Servono tante idee e poca ideologia
Intervista di Avvenire a Matteo Zuppi.
Cardinale Matteo Zuppi, dopo il voto esultano i vincitori, ma c’è anche chi ha detto che - visto il risultato elettorale - il 25 settembre è stato un brutto giorno per l’Italia. Qual è il suo pensiero al riguardo?
«Quando gli italiani scelgono il loro futuro non è mai un brutto giorno. È sempre l’esercizio della democrazia. E noi dobbiamo credere alla forza e alla bellezza della democrazia e ascoltare le domande che questo voto contiene, in un momento così importante per tutti». È pronta la risposta dell’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. Senza esitazioni. Intorno c’è la "sua" Trastevere.
Qui il porporato è stato prima viceparroco e poi parroco per quasi trent’anni. E qui dà appuntamento ad Avvenire, per la prima intervista dopo le elezioni. Il clima è informale, come è nel suo stile, seduto al tavolino di un caffè, mentre la gente del quartiere passa, lo riconosce e lo saluta: "Bentornato, don Matteo. È sempre un piacere vederti qui". Ma il dialogo è a 360 gradi, su tutti i temi dell’attualità.
Dunque, eminenza, nessun allarmismo preventivo, pare di comprendere...
Gli italiani hanno esercitato il loro diritto e il loro dovere. Quindi ci si interroghi su che cosa l’espressione del voto chiede - ed è una domanda che dobbiamo farci tutti, anche la Chiesa - e si guardi con responsabilità al nostro futuro, come del resto è scritto nella nota pubblicata oggi (ieri per chi legge, ndr). Servono tante idee e poca ideologia.
Nella nota si afferma tra l’altro che la Chiesa «continuerà a indicare, con severità se occorre, il bene comune e non l’interesse personale, la difesa dei diritti inviolabili della persona e della comunità». Ma certe posizioni della coalizione vincitrice non sempre sono in linea con la Dottrina sociale. Come si immagina il dialogo con queste forze politiche?
Come sempre. Sarà un dialogo che avrà sempre al centro la bellissima Dottrina sociale della Chiesa, che ha tanto da dire oggi nelle sfide cui dobbiamo far fronte. E ciò significa la difesa della persona, la difesa dei diritti individuali e dei diritti della comunità, come è scritto nella nota.
Lei conosce personalmente Giorgia Meloni?
Sì, la conosco.
E che cosa si sente di dire alla presidente di Fdi che potrebbe diventare il primo premier donna d’Italia?
Che ha una grande responsabilità e tante attese. E che deve dare - come chiunque sia chiamato a rivestire quel ruolo - dignità alla politica e quindi saper affrontare nella maniera più alta le grandi sfide che ci attendono, nella difesa dell’interesse nazionale ed europeo, che è poi la vera domanda dell’elettorato. Forse anche l’astensionismo, sintomo di un disagio che non può essere archiviato con superficialità e che deve invece essere ascoltato, alla fine è una richiesta, sia pure in negativo, di una politica che torni a essere attraente e sappia trovare le risposte. È un momento difficile, ma anche straordinariamente importante per mantenere le radici del nostro Paese, della Costituzione, e per guardare avanti con una visione non piccola e miope, ma lungimirante.
A proposito di Costituzione, lei che alla Carta fondamentale ha dedicato un libro, che cosa pensa dell’ipotesi di cambiarla, come è scritto nel programma della nuova maggioranza parlamentare?
Sappiamo che ci sono i meccanismi per cambiare la lettera della Costituzione. Ma ciò che non dobbiamo cambiare è lo spirito e la visione che animarono i padri costituenti, spirito alto di grande idealità e di grande convergenza comune, nato dall’esperienza della mancanza di libertà del fascismo e degli anni terribili della guerra.
Ma in uno scenario politico in cui, in fin dei conti, tutte le forze politiche sono minoranza (anche quelle che per effetto della legge elettorale sono maggioranza in Parlamento), che cosa può unire gli italiani?
Le sfide. Come disse il premier Draghi al Meeting di Rimini, l’Italia è stata grande quando non si è pensata da sola. Abbiamo l’Europa, con i suoi limiti ma anche con la straordinaria eredità che rappresenta. Dunque dobbiamo cercare di radicarci sempre più in Europa e guardare con responsabilità al nostro futuro.
Prima del voto, si è parlato molto di un’agenda Draghi per affrontare i problemi più urgenti del Paese. Nella nota post elettorale lei, a nome dei vescovi, li ha elencati. Possiamo dunque parlare di un’agenda della Chiesa italiana?
No, ma la Chiesa fa sue le sofferenze e le aspirazioni della popolazione. E non soltanto dei nostri fedeli. Cerchiamo di avere sempre un orizzonte largo. La vera agenda è questa. E l’altra agenda è l’amore politico. La <+CORSIV50R>Fratelli tutti<+TOND50R> di papa Francesco contiene una visione alta, che il documento consegna a tutti e anche alla politica italiana. L’amore politico ci libera dalla distorsione delle ideologie e ci restituisce il valore più nobile che è quello di cercare ciò che unisce e di risolvere quello che divide.
All’estero i primi commenti ai risultati elettorali non sono stati entusiastici. Il rapporto con l’Ue e la politica estera saranno fra i banchi di prova del prossimo governo?
Di questo come di ogni governo. L’Italia ha un dovere che viene dalla geografia. È la radice dell’Europa e del Mediterraneo. E quindi non può non avere una politica europea e mediterranea. L’Europa inoltre è una straordinaria possibilità. Abbiamo bisogno di più Europa, di un’Europa che funzioni di più. Per esempio per ciò che riguarda i flussi immigratori. L’Europa qui non ha funzionato, ha lasciato sola l’Italia in questo campo e perciò c’è bisogno di più solidarietà europea.
E per la guerra in Ucraina quale deve essere il ruolo del nostro Paese, dato il nostro inserimento nella Nato?
La nostra è la storia di un Paese che ha saputo essere cerniera tra i diversi mondi. Non dobbiamo dimenticare questo ruolo. E questo richiede tanta identità italiana e anche tanta capacità di dialogo. È il ruolo naturale dell’Italia e dell’Ue, ma credo che per la pace tutti dobbiamo fare molto di più. La guerra è un abominio e non dobbiamo mai abituarci all’intossicazione di odio da cui è prodotta e che produce. Non dobbiamo aspettare l’atomica per muoverci. Ecco perché dicevo che serve un’Europa più forte, anche con aspetti come il fisco, la politica estera comune e un esercito europeo.
La rappresentanza dei cattolici in Parlamento sembra essersi ulteriormente assottigliata. Dopo la fine del partito unico, questa presenza è avviata verso l’irrilevanza?
Spero proprio di no. Soprattutto il vero banco di prova saranno i problemi del Paese, da affrontare con quel surplus di consapevolezza e di amore che viene dalla Dottrina sociale della Chiesa. E poi c’è anche il ruolo del Terzo settore, per tradurre in cultura politica, quindi in visione e capacità di comprendere i problemi, la vicinanza al prossimo. Certamente dobbiamo fare di più.
Ma i vescovi hanno una loro strategia al riguardo o tutto è demandato all’iniziativa dei laici?
Certamente è demandato all’iniziativa dei laici. Ma i vescovi, insieme ai laici (questo fa parte anche del cammino sinodale in atto), cercheranno di capire le domande e di tradurre in cultura e in scelte concrete la grande solidarietà laica cristiana, che è uno dei tesori maggiori della nostra realtà, per combattere il grande e pericoloso virus dell’individualismo.
Lei è reduce dal Congresso Eucaristico di Matera, dove ha detto che si è pregato anche per il bene del Paese. Che cosa ha da offrire una "Chiesa eucaristica", secondo la definizione del Papa, al futuro dell’Italia?
Tanta speranza e tanta attenzione ai più fragili. La fragilità che diventa forza come abbiamo constatato durante il Covid, quando abbiamo capito che non possiamo salvarci da soli, ma che abbiamo bisogno della vera forza che è l’amore. Anche in politica.
Questo vale anche per il rapporto tra maggioranza e opposizione?
Anche. La dialettica sia severa e forte, ma esca dalle derive ideologiche che paralizzano, che complicano inutilmente le cose semplici e che risultano anche incomprensibili alla gente, generando l’astensionismo. L’appello dei vescovi è a evitare queste dinamiche deleterie e a essere tutti protagonisti del futuro. Non ci si può accontentare di risolvere i problemi della pancia, ma bisogna saper guardare oltre, perché senza questo sguardo non si risolvono neanche i problemi della pancia.
Lei a Matera ha ringraziato il Papa per la sua presenza e l’ha definita «una grazia». Eppure, per alcuni, quasi dieci anni di pontificato non sarebbero bastati alla Chiesa italiana per trovare una sintonia piena con il Pontefice. Come risponde?
La sintonia è profonda. Il Papa riesce ad arrivare a tantissime persone, tocca il cuore, riscalda, fa sentire amati, fa sentire la Chiesa vicina alla gente, una Chiesa che ti ascolta, che si appassiona al tuo problema. Il Papa ha una grande visione pastorale e annuncia nella lingua e con le categorie di oggi le verità di sempre. Oltre tutto ci aiuta a capire che il sociale e lo spirituale sono intimamente uniti. E guai a dividerli.
Il Congresso ha segnato una tappa del cammino sinodale. Che tipo di tappa è stata?
Fondamentale. Perché il cammino sinodale vuol dire andare dietro a Gesù. Siamo sinodali non perché troviamo i meccanismi e le formule rappresentative. Siamo sinodali se siamo dietro a Gesù. La prima sinodalità è ascoltare e seguire il suo invito. E in questo modo troveremo anche le risposte necessarie e attese dai preti, dalle comunità e dai laici per affrontare e risolvere i problemi che oggettivamente aspettano una risposta. Se invece pieghiamo il cammino sinodale all’esame dei problemi interni, esso rischia di diventare sterile.
Fra i problemi, molto si è parlato nei mesi scorsi della questione degli abusi. A che punto è il lavoro degli organismi preposti alla protezione dei minori?
Stiamo continuando con rigore la lotta contro gli abusi. E saremo attenti a rispettare gli impegni presi.
Ma in definitiva, qual è lo stato di salute della Chiesa italiana?
Una Chiesa ancora viva, con tanta riserva di gratuità, con ancora tanta voglia di comunità. Non dobbiamo perdere questa opportunità del Sinodo, che giunge a sessant’anni dal Concilio. Dobbiamo rivivere, come disse Benedetto XVI al cinquantesimo anniversario, quella sobria ebbrezza del Vaticano II, soprattutto costruendo comunità.
Cardinale Matteo Zuppi, dopo il voto esultano i vincitori, ma c’è anche chi ha detto che - visto il risultato elettorale - il 25 settembre è stato un brutto giorno per l’Italia. Qual è il suo pensiero al riguardo?
«Quando gli italiani scelgono il loro futuro non è mai un brutto giorno. È sempre l’esercizio della democrazia. E noi dobbiamo credere alla forza e alla bellezza della democrazia e ascoltare le domande che questo voto contiene, in un momento così importante per tutti». È pronta la risposta dell’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. Senza esitazioni. Intorno c’è la "sua" Trastevere.
Qui il porporato è stato prima viceparroco e poi parroco per quasi trent’anni. E qui dà appuntamento ad Avvenire, per la prima intervista dopo le elezioni. Il clima è informale, come è nel suo stile, seduto al tavolino di un caffè, mentre la gente del quartiere passa, lo riconosce e lo saluta: "Bentornato, don Matteo. È sempre un piacere vederti qui". Ma il dialogo è a 360 gradi, su tutti i temi dell’attualità.
Dunque, eminenza, nessun allarmismo preventivo, pare di comprendere...
Gli italiani hanno esercitato il loro diritto e il loro dovere. Quindi ci si interroghi su che cosa l’espressione del voto chiede - ed è una domanda che dobbiamo farci tutti, anche la Chiesa - e si guardi con responsabilità al nostro futuro, come del resto è scritto nella nota pubblicata oggi (ieri per chi legge, ndr). Servono tante idee e poca ideologia.
Nella nota si afferma tra l’altro che la Chiesa «continuerà a indicare, con severità se occorre, il bene comune e non l’interesse personale, la difesa dei diritti inviolabili della persona e della comunità». Ma certe posizioni della coalizione vincitrice non sempre sono in linea con la Dottrina sociale. Come si immagina il dialogo con queste forze politiche?
Come sempre. Sarà un dialogo che avrà sempre al centro la bellissima Dottrina sociale della Chiesa, che ha tanto da dire oggi nelle sfide cui dobbiamo far fronte. E ciò significa la difesa della persona, la difesa dei diritti individuali e dei diritti della comunità, come è scritto nella nota.
Lei conosce personalmente Giorgia Meloni?
Sì, la conosco.
E che cosa si sente di dire alla presidente di Fdi che potrebbe diventare il primo premier donna d’Italia?
Che ha una grande responsabilità e tante attese. E che deve dare - come chiunque sia chiamato a rivestire quel ruolo - dignità alla politica e quindi saper affrontare nella maniera più alta le grandi sfide che ci attendono, nella difesa dell’interesse nazionale ed europeo, che è poi la vera domanda dell’elettorato. Forse anche l’astensionismo, sintomo di un disagio che non può essere archiviato con superficialità e che deve invece essere ascoltato, alla fine è una richiesta, sia pure in negativo, di una politica che torni a essere attraente e sappia trovare le risposte. È un momento difficile, ma anche straordinariamente importante per mantenere le radici del nostro Paese, della Costituzione, e per guardare avanti con una visione non piccola e miope, ma lungimirante.
A proposito di Costituzione, lei che alla Carta fondamentale ha dedicato un libro, che cosa pensa dell’ipotesi di cambiarla, come è scritto nel programma della nuova maggioranza parlamentare?
Sappiamo che ci sono i meccanismi per cambiare la lettera della Costituzione. Ma ciò che non dobbiamo cambiare è lo spirito e la visione che animarono i padri costituenti, spirito alto di grande idealità e di grande convergenza comune, nato dall’esperienza della mancanza di libertà del fascismo e degli anni terribili della guerra.
Ma in uno scenario politico in cui, in fin dei conti, tutte le forze politiche sono minoranza (anche quelle che per effetto della legge elettorale sono maggioranza in Parlamento), che cosa può unire gli italiani?
Le sfide. Come disse il premier Draghi al Meeting di Rimini, l’Italia è stata grande quando non si è pensata da sola. Abbiamo l’Europa, con i suoi limiti ma anche con la straordinaria eredità che rappresenta. Dunque dobbiamo cercare di radicarci sempre più in Europa e guardare con responsabilità al nostro futuro.
Prima del voto, si è parlato molto di un’agenda Draghi per affrontare i problemi più urgenti del Paese. Nella nota post elettorale lei, a nome dei vescovi, li ha elencati. Possiamo dunque parlare di un’agenda della Chiesa italiana?
No, ma la Chiesa fa sue le sofferenze e le aspirazioni della popolazione. E non soltanto dei nostri fedeli. Cerchiamo di avere sempre un orizzonte largo. La vera agenda è questa. E l’altra agenda è l’amore politico. La <+CORSIV50R>Fratelli tutti<+TOND50R> di papa Francesco contiene una visione alta, che il documento consegna a tutti e anche alla politica italiana. L’amore politico ci libera dalla distorsione delle ideologie e ci restituisce il valore più nobile che è quello di cercare ciò che unisce e di risolvere quello che divide.
All’estero i primi commenti ai risultati elettorali non sono stati entusiastici. Il rapporto con l’Ue e la politica estera saranno fra i banchi di prova del prossimo governo?
Di questo come di ogni governo. L’Italia ha un dovere che viene dalla geografia. È la radice dell’Europa e del Mediterraneo. E quindi non può non avere una politica europea e mediterranea. L’Europa inoltre è una straordinaria possibilità. Abbiamo bisogno di più Europa, di un’Europa che funzioni di più. Per esempio per ciò che riguarda i flussi immigratori. L’Europa qui non ha funzionato, ha lasciato sola l’Italia in questo campo e perciò c’è bisogno di più solidarietà europea.
E per la guerra in Ucraina quale deve essere il ruolo del nostro Paese, dato il nostro inserimento nella Nato?
La nostra è la storia di un Paese che ha saputo essere cerniera tra i diversi mondi. Non dobbiamo dimenticare questo ruolo. E questo richiede tanta identità italiana e anche tanta capacità di dialogo. È il ruolo naturale dell’Italia e dell’Ue, ma credo che per la pace tutti dobbiamo fare molto di più. La guerra è un abominio e non dobbiamo mai abituarci all’intossicazione di odio da cui è prodotta e che produce. Non dobbiamo aspettare l’atomica per muoverci. Ecco perché dicevo che serve un’Europa più forte, anche con aspetti come il fisco, la politica estera comune e un esercito europeo.
La rappresentanza dei cattolici in Parlamento sembra essersi ulteriormente assottigliata. Dopo la fine del partito unico, questa presenza è avviata verso l’irrilevanza?
Spero proprio di no. Soprattutto il vero banco di prova saranno i problemi del Paese, da affrontare con quel surplus di consapevolezza e di amore che viene dalla Dottrina sociale della Chiesa. E poi c’è anche il ruolo del Terzo settore, per tradurre in cultura politica, quindi in visione e capacità di comprendere i problemi, la vicinanza al prossimo. Certamente dobbiamo fare di più.
Ma i vescovi hanno una loro strategia al riguardo o tutto è demandato all’iniziativa dei laici?
Certamente è demandato all’iniziativa dei laici. Ma i vescovi, insieme ai laici (questo fa parte anche del cammino sinodale in atto), cercheranno di capire le domande e di tradurre in cultura e in scelte concrete la grande solidarietà laica cristiana, che è uno dei tesori maggiori della nostra realtà, per combattere il grande e pericoloso virus dell’individualismo.
Lei è reduce dal Congresso Eucaristico di Matera, dove ha detto che si è pregato anche per il bene del Paese. Che cosa ha da offrire una "Chiesa eucaristica", secondo la definizione del Papa, al futuro dell’Italia?
Tanta speranza e tanta attenzione ai più fragili. La fragilità che diventa forza come abbiamo constatato durante il Covid, quando abbiamo capito che non possiamo salvarci da soli, ma che abbiamo bisogno della vera forza che è l’amore. Anche in politica.
Questo vale anche per il rapporto tra maggioranza e opposizione?
Anche. La dialettica sia severa e forte, ma esca dalle derive ideologiche che paralizzano, che complicano inutilmente le cose semplici e che risultano anche incomprensibili alla gente, generando l’astensionismo. L’appello dei vescovi è a evitare queste dinamiche deleterie e a essere tutti protagonisti del futuro. Non ci si può accontentare di risolvere i problemi della pancia, ma bisogna saper guardare oltre, perché senza questo sguardo non si risolvono neanche i problemi della pancia.
Lei a Matera ha ringraziato il Papa per la sua presenza e l’ha definita «una grazia». Eppure, per alcuni, quasi dieci anni di pontificato non sarebbero bastati alla Chiesa italiana per trovare una sintonia piena con il Pontefice. Come risponde?
La sintonia è profonda. Il Papa riesce ad arrivare a tantissime persone, tocca il cuore, riscalda, fa sentire amati, fa sentire la Chiesa vicina alla gente, una Chiesa che ti ascolta, che si appassiona al tuo problema. Il Papa ha una grande visione pastorale e annuncia nella lingua e con le categorie di oggi le verità di sempre. Oltre tutto ci aiuta a capire che il sociale e lo spirituale sono intimamente uniti. E guai a dividerli.
Il Congresso ha segnato una tappa del cammino sinodale. Che tipo di tappa è stata?
Fondamentale. Perché il cammino sinodale vuol dire andare dietro a Gesù. Siamo sinodali non perché troviamo i meccanismi e le formule rappresentative. Siamo sinodali se siamo dietro a Gesù. La prima sinodalità è ascoltare e seguire il suo invito. E in questo modo troveremo anche le risposte necessarie e attese dai preti, dalle comunità e dai laici per affrontare e risolvere i problemi che oggettivamente aspettano una risposta. Se invece pieghiamo il cammino sinodale all’esame dei problemi interni, esso rischia di diventare sterile.
Fra i problemi, molto si è parlato nei mesi scorsi della questione degli abusi. A che punto è il lavoro degli organismi preposti alla protezione dei minori?
Stiamo continuando con rigore la lotta contro gli abusi. E saremo attenti a rispettare gli impegni presi.
Ma in definitiva, qual è lo stato di salute della Chiesa italiana?
Una Chiesa ancora viva, con tanta riserva di gratuità, con ancora tanta voglia di comunità. Non dobbiamo perdere questa opportunità del Sinodo, che giunge a sessant’anni dal Concilio. Dobbiamo rivivere, come disse Benedetto XVI al cinquantesimo anniversario, quella sobria ebbrezza del Vaticano II, soprattutto costruendo comunità.