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Utilità sociale e utili devono fare parte dello stesso bilancio

Scritto da Giovanna Melandri.

Articolo di Giovanna Melandri pubblicato da Il Sole 24 Ore.

Qualche giorno fa, su questo giornale, Antonio Calabrò ha proposto una riflessione attorno al bilancio d’impresa come «atto poetico». È davvero così? Possiamo finalmente iniziare a guardare ai bilanci come a uno strumento integrato di descrizione dell’anima e degli obiettivi dell’attore economico e non solo come a una fila di numeri sulle entrate e le uscite di un’azienda, da sistemare e tenere in equilibrio? Sono domande sfidanti. E penso ci sia ancora un pezzo di strada importante da fare per poter davvero arrivare a delle risposte pienamente affermative.
Certo, quella indicata da Calabrò è la direzione di marcia. È finalmente tempo di capire che un bilancio può e deve essere il racconto della generatività di un’azienda, del suo impatto sociale e ambientale, della sua capacità di rispondere a dei bisogni collettivi assieme all’ambizione di tenere conti in ordine e produrre giusti rendimenti.
Nessuna impresa, di nessuna natura, può esimersi ormai dalla domanda sulla sua sostenibilità e sul suo ruolo nel mondo.
Nel mondo, chi lavora per promuovere il paradigma della impact economy lo descrive così: non basta ottimizzare due fattori (rischio e rendimento); occorre ottimizzarne tre, integrando strutturalmente nella rendicontazione finanziaria anche l’impatto.
In un tempo di emergenza climatica, di allargamento delle disuguaglianze, di pandemia sanitaria, economica, sociale e di instabilità geopolitica la domanda sulla tenuta del modello di sviluppo socio economico e il coinvolgimento dei player economici e finanziari nella riscrittura di un modello globale basato su giustizia ambientale e sociale è diffusa, generalizzata.
La capacità creativa di costruire una società resiliente, in cui la sopravvivenza della specie sia una priorità e la redistribuzione delle risorse un imperativo, non è solo nelle mani dell’attore pubblico, ma coinvolge direttamente industria, impresa, investitori. È per questa ragione che l’epoca della distinzione netta tra profit e non profit, tra Terzo Settore e imprese culturali, tra capitalismo for business e capitalismo for good è finita. Ed è definitivamente finita, quindi, l’epoca dei bilanci sociali separati, dei report di sostenibilità come allegati della rendicontazione finanziaria generale. Perché ogni impresa può essere agente di cambiamento calcolando gli effetti in termini di outcome (ovvero reali trasformazioni) del suo operato, allora la contabilità deve poter integrare nel bilancio il dato dell’impatto generato.
È in questo modo che l’atto poetico evocato da Calabrò si compie davvero.
Sono solo parole? No.
C’è un pezzo del mondo della ricerca economica che sta lavorando da alcuni anni molto concretamente alla contabilità finanziaria integrata. Mi riferisco al team della Harvard Business School guidato dal professor George Serafeim, che ha messo a punto il metodo Iwai (Impact weighted account initiative).
In Italia, Social Impact Agenda – la rete italiana della impact economy – sta promuovendo questo metodo tra imprenditori e investitori. E poi non dimentichiamo il grande esercizio globale del Ifrs (International foundation for reporting standards) guidato da Emanuel Faber per arrivare a standard contabili adottabili dai sistemi legali che includano i rischi della crisi climatica. Si tratta di processi di riscrittura della contabilità e della rendicontazione finanziaria capaci di integrare e rendere ritracciabili in specifiche voci di bilancio la generatività (poetica?) complessiva dell’impresa. Dai dati sulla sicurezza sul lavoro, a quelli su occupabilità giovanile e femminile, fino a quelli connessi alla decarbonizzazione e alla circolarità dei cicli produttivi alle azioni virtuose in termini di inclusione sociale. Poter tracciare l’impatto generato da un organizzazione economica nella sua contabilità finanziaria significa, concretamente, tutelare la impact integrity di un’attività e quindi evitare il fenomeno-truffa del green e social washing. Significa, quindi, orientare gli investitori impact verso le iniziative imprenditoriali maggiormente capaci di generare impatto. Significa anche poter misurare l’impatto generato, diffondendo la pratica della valutazione, strumento che con Human Foundation da circa un decennio proviamo a diffondere anche in Italia.
E valutare sistematicamente l’impatto delle azioni intraprese da un’impresa significa anche avere uno strumento concreto di management necessario all’ottimizzazione dei progetti di innovazione.
E quindi mettere a terra iniziative di sostenibilità concrete e non solo proclamarle nelle Carte dei Valori, nei report a tema o nelle campagne marketing e di posizionamento promozionale.
Incorporare agli obiettivi legati all’utile quelli legati all’utilità, sociale e ambientale: è questo l’atto poetico, ma anche potentemente e concretamente trasformativo dei contesti e radicalmente innovativo del modello socio economico generale.
Nella impact economy, il dare e l’avere della partita doppia (inventata da Luca Pacioli, frate matematico italiano a Venezia nel XVI secolo) aggiornata poi nel secondo dopoguerra, deve prevedere strutturalmente meccanismi di rendicontazione integrata di costi, ricavi e impatti generati.
È un obiettivo alla portata; concretissimo e insieme poetico. Sta a noi moltiplicare questo impegno e diffonderlo anche in Italia.
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