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Il terreno buono della giustizia

Scritto da Francesco Occhetta.

Articolo di Padre Francesco Occhetta pubblicato da Comunità di Connessioni.

Il 24 marzo l’organo antitortura del Consiglio d’Europa (Cpt) ha definito le carceri italiane “violente e sovraffollate” ed ha chiesto l’abolizione dell’isolamento diurno e il riesame del 41bis.
“È vero – ha risposto il Ministro della giustizia Nordio – le nostre carceri sono sovraffollate, abbiamo ampi progetti (…) come Regina Coeli che può essere venduto sul mercato, prevedendo la costruzione di nuove case, ma anche un progetto a lungo termine, soluzione più ambiziosa e definita, di utilizzare una serie di edifici, a cominciare da caserme dismesse, che hanno struttura compatibile con il carcere”.
È così ritornato al centro del dibattito politico il tema della giustizia che divide la società tra giustizialisti, che fondano la loro idea di giustizia sulla vendetta, e permissivisti, che minimizzano l’accaduto e vorrebbero chiudere le carceri. Queste posizioni funzionano però fino a quando la giustizia non tocca la propria carne, quella di un familiare o di un amico, un collega o qualcosa che si è costruito: allora, improvvisamente, ci si converte a idee di giustizia non ideologiche.
Per questi motivi, la riapertura di un dibattito sulla giustizia e sull’applicazione della riforma Cartabia dovrebbe partire da alcune premesse culturali.
È noto, le sentenze non riducono il conflitto tra le parti: in Italia un processo civile dura in media 8 anni, quasi 4 anni uno penale; il 62% di recidiva indica che la riabilitazione del detenuto inscritta nell’art. 27 della Costituzione non funziona; inoltre, le vittime dei reati e i loro familiari continuano ad essere i grandi dimenticati dall’Ordinamento, mentre la verità processuale potrebbe non coincidere con la verità dei fatti. Un giudizio si può vincere radicalizzando le posizioni, enfatizzando gli elementi verosimili, inventando testimoni, creando prove false. E tutto questo umilia la verità.
Capovolgere la giustizia si può, ma occorre agire su almeno tre livelli.
Anzitutto quello della “formazione” alla giustizia. La scuola, le famiglie, le associazioni, le comunità ecclesiali, le società sportive, insomma la società civile, devono sostenere e aprire pratiche condivise di giustizia, in cui la riparazione è l’antidoto alle forme di vendetta e alle pene esemplari.
Il livello politico, invece, è chiamato a ridurre i reati e ha una responsabilità particolare, quella della prevenzione primaria: è urgente perseguire i paradisi fiscali e gli evasori, regolare gli appalti, controllare le transazioni finanziarie, contrastare le coltivazioni della droga, limitare la concessione delle armi, rinforzare l’etica della sessualità per prevenire gli abusi, ecc. Altrimenti continueremo a considerare come capri espiatori persone che vengono imbottite di ovuli di droga senza combattere i grandi trafficanti dai colletti bianchi. Oppure mandare in carcere chi ha dormito in un’auto per proteggersi dal freddo mentre le politiche abitative permettono casi di appartamenti sfitti o strapagati da poveri studenti.
Nel campo culturale, il modello vigente di «giustizia retributiva» basato sui princìpi della certezza della pena e della proporzionalità del danno può essere affiancato da quello della giustizia riparativa, un «prodotto culturale» che pone al centro dell’Ordinamento il dolore della vittima e la riparazione del reo. Centrale per questo modello è l’incontro della vittima con il reo, che è chiamato a ripristinare l’oggetto o la relazione che ha rotto. Il padre della giustizia riparativa, Howard Zehr, la definisce così: “La giustizia riparativa può essere vista come un modello di giustizia che coinvolgendo la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo”. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso la pratica si è espansa in Australia e Nuova Zelanda, e negli anni Ottanta in Francia e in Gran Bretagna.
All’inizio degli anni Novanta le Nazioni Unite hanno definito la giustizia riparativa come «un percorso volontario, nel quale l’autore di reato, la vittima e altri membri della comunità, partecipano insieme, attivamente alla ricucitura e al lavoro costruttivo sulle questioni rilevanti emerse nel reato». Dopo questa raccomandazione anche l’Ue ha accolto il modello e sta spingendo gli Stati a introdurlo non come eccezione ma come regola, come prevede la riforma Cartabia.
Va però ribadito che la giustizia riparativa non è né negoziazione né risarcimento del danno; non è diventare collaboratori di giustizia e nemmeno il premio della messa alla prova. Si tratta di un modello adulto che non fa sconti sulla pena ma umanizza la sua espiazione, chiede di riconoscere la verità, condanna il male restituendo dignità a chi ha sbagliato e un senso al dolore delle vittime. In molte parti del mondo il modello funziona. In Italia è applicato nel diritto penale minorile e vissuto in tante singole esperienze, come quella di Lina Evangelisti, Gemma Calabresi o Agnese Moro, che dopo aver accolto questo modello di giustizia è addirittura andata sulla tomba del padre Aldo con alcuni dei suoi assassini.
Servono mediatori penali e civili e una società che non consideri le carceri come discariche sociali, per utilizzare l’immagine di Bauman. Ma occorre non politicizzare il tema: le parole infuocate che creano paura premiano elettoralmente ma sono come gocce che spaccano la roccia su cui si fonda la società. Quando gli Usa, negli anni Novanta, buttarono via le chiavi dei loro istituti di pena e presero a costruirne nuovi altri, i detenuti aumentarono di cinque volte e arrivarono a due milioni.
Per il mondo della giustizia penale rimane una domanda antica: in quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione?
Il 2022 si è chiuso con circa 56.500 detenuti. La capienza regolamentare delle carceri è di circa 51.000 posti, ma già nel 2010 i detenuti erano quasi 67.000. Provengono in particolare da Campania, Sicilia, Lombardia e Lazio, la maggior parte di loro ha compiuto delitti legati allo spaccio di droga, ricettazione, furti e rapine. Sembra un paradosso, ma l’Italia rimane uno dei Paesi europei con il più basso numero di detenuti (0,09%) e il più alto tasso di sovraffollamento delle carceri. Le carceri di Taranto, Brescia e Lodi continuano ad essere quelle con il tasso di sovraffollamento più alto. Le donne sono circa 2.500, rappresentano il 4,2% della popolazione detenuta. Manca però un ufficio centrale che si occupi dei loro bisogni.
Non è inasprendo le pene o costruendo più carceri che si risolve il problema della giustizia. Senza voler criticare gli operatori penitenziari, che lavorano spesso in situazioni eroiche, l’Italia è tra i Paesi europei che spendono di più per i propri detenuti. Ogni detenuto «costa» allo Stato 154€ al giorno, di cui solo 6 per mantenerlo e soltanto 35 centesimi per la «rieducazione» prevista dalla Costituzione. Insomma, la crisi della giustizia penale dipende anche dal modello di riabilitazione. L’alternativa al carcere funziona. Non certo per i detenuti di grandi reati, che sono circa 10mila, ma per i rimanenti 48mila, molti dei quali espiano pene di lieve entità.
Quando si macchia di sangue il terreno su cui viviamo è responsabilità di tutti bonificarlo, altrimenti non cresce frutto per nessuno. Dobbiamo prendere una scelta: rendere fertile il terreno culturale. Rilanciare il dibattito su una giustizia umana non garantisce voti e nemmeno assicura una società paradisiaca, ma di certo argina l’inferno che troppo spesso ci capita di sperimentare.
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