti sottovalutazioni nell’affrontare i problemi di salute, della mancata prescrizione di farmaci ed esami diagnostici; la difficoltà ad avere informazioni in tema di percorsi protetti ed accessi; il degrado delle strutture.
Purtuttavia, studi ormai ventennali ci dicono che la fuga dal pubblico, il ricorso alla spesa privata, la rinuncia alle cure sono il sintomo di un sistema diseguale che attraversa gli Stati, le regioni, i territori, le classi d’età, i generi, i gruppi sociali, ma che forse sarebbe troppo affrettato attribuire alle diverse sanità regionali, dal momento che le disparità fra Nord e Sud, fra zone periferiche e grandi città, arrivano da lontano, da prima del 2001, fin dalla nascita del SSN e si acuisce oggi anche alla luce della discrasia fra risorse disponibili e livelli di assistenza auspicati.
E quanto riduttiva sia questa visione ce lo dimostra l’approfondito dibattito che si è svolto nei giorni scorsi, alla dodicesima edizione del Festival dell’Economia di Trento, interamente dedicato alla “Salute Diseguale” e alle molteplici angolature dalle quali può essere trattato e studiato il fenomeno: dal punto di vista dell’economia, del diritto, dell’etica, della bioetica, della sociologia, della ricerca e dell’innovazione.
Il concetto più volte ripetuto nei diversi incontri è che tra i più importanti determinanti sociali della salute ci sono, non solo il reddito, il lavoro e il livello di istruzione, ma anche le condizioni socio economiche in cui vivono le persone. La conoscenza e il monitoraggio degli effetti dei tanti determinanti in campo sono fondamentali per definire gli interventi, ridurre le disuguaglianze e migliorare il benessere della popolazione.
Risulta ormai chiaro che quanto più si è ricchi (ma il reddito da solo non basta), istruiti, residenti in aree non deprivate, e in generale dotati di risorse e opportunità socioeconomiche, tanto più si tende a presentare un profilo di salute più sano. Al contrario, povertà materiale, carenza di reti di aiuto, disoccupazione, lavoro poco qualificato, basso titolo di studio sono tutti fattori, spesso correlati tra loro, che minacciano la salute degli individui.
Se in Italia, come negli altri paesi europei, con un colpo di bacchetta magica si potessero eliminare le disuguaglianze di mortalità tra le persone più istruite e quelle meno istruite si stima che si eviterebbero più del 25% delle morti tra gli uomini e il 20% tra le donne, la stessa cosa capita tra ricchi e poveri o tra operai e dirigenti.
I livelli di salute rilevabili in una società e la loro distribuzione tra gruppi sociali, non dipendono unicamente dalla capacità dei servizi sanitari di provvedere alla cura o alla prevenzione delle malattie, ma anche dalle scelte delle istituzioni e delle politiche di settore che producono e distribuiscono opportunità e risorse in un territorio (si fa riferimento alle politiche economiche, fiscali, ambientali, culturali, urbanistiche, del lavoro, dell’istruzione e così via), oltre che di tutti gli stakeholder che in questi settori operano.
A sua volta la posizione sociale influenza la probabilità di essere esposti ai principali fattori di rischio per la salute fisica e mentale, tra i quali: quelli legati all’ambiente dove le persone risiedono e lavorano (chimici, biologici, fisici ed ergonomici); i fattori di rischio psicosociali, ovvero lo squilibrio tra quello che si esige da una persona e il grado di controllo che essa ha sul proprio lavoro, tra la remunerazione e le richieste, il grado di supporto e coesione di cui la persona fa esperienza nelle quotidiane condizioni di vita e di lavoro; gli stili di vita insalubri, come il fumo, l’alcool, l’obesità, l’inattività fisica, la cattiva alimentazione, il sesso non protetto.
Se questo è lo scenario, le risposte politiche per l’equità e per il superamento delle disuguaglianze di salute non possono essere giocate solo sul piano delle politiche “sanitarie” . È ben vero che una sanità universalistica, di qualità e accessibile resta una variabile cruciale e che il sistema sanitario rimane parte integrante della risposta; ma è pur vero che le sfide alla politica si giocano sul piano più articolato dell’approccio Health in all policies (come recita l’accordo europeo in tema di salute del 2007) la capacità cioè di programmare politiche in tutti i campi coinvolti e influenti – politiche sociali, economiche, del lavoro, dell’educazione, del governo delle città, dell’ambiente, dell’alimentazione – con attenzione all’impatto e alle ricadute di ognuna in termini di salute; sia in maniera proattiva, mirando a interventi con efficaci effetti positivi sul potenziale di salute e di bilanciamento delle disuguaglianze; sia in maniera preventiva, “identificando gli impatti che queste politiche hanno sui determinanti e in particolare l’impatto asimmetrico che si trasferisce sulla popolazione, aumentando di fatto lo svantaggio e le conseguenze sulla salute di alcune fasce o gruppi” (Costa, 2014).
In questo quadro, le politiche di lotta alle povertà e all’esclusione diventano cruciali: posizione sociale, reddito, istruzione, occupazione e qualità del lavoro sono tra i primi e più incisivi determinanti sociali di salute, così come la forbice delle disuguaglianze sociali si traduce nel divario, spesso ampio su uno stesso territorio, tra le condizioni di salute dei gruppi sociali. L’equità nella salute è una sfida globale, e la sua complessità, la molteplicità delle variabili in gioco, la stretta interdipendenza tra tutti i fattori che “fanno” la salute sono una straordinaria lente attraverso la quale leggere la qualità delle politiche in campo a livello globale.
E in Lombardia? Nella regione che, solo due anni fa, aveva annunciato di voler porre rimedio alle storture e alle diseconomie, che il SSR aveva generato, attraverso una legge di riordino del SSR (l.r. n.23/2015), stanno via via emergendo l’incompiutezza del disegno di legge, il venir meno degli obiettivi, anche importanti, che Maroni si era posto con il libro Bianco e le enormi difficoltà nell’attuazione dei principi in essa contenuti.
Il passaggio da ASL e AO ad ATS ed ASST ha generato forti conflittualità fra ATS ed ASST, sia per quanto riguarda il passaggio delle risorse umane e strumentali, sia per quanto riguarda l’attribuzione di funzioni. Il sistema privato (che beninteso rappresenta un prezioso strumento complementare di salute) è stato ulteriormente rafforzato a discapito di quello pubblico, ponendo in secondo piano l’integrazione ospedale/territorio, con buona pace dello sviluppo del pilastro in maggiore sofferenza in Lombardia: la medicina del territorio che avrebbe dovuto trovare, nelle ASST, il punto di incontro fra cure ospedaliere, interventi specialistici, cure primarie e continuità assistenziale.
Per contro permangono tutte le criticità storiche del sistema di welfare locale: frammentazione, difficoltà di accesso, tempi di attesa lunghi, iper specializzazione di alcuni servizi, la riduzione di alcune prestazioni specialistiche in relazione alla nuova distribuzione delle competenze tra ATS e Asst, l’allungamento dei tempi di erogazione soprattutto nelle valutazioni specialistiche (tutela minori, neuropsichiatria), il cambiamento del personale in servizio, con la conclusione degli incarichi a contratto e il ricollocamento di personale proprio.
Ma soprattutto, la riforma, resasi necessaria per mettere il sistema in grado di affrontare la pandemia del secolo, ossia la cronicità, non è riuscita in questo delicato obiettivo. A testimonianza di questa difficoltà nel mese di gennaio e maggio, a prescindere dal lavoro in corso sulle modifiche del testo di legge, sono state emanate due delibere che, sulla carta, dovrebbero consentire l’attivazione dei meccanismi per la presa in carico dei pazienti con 2 o più patologie croniche.
Il sistema ivi disegnato risulta però complesso, di difficile comprensione e lontano dall’assicurare (a detta dei soggetti coinvolti nell’operazione) una vera presa in cura della persona malata, né tantomeno l’abbattimento delle liste d’attesa e una riduzione del ricorso al Pronto Soccorso. La sensazione che tutto si riduca ad una mera operazione elettorale è suffragata, purtroppo, anche dal fatto che i Medici di famiglia e i Pediatri di Libera scelta hanno accolto molto freddamente il provvedimento regionale e in buona parte non stanno prendendo parte a questa ulteriore riorganizzazione dell’offerta di cura. Restano al palo anche la rete delle cure domiciliari e quella delle cure intermedie, così come i presidi di prossimità POT e PRessT, nei quali avrebbe dovuto realizzarsi l’incontro fra MMG, PLS, Medici Specialisti, operatori socio sanitari e tutti quei soggetti responsabili della presa in carico e della stesura dei piani di cura, prevenzione e riabilitazione dei pazienti con pluripatologie croniche.
Di questo si è parlato nel corso del convegno “Le sfide della Sanità lombarda fra Innovazione e Disuguaglianze” organizzato, venerdì 30 giugno u.s., dal gruppo e dal partito democratico regionale. I diversi tavoli hanno affrontato, con l’aiuto di numerosi esperti e personalità del mondo della Sanità, della Ricerca e dell’Università, i temi legati alla prevenzione, alla ricerca, all’accesso alle reti, alla sostenibilità finanziaria, alla cronicità.
Molti gli spunti e le proposte che dovranno trovare adeguata traduzione sul piano programmatico, ma soprattutto è stata l’occasione per tracciare un metodo efficace di lavoro e aprire canali relazionali forieri di futuri sviluppi sul piano delle idee e delle proposte di miglioramento del Sistema.
Un sistema che, nonostante registri un’aspettativa di vita tra le più alte dei Paesi OCSE, più alta della media nazionale, con i suoi 80,6 anni di aspettativa di vita per gli uomini e 85,1 per le donne, ha bisogno di idee efficaci per affrontare una tasso di denatalità in crescita (31.000 bambini 3.250.000 malati cronici (1.900.000 con una sola patologia cronica, 1.300.000 con 2 o 3 patologie e 150.000 con 4 o più patologie) ossia il 30% della popolazione che drena il 70% delle risorse del SSR, oltre ad utilizzare, con una certa assiduità, anche le strutture sanitarie private (lo fa il 35% dei malati cronici).
Questa ondata di domanda necessita di azioni di miglioramento in più direzioni che vanno dalla formazione degli operatori, all’informazione ai cittadini, alla presa in carico, ai percorsi di cure primarie, al potenziamento dei servizi territoriali, alle cure domiciliari, alla continuità della cura, alle dimissioni protette, alla promozione di reti, fino alla partecipazione attiva di pazienti, famiglie e portatori di interessi.
Azioni di miglioramento necessarie, anche al fine di meglio finalizzare la Spesa sanitaria regionale che ad oggi cuba circa 19 miliardi di euro che, fatto 100 il totale, risulta così suddivisa:
- 12% farmaceutica territoriale
- 5% prevenzione
- 5% cure primarie
- 5% protesica
- 3% altro
- 70% ospedaliera
Del 70% della spesa ospedaliera (40% è destinato alle strutture private e 60% al pubblico) la metà va a coprire la spesa per il personale e l’altra metà viene spesa sui device (cit. Bergamaschi).
A questi 19 mld. di Fondo Sanitario Regionale occorre poi aggiungere la spesa “out of pocket” dei cittadini che, per curarsi, mettono in circolo ancora 4 mld. di euro: somme rilevanti e centrali per tutto il sistema produttivo lombardo che interrogano la nostra capacità (come politica) di garantire crescita e sviluppo recuperando a sistema quanto i cittadini già immettono di tasca propria nei flussi di spesa.
Nel caso di regione Lombardia le risorse investite sono state tante, per lo più sulla cura e sulla rete ospedaliera, ma sul resto è rimasta indietro. Si tratta ora di modulare diversamente gli investimenti e di collegare l’ampia spesa privata dei cittadini con la presa in carico pubblica per investire di nuovo in salute sui settori rimasti tradizionalmente fuori, ma che oggi si rivelano essenziali per favorire un allungamento della vita che porti con sé anche un miglioramento delle condizioni di salute e di benessere generale (Fattore).
Macron, nel suo programma elettorale, ha sintetizzato in poche parole chiave, comprensibili ai più, i nodi da affrontare e le politiche sulle quali puntare per rendere il Sistema Sanitario Nazionale più efficiente. Insomma come investire in salute facendolo diventare un buon affare per tutto il Paese.
In estrema sintesi la proposta è quella di abbandonare le logiche retrive, lottare contro gli sprechi, ma al tempo stesso investire in Salute (investire, non spendere!): “rivoluzionare la Prevenzione” (diffondendo la cultura della prevenzione fra gli operatori ed i cittadini), “migliorare la copertura in salute” (prendendosi a carico le cure per la vista, l’udito e l’odontoiatria), “rendere accessibili le cure agli stranieri per salvaguardare la salute di tutti”, “contro i comportamenti scorretti, responsabilizzare tutti”, “potenziare la presa in carico dei fragili e meno abbienti” .
Questo in pillole il programma che Macron ha proposto ai francesi con un linguaggio chiaro e diretto. Una ricetta che in fondo ci è stata trasmessa anche dal Festival di Trento, dai tavoli di lavoro organizzati a Milano e dai tanti rapporti e studi pubblicati in questi ultimi anni, di difficile navigazione, durante i quali il governo si è trovato ad affrontare più di una manovra, ad approvare un Patto per la Salute che tenesse allo stesso tavolo 21 SSR diversi, attraversati da enormi differenze sul piano finanziario e tecnologico, un Piano nazionale per la presa in carico delle cronicità, nuove regole sulla responsabilità dei medici e sulle professioni sanitarie, a stabilire nuovi Livelli Essenziali di Assistenza, ad assumere decisioni complesse in merito alle possibilità di cura aperte dai nuovi farmaci innovativi, a definire nuove regole per tutto il territorio nazionale relativamente all’obbligo vaccinale. In anni di difficoltà investire in salute può rappresentare un potente motore di crescita. Questo significa migliorare i servizi, sia per quanto riguarda l’innovazione tecnologica e strutturale della rete ospedaliera, sia dal lato del territorio realizzando quell’integrazione fra territorio e ospedale che ancora manca.
Significa fare chiarezza, con onestà intellettuale, in merito alle competenze di Stato e Regioni; significa rispondere alla spesa crescente per i farmaci innovativi, investire molto di più in prevenzione e promozione di corretti stili di vita, prendersi cura delle cronicità liberando il sistema da lunghe liste d’attesa e da un utilizzo improprio del Pronto Soccorso. Significa rendere consapevoli i cittadini delle loro possibilità di cura attraverso la formazione e l’informazione. Significa investire in ricerca avendo il coraggio di assumersi la responsabilità di selezionare ciò che realmente è eccellenza e può essere competitivo e tagliare ciò che non lo è.
“La povertà non è un destino e nulla di ciò che riguarda le iniquità in salute è inevitabile” lo sostiene Michael Marmot, epidemiologo di fama mondiale, nel suo saggio “La salute diseguale. La sfida di un mondo ingiusto” nel quale si rivolge ad amministratori e Governi perché giochino un ruolo attivo nel cambiamento e nella responsabilizzazione delle loro comunità affinché ci sia un impegno forte, a tutti i livelli, per ridurre la deprivazione materiale, principale causa delle disuguaglianze in salute.
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