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Tornare al popolo

Scritto da Franco Marini.

Franco Marini
Lettera pubblicata da L'Unità.

Apro innanzi tutto con un augurio di buon lavoro al segretario e a tutto il nuovo gruppo dirigente. Matteo Renzi, Maurizio Martina e gli altri si apprestano ad un`impresa tutt'altro che semplice. Il nostro dovere è incoraggiarli e sostenerli.
Apro, innanzitutto, con un augurio di buon lavoro al segretario e a tutto il nuovo gruppo dirigente. Matteo Renzi, Maurizio Martina e gli altri si apprestano ad un`impresa tutt'altro che semplice. Il nostro dovere, di iscritti e militanti, è prima di tutto incoraggiarli ed aiutarli, far sentire loro il sostegno di una comunità unita che ha voglia di spendersi per fare dell`Italia un paese migliore, un paese amico di chi ha bisogno, un paese che non lascia indietro nessuno che sia giovane o anziano, che abiti al centro o in periferia, che viva al sud al centro o al nord. Un paese senza più dimenticati o invisibili.
Domenica 30 aprile è stata una festa della democrazia. Lo dobbiamo ripetere perché è vero. Perché poco meno di due milioni di persone si sono recate alle urne per dire la propria e dare il proprio voto ad una persona e ad una linea. Lasciamo stare quelli che sanno solo ricordarci che in passato i votanti erano di più. Non per caso molti di questi appartengono o sono vicini a partiti e movimenti che si guardano bene dall'imitarci per la semplice ragione che hanno paura della risposta che avrebbe una chiamata ai seggi dei propri aderenti. Siamo l`unico partito veramente popolare che ancora esiste in Italia. E dobbiamo andarne orgogliosi perché nessuno, e ripeto nessuno, oggi riesce a fare altrettanto nemmeno dalla comoda postazione di un computer. Di fare primarie parlano in parecchi. A farle davvero siamo solo noi.
Per Renzi, e con lui per tutti noi del Pd, si apre una stagione difficile. Perché, possiamo dirlo con tutta franchezza, non è un tempo agevole per la sinistra, in tutto il mondo. Lo abbiamo visto nei più recenti esiti elettorali, dalla vittoria di Trump negli Usa, al crollo dei laburisti olandesi, alla negativa performance del candidato socialista Hamon alle presidenziali francesi, ai turni nei ander tedeschi per la Spd o nei sondaggi dei laburisti inglesi. Ma, al di là dei voti raccolti (o persi) c`è un tema più di fondo che interpella la sinistra a qualunque latitudine. Questo tema ha un nome, si chiama diseguaglianze. È come se avessimo fatto un salto all'indietro di decenni, forse di un secolo e più. E non è solo colpa della grande crisi economica che soffia sul mondo, soprattutto sul nostro mondo occidentale, da un decennio a questa parte. È un modello di sviluppo, quello che solitamente indichiamo come globalizzazione, che ha squassato gli equilibri costruiti negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, che ha mandato in pezzi i sistemi di welfare, che spostando il baricentro dall'economia reale a quella finanziaria ha concentrato immensi flussi monetari sui mercati azionari e sulle borse distogliendoli dagli investimenti produttivi e così facendo ha allargato in maniera esponenziale il divario tra i possessori di queste risorse e quanti invece vivono del proprio lavoro e del reddito percepito in fabbrica, in ufficio, in cantiere. Disagio, insicurezza, paura hanno dato corpo a rancore e rabbia travolgendo i confini di classe e le appartenenze. Del resto quando perdi il lavoro, quando osservi consumarsi i tuoi risparmi, quando assisti alla affannosa ricerca di un futuro dei tuoi figli, quando vedi che quei pochi che hanno tanto riescono ad avere sempre di più e quando – per effetto di tutto questo il senso di tee del tuo ruolo nella società si scolora privandoti di ogni rassicurante punto di riferimento diventa difficile non avvertire rancore. E così, affidarsi alle sirene populiste, alle false parole d`ordine semplificatone, agli ossessivi allarmi sull’altro che ti ruba il lavoro e i soldi delle tue tasse, alle ricette nazionaliste e protezioniste non appare più un tabù nemmeno per quelle donne e quegli uomini che avevano fiducia nella sinistra. Questa è la realtà, questo – avrebbe detto Moro – «è il tempo che ci è dato di vivere».
La sinistra non è incolpevole. Il dogma liberista ha scavato profondamente nelle nostre menti. E accecato il nostro sguardo. Ma se negli anni che abbiamo alle spalle ci siamo limitati a rincorrere l`egemonia del dogma liberista oggi non possiamo sostituire a quello il nuovo dogma populista o sovranista, come si dice oggi. Né tanto meno chiudere gli occhio, peggio, confidare nell'esaurimento (ma quando?) di quest`onda che in Europa sta gonfiando le vele idi Marine Le Pen, degli eredi di Nigel Farage, di Geert Wilders, di Viktor Orban e da noi di Grillo ma anche di Salvini e Meloni.
Torna dunque l`antico interrogativo: che fare? Penso che la premessa e, in qualche modo, la sorgente della risposta sia nella ricucitura di una connessione vera e forte della sinistra con il suo popolo: ci siamo allontanati e abbiamo perso la capacità di comprendere e rappresentare, dobbiamo riavvicinarci, tornare nei luoghi fisici della vita delle persone, ricostruire legami, praticare quella prossimità che un tempo non lontano – anche se paiono ere geologiche addietro – era pane quotidiano dei partiti popolari. Questa è la sfida del Partito democratico oggi. Questa, credo, è l`impresa a cui Matteo Renzi e tutti noi con lui siamo chiamati non tanto per conservare Palazzo Cingi quanto per fare dell`Italia un paese più giusto continuando ad onorare quanti l`abbiamo ricordato lo scorso 25 aprile – sacrificarono la vita per la libertà, la democrazia, la tutela della dignità di ogni uomo e di tutti gli uomini «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
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