L’Europa è viva e ritroverà gli Usa
Intervista del Riformista a Marina Sereni.
Con la elezione di Joe Biden alla Presidenza, l’America volta pagina rispetto alla breve ma marcata Era Trump. Qual è a suo avviso il messaggio che dagli Stati Uniti arriva all’Europa e in particolare alle forze progressiste tra le quali c’è il Partito democratico?
I messaggi sono almeno due. Il primo è che il populismo non è imbattibile. È possibile recuperare consenso tra quel ceto medio impoverito o impaurito dalla globalizzazione, che quattro anni fa aveva segnato la sconfitta della Clinton e la vittoria di Trump, ed è possibile anche avanzare una risposta alternativa al populismo, mettendosi in sintonia con quelle fasce sociali che hanno avuto paura, si sono sentite abbandonate dalle forze progressiste e hanno aderito a una lettura semplificata, quella del “noi contro di loro”, l’America first.
Il secondo messaggio è che le forze progressiste hanno di fronte una destra populista che rimane forte, non a caso agli oltre 80 milioni di voti di Biden corrispondono i 70 milioni e passa di voti per Trump. Ciò sta a significare che il “trumpismo” e il populismo sovranista non sono fuori dalla scena politica e quindi, per i progressisti, c’è una sfida, quella di innovare una piattaforma che li rimetta pienamente in sintonia con una opinione pubblica più larga, e anche che li renda capaci di superare una certa polarizzazione. Perché c’è un altro elemento della vicenda di Trump che in qualche modo si riverbera anche sul nostro Paese, sull’Europa, ed è la forte polarizzazione che sembra far scomparire la ricerca di un consenso largo nelle comunità e quindi la possibilità stessa di una coesione sociale che tenga insieme la parte più ricca della società con un ceto medio, medio-basso che invece fatica ed è in difficoltà. Dobbiamo dunque rinnovare la nostra piattaforma, ridare speranza ai cittadini, partendo da quella parte della popolazione che ha meno risorse, meno opportunità, e quindi si sente ai margini. La lotta alle diseguaglianze, il cambiamento del modello di sviluppo e anche la possibilità di una nuova coesione sociale sono temi che riguardano gli Stati Uniti di Biden ma anche l’Europa, tutte le forze progressiste e il mondo democratico.
Nei suoi quattro anni di presidenza, Trump ha declinato il suo “America first”, avviando la “guerra dei dazi” con la Cina e l’Europa, esaltando la Brexit, chiamandosi fuori dagli Accordi di Parigi per la lotta al cambiamento climatico e all’Accordo con l’Iran sul nucleare, tagliando i finanziamenti alle agenzie delle Nazioni Unite, uscendo dall’Oms e dall’Unesco. Per farla breve, ha affossato il multilateralismo. Al di là delle intenzioni manifestate dal presidente eletto, non crede che sia una priorità dell’Europa rilanciare, su basi nuove, una partnership euroatlantica?
Non sono stati anni facili per il multilateralismo e neanche per il dialogo fra Europa e Stati Uniti, nonostante le sfide comuni che comunque abbiamo dovuto affrontare, prima fra tutte la lotta al terrorismo, all’Isis. L’arrivo alla Casa Bianca di Biden, un democratico, l’annuncio del rientro degli Stati Uniti negli Accordi di Parigi, la scelta di voler rimanere nell’Organizzazione mondiale della sanità ci dicono che qualcosa di sostanziale cambierà. Questo, però, non significa che abbiamo superato le difficoltà, perché la spinta unilateralista e l’imprevedibilità dell’amministrazione Trump hanno anche potuto contare su una certa crisi nell’efficacia del multilateralismo. In molte situazioni, le Nazioni Unite hanno dimostrato di non riuscire a dare delle risposte. Da una parte abbiamo visto e vediamo dal palazzo di Vetro un’agenda positiva. L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, con i suoi obiettivi di lotta alle diseguaglianze, di pari opportunità, di sostenibilità dello sviluppo, rimanda all’Agenda di una grande forza progressista globale. Se dovessi immaginare un programma di lavoro per i progressisti su scala globale, direi che l’Agenda 2030 costituisce un ottimo punto di partenza. Allo stesso tempo, vediamo che le Nazioni Unite, mentre riescono a ispirare grandi leadership e grandi movimenti nella storia dell’umanità, non sono in grado, per esempio, di far cessare il fuoco, di fermare le guerre che insanguinano tanti angoli del pianeta. Nonostante tutto però, se non ci fosse questo multilateralismo, ne dovremmo inventare uno. In questo momento, le sfide che i progressisti e l’umanità si trovano ad affrontare - quelle del cambiamento climatico, della tutela dei diritti umani, della lotta al terrorismo e ai traffici di esseri umani - sono di natura transnazionale le sovranità nazionali non possono risolverle. E quindi l’arrivo di Biden alla Casa Bianca ci può dire che sì, c’è uno spazio per il rilancio del multilateralismo, ma anche per una sua riforma. Sul versante della partnership euroalantica, gli Stati Uniti e l’Europa hanno indubbiamente valori comuni, e io credo non sia un caso che Biden torni a riflettere su una sorta di alleanza delle democrazie. Questi valori comuni tuttavia non ci esimono, come europei, dal lavorare su quella che abbiamo definito la nostra autonomia strategica. Ci sono aree del mondo, il Mediterraneo e il Medio Oriente ad esempio, in cui è difficile pensare a un maggiore engagement degli Usa anche sotto la presidenza Biden. La nuova amministrazione sarà molto più concentrata sulle questioni interne e rispetto al mondo sarà più orientata verso altri quadranti del pianeta. Questo significa che per rilanciare il rapporto transatlantico, l’Europa deve assumere su di sé un maggiore protagonismo ed essere più consapevole del fatto che non possiamo ritornare a pensare a qualcosa che non esisteva più già prima di Trump, e cioè gli Stati Uniti che si fanno carico della sicurezza dell’Europa, della stabilità del Mediterraneo, di ridisegnare gli equilibri nella nostra parte di mondo. Noi dobbiamo essere in grado di avere una visione europea, sia per il Mediterraneo e il Medio Oriente, sia per ciò che concerne, più in generale, tutte le sfide relative a sviluppo e sicurezza che riguardano entrambe le sponde dell’Atlantico. Abbiamo bisogno di rilanciare la partnership con Washington ma per farlo occorre una maggiore capacità di unità e di azione dell’Europa.
Ma è possibile pensare ad una Europa più unita e capace di essere protagonista sullo scenario internazionale, quando l’Europa non sembra riuscire a liberarsi dei sovranisti come quelli portati avanti da Ungheria e Polonia?
È possibile ed è necessario. Noi abbiamo scoperto con lo shock del Covid-19, sia sul piano dell’emergenza sanitaria sia ancora di più sul piano delle conseguenze economiche e sociali, che il progetto europeo era ed è un progetto vitale. La reazione dell’Europa dopo le prime incertezze, è stata molto forte. Abbiamo rotto diversi tabù, abbiamo messo in soffitta il tema degli aiuti di Stato, abbiamo accantonato il patto di stabilità e crescita, la Bce ha rinnovato in maniera molto significativa il whatever it takes di Mario Draghi, a dimostrazione che con la Lagarde non solo c’è continuità tra lei e il predecessore, ma anche una ulteriore crescita dell’intervento della Bce. Noi abbiamo visto che l’Europa è stata in grado di dare una risposta unitaria e solidale alla sfida e al dramma del Covid-19. In questi giorni parliamo di vaccini: il fatto che siano stati “acquistati” unitariamente da tutta l’Europa insieme e che questo corrisponda alla possibilità che tutti i Paesi europei, indipendentemente dalle loro finanze, possano avere adeguate risorse per vaccinare la loro popolazione, è un dato straordinariamente importante. Abbiamo contribuito su scala globale, abbiamo messo da parte risorse per aiutare i Paesi più poveri, con una concezione molto importante della salute come bene comune non solo dell’Europa ma anche delle aree del vicinato. Abbiamo scoperto che l’Europa è viva e in grado in pochi mesi di modificare sé stessa. Abbiamo emesso gli eurobond, cosa che il solo parlarne fino a qualche mese fa sembrava una eresia, una bestemmia, nelle riunioni europee. Oggi noi abbiamo emesso eurobond per SURE, stiamo facendo debito comune per il Recovery Fund. L’assetto dell’Europa è mutato radicalmente e non mi pare che questo possa essere un fatto transitorio, una parentesi che si chiuderà quando saremo finalmente fuori dalla pandemia. Questo certamente non significa che gli assetti istituzionali europei siano all’altezza di questo cambiamento, tant’è che dopo aver fatto a luglio un accordo sul Recovery fund oggi, mentre parliamo, ci troviamo ancora alle prese con un veto posto dalla Polonia e dall’Ungheria per la vicenda del tema dei diritti civili. Dobbiamo lavorare insieme alla Germania, alla Francia e agli altri grandi Paesi europei per superare questo veto e licenziare l’accordo che era stato stabilito sul bilancio e sul Recovery fund, dando la possibilità di partire con i programmi legati alla ripresa. E già c’è un appuntamento cruciale…
Quale?
Penso alla Conferenza sul futuro dell’Europa, che era stata pensata in un contesto di normalità, come l’esigenza di aprire un grande dibattito, che coinvolgesse i Parlamenti nazionali, le opinioni pubbliche, su come deve essere il nostro futuro. Questo dibattito dovrà portare anche a riforme politiche. Se penso alla politica estera, non è possibile che tutto debba essere deciso all’unanimità. Su alcune cose è giusto che si raggiunga il consenso di tutti, ma su molti dossier l’Europa può recuperare un ruolo da protagonista, se si libera del vincolo dell’unanimità. Laddove l’Europa non ha saputo fare sentire un’unica voce, pensiamo alla Libia, alla Siria o ai diversi conflitti che attraversano il Mediterraneo, si presentano altri attori. E dopo non possiamo stupirci, e dire: “Ma guarda, son tornati i russi, i turchi…”. L’Europa può essere una grande protagonista, tuttavia è evidente che dal punto di vista della politica estera non può essere tutto deciso all’unanimità.
Uno dei tratti qualificanti della politica estera dell’Italia, è stata per lungo la sua “vocazione mediterranea”. È una vocazione che sta scemando? E come risponde a coloro che sostengono che l’Italia sia game over nella “partita libica” o subalterna a autocrati come al-Sisi ed Erdogan?
Più che una “vocazione” è un dato geografico che non si può cambiare: noi siamo inevitabilmente collegati al Mediterraneo e questo può essere un punto di forza. Proprio in questi giorni si sono celebrati i venticinque anni del processo di Barcellona. L’Italia ha partecipato agli eventi che sono stati promossi a livello europeo, in particolare a quelli promossi in Spagna. Sia noi che Madrid abbiamo anche presentato un documento sul rilancio della dimensione euromediterranea. Non vi è dubbio che per una certa fase l’Europa ha guardato di più al vicinato orientale piuttosto che a quello meridionale. Il dramma del Covid crea le condizioni per una grande opportunità: ridisegnare le catene del valore e ridefinire gli elementi di un multilateralismo necessario quanto efficace. E la nostra area di riferimento, non per l’Italia ma per l’Europa intera, è il Mediterraneo. Perché la sicurezza e la stabilità del continente, tanto più di fronte a quel “cambiamento strutturale” degli Stati Uniti che rimarrà anche con la presidenza Biden, si giocano nel Mediterraneo, un’area fondamentale, per la sicurezza e la stabilità ma anche ai fini di uno sviluppo sostenibile. Pensiamo al tema dell’energia, a quello dell’acqua, dello sfruttamento del mare. Il Mediterraneo non è attraversato solo da conflitti, emergenze umanitarie, che lo fanno apparire come una minaccia. Non è questa la sua essenza. In questa regione ci sono enormi possibilità di cooperazione e sviluppo comuni. Questo è il messaggio che l’Italia ha portato in ambito europeo. Noi pensiamo che nel Mediterraneo si possa e si debba avere un’agenda di cooperazione. Bisogna fare propria la capacità di intraprendere partnership paritarie con i Paesi della sponda Sud, sia per quanto riguarda la gestione delle risorse comuni sia per quanto riguarda la gestione dei problemi collettivi. Le migrazioni, ad esempio, sono un problema di tutti e devono essere messe nell’agenda europea, anzi, in quella euromediterranea. Subalternità a leader di regimi autocratici? Io non credo che sia così. La dico in questi termini: l’Italia e, anche qui, l’Europa dovrebbero avere molto chiaro che c’è un terreno di valori che non sono negoziabili, come la tutela dei diritti umani, il rifiuto della pena di morte, il rispetto e la valorizzazione delle differenze, e così via. Questo ci deve consentire di avere un rapporto franco con tutti i Paesi dell’arco del Mediterraneo, anche con quelli con i quali, come è il caso dell’Egitto, abbiamo punti di attrito, penso ovviamente al caso Regeni ma anche alla vicenda di Patrick Zaki. Questo non significa, però, non avere relazioni con Paesi come l’Egitto e la Turchia, che hanno un ruolo regionale importante. Abbiamo bisogno di negoziare, di dialogare, di trattare, di lavorare insieme dove è possibile. La lotta al terrorismo è sicuramente un tema su cui dobbiamo unire la comunità internazionale, così come lo è la lotta ai traffici e alla illegalità. E questa unità deve riguardare anche quei Paesi con i quali non abbiamo totale unità di vedute. La risoluzione di alcuni conflitti, pensiamo al caso della Libia, richiede la partecipazione di tutti gli attori. Nello specifico all’Egitto e alla Turchia, noi chiediamo in questo momento di sostenere il processo guidato dalle Nazioni Unite. E dobbiamo dire che in quest’ultimo periodo Il Cairo ha svolto un ruolo positivo nel sostenere il processo del cessate-il-fuoco e il negoziato del comitato sulla sicurezza che ha portato alla costruzione di alcune misure di fiducia reciproca. Dobbiamo chiedere la stessa cosa ai turchi e a tutti gli altri. L’Italia in Libia ha un ruolo destinato a perdurare. Abbiamo un capitale politico da spendere. Mercoledì è stato firmato un protocollo d’intesa tra la nostra Ambasciata e il Ministero dell’Istruzione del Governo libico per confermare l’introduzione della lingua italiana come terza lingua, dopo l’arabo e l’inglese nelle scuole della Libia. Questo può dare il senso del ruolo dell’Italia in quel Paese. Io penso che i libici vogliano avere interlocuzioni con tutti, ma non accetteranno di avere qualcuno che li comanda dall’esterno. Questo vale per tutti. Noi non abbiamo mai avuto questo atteggiamento, siamo stati sempre molto rispettosi delle richieste delle autorità libiche, stiamo lavorando perché i libici trovino la loro strada; l’unificazione della Libia per noi è un fatto importante, sul piano politico e su quello economico, prima di tutto. Penso che l’Italia avrà un ruolo nella Libia del futuro, tanto più se riusciremo a portare a conclusione il negoziato sul dialogo politico guidato dalle Nazioni Unite.
L’ultima domanda più che alla Vice ministra degli Esteri è rivolta alla dirigente del Pd. Progressisti, democratici, riformisti. Lei è tra quelli che hanno paura a usare la parola “sinistra”?
Paura no. Mi sento una donna di sinistra, vengo dalla sinistra storica di questo Paese. Se guardo alle giovani generazioni, penso che la parola “sinistra” non sia sufficiente a descrivere il campo delle forze della trasformazione e del cambiamento. Credo ci siano tanti giovani che non si riconoscono nella parola “sinistra” e che però poi interrogati su ambiente, diritti, differenza di genere, si dimostrano di sinistra. Non dobbiamo avere paura delle parole, ma soprattutto non dobbiamo avere paura dell’innovazione. Il Partito democratico è nato con l’idea di unire le grandi culture riformiste italiane, quella socialista democratica, quella cattolica popolare, quella laica liberale. Questa operazione è in parte riuscita, perché dal punto di vista culturale se guardiamo oggi a chi si riconosce nel Partito democratico, è sempre più difficile distinguere da dove proveniamo. Da questo punto di vista, l’amalgama c’è stato. Però ha perso non solo pezzi, ha perso soprattutto quella capacità di interpretare la richiesta di cambiamento della politica. Siamo entrati dentro una fase del rapporto tra i cittadini e la politica, in cui più che tra destra e sinistra, c’è stata una faglia vecchio-nuovo, sistema-anti sistema, che ha portato alla ribalta forze totalmente sganciate dalle vecchie tradizioni politiche, penso al fenomeno del Movimento 5 Stelle, che ha spinto gran parte della destra ad assumere la configurazione di forza sovranista e populista che noi non pensavamo possibile. Ci siamo trovati di fronte a una Lega Nord che improvvisamente ha mutato pelle. Pensiamo a ciò che è successo in questi vent’anni: siamo partiti da una forza politica che nasceva per la secessione e che è arrivata ad essere un partito che adesso si definisce sovranista. È cambiato molto attorno a noi e proprio per questo il Partito democratico deve recuperare la sua ispirazione di luogo aperto alla partecipazione, perché la politica non vive di soli gruppi dirigenti. Sia chiaro: io penso che in una democrazia la politica richieda élite selezionate democraticamente. Noi siamo tra i pochi partiti che elegge i suoi organismi, dal segretario in giù, in forma democratica molto aperta e partecipata. Le ultime primarie hanno comunque dimostrato che c’è una grande mobilitazione e una grande voglia di partecipazione dei nostri militanti e dei nostri iscritti, però vediamo anche che c’è molta voglia di partecipare che non si aggrega ancora attorno ai partiti. Penso che la missione che questa segreteria, che Zingaretti si era dato all’inizio - poi ci sono state tante cose, le elezioni, il Covid, abbiamo avuto veramente un periodo davvero drammatico - sia del tutto attuale e cogente: un partito che si metta al servizio della ricostruzione di un’area più ampia, progressista, democratica, di un centrosinistra che sappia anche accogliere forze nuove che non sono nate dentro alla struttura tradizionale dei partiti.
Con la elezione di Joe Biden alla Presidenza, l’America volta pagina rispetto alla breve ma marcata Era Trump. Qual è a suo avviso il messaggio che dagli Stati Uniti arriva all’Europa e in particolare alle forze progressiste tra le quali c’è il Partito democratico?
I messaggi sono almeno due. Il primo è che il populismo non è imbattibile. È possibile recuperare consenso tra quel ceto medio impoverito o impaurito dalla globalizzazione, che quattro anni fa aveva segnato la sconfitta della Clinton e la vittoria di Trump, ed è possibile anche avanzare una risposta alternativa al populismo, mettendosi in sintonia con quelle fasce sociali che hanno avuto paura, si sono sentite abbandonate dalle forze progressiste e hanno aderito a una lettura semplificata, quella del “noi contro di loro”, l’America first.
Il secondo messaggio è che le forze progressiste hanno di fronte una destra populista che rimane forte, non a caso agli oltre 80 milioni di voti di Biden corrispondono i 70 milioni e passa di voti per Trump. Ciò sta a significare che il “trumpismo” e il populismo sovranista non sono fuori dalla scena politica e quindi, per i progressisti, c’è una sfida, quella di innovare una piattaforma che li rimetta pienamente in sintonia con una opinione pubblica più larga, e anche che li renda capaci di superare una certa polarizzazione. Perché c’è un altro elemento della vicenda di Trump che in qualche modo si riverbera anche sul nostro Paese, sull’Europa, ed è la forte polarizzazione che sembra far scomparire la ricerca di un consenso largo nelle comunità e quindi la possibilità stessa di una coesione sociale che tenga insieme la parte più ricca della società con un ceto medio, medio-basso che invece fatica ed è in difficoltà. Dobbiamo dunque rinnovare la nostra piattaforma, ridare speranza ai cittadini, partendo da quella parte della popolazione che ha meno risorse, meno opportunità, e quindi si sente ai margini. La lotta alle diseguaglianze, il cambiamento del modello di sviluppo e anche la possibilità di una nuova coesione sociale sono temi che riguardano gli Stati Uniti di Biden ma anche l’Europa, tutte le forze progressiste e il mondo democratico.
Nei suoi quattro anni di presidenza, Trump ha declinato il suo “America first”, avviando la “guerra dei dazi” con la Cina e l’Europa, esaltando la Brexit, chiamandosi fuori dagli Accordi di Parigi per la lotta al cambiamento climatico e all’Accordo con l’Iran sul nucleare, tagliando i finanziamenti alle agenzie delle Nazioni Unite, uscendo dall’Oms e dall’Unesco. Per farla breve, ha affossato il multilateralismo. Al di là delle intenzioni manifestate dal presidente eletto, non crede che sia una priorità dell’Europa rilanciare, su basi nuove, una partnership euroatlantica?
Non sono stati anni facili per il multilateralismo e neanche per il dialogo fra Europa e Stati Uniti, nonostante le sfide comuni che comunque abbiamo dovuto affrontare, prima fra tutte la lotta al terrorismo, all’Isis. L’arrivo alla Casa Bianca di Biden, un democratico, l’annuncio del rientro degli Stati Uniti negli Accordi di Parigi, la scelta di voler rimanere nell’Organizzazione mondiale della sanità ci dicono che qualcosa di sostanziale cambierà. Questo, però, non significa che abbiamo superato le difficoltà, perché la spinta unilateralista e l’imprevedibilità dell’amministrazione Trump hanno anche potuto contare su una certa crisi nell’efficacia del multilateralismo. In molte situazioni, le Nazioni Unite hanno dimostrato di non riuscire a dare delle risposte. Da una parte abbiamo visto e vediamo dal palazzo di Vetro un’agenda positiva. L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, con i suoi obiettivi di lotta alle diseguaglianze, di pari opportunità, di sostenibilità dello sviluppo, rimanda all’Agenda di una grande forza progressista globale. Se dovessi immaginare un programma di lavoro per i progressisti su scala globale, direi che l’Agenda 2030 costituisce un ottimo punto di partenza. Allo stesso tempo, vediamo che le Nazioni Unite, mentre riescono a ispirare grandi leadership e grandi movimenti nella storia dell’umanità, non sono in grado, per esempio, di far cessare il fuoco, di fermare le guerre che insanguinano tanti angoli del pianeta. Nonostante tutto però, se non ci fosse questo multilateralismo, ne dovremmo inventare uno. In questo momento, le sfide che i progressisti e l’umanità si trovano ad affrontare - quelle del cambiamento climatico, della tutela dei diritti umani, della lotta al terrorismo e ai traffici di esseri umani - sono di natura transnazionale le sovranità nazionali non possono risolverle. E quindi l’arrivo di Biden alla Casa Bianca ci può dire che sì, c’è uno spazio per il rilancio del multilateralismo, ma anche per una sua riforma. Sul versante della partnership euroalantica, gli Stati Uniti e l’Europa hanno indubbiamente valori comuni, e io credo non sia un caso che Biden torni a riflettere su una sorta di alleanza delle democrazie. Questi valori comuni tuttavia non ci esimono, come europei, dal lavorare su quella che abbiamo definito la nostra autonomia strategica. Ci sono aree del mondo, il Mediterraneo e il Medio Oriente ad esempio, in cui è difficile pensare a un maggiore engagement degli Usa anche sotto la presidenza Biden. La nuova amministrazione sarà molto più concentrata sulle questioni interne e rispetto al mondo sarà più orientata verso altri quadranti del pianeta. Questo significa che per rilanciare il rapporto transatlantico, l’Europa deve assumere su di sé un maggiore protagonismo ed essere più consapevole del fatto che non possiamo ritornare a pensare a qualcosa che non esisteva più già prima di Trump, e cioè gli Stati Uniti che si fanno carico della sicurezza dell’Europa, della stabilità del Mediterraneo, di ridisegnare gli equilibri nella nostra parte di mondo. Noi dobbiamo essere in grado di avere una visione europea, sia per il Mediterraneo e il Medio Oriente, sia per ciò che concerne, più in generale, tutte le sfide relative a sviluppo e sicurezza che riguardano entrambe le sponde dell’Atlantico. Abbiamo bisogno di rilanciare la partnership con Washington ma per farlo occorre una maggiore capacità di unità e di azione dell’Europa.
Ma è possibile pensare ad una Europa più unita e capace di essere protagonista sullo scenario internazionale, quando l’Europa non sembra riuscire a liberarsi dei sovranisti come quelli portati avanti da Ungheria e Polonia?
È possibile ed è necessario. Noi abbiamo scoperto con lo shock del Covid-19, sia sul piano dell’emergenza sanitaria sia ancora di più sul piano delle conseguenze economiche e sociali, che il progetto europeo era ed è un progetto vitale. La reazione dell’Europa dopo le prime incertezze, è stata molto forte. Abbiamo rotto diversi tabù, abbiamo messo in soffitta il tema degli aiuti di Stato, abbiamo accantonato il patto di stabilità e crescita, la Bce ha rinnovato in maniera molto significativa il whatever it takes di Mario Draghi, a dimostrazione che con la Lagarde non solo c’è continuità tra lei e il predecessore, ma anche una ulteriore crescita dell’intervento della Bce. Noi abbiamo visto che l’Europa è stata in grado di dare una risposta unitaria e solidale alla sfida e al dramma del Covid-19. In questi giorni parliamo di vaccini: il fatto che siano stati “acquistati” unitariamente da tutta l’Europa insieme e che questo corrisponda alla possibilità che tutti i Paesi europei, indipendentemente dalle loro finanze, possano avere adeguate risorse per vaccinare la loro popolazione, è un dato straordinariamente importante. Abbiamo contribuito su scala globale, abbiamo messo da parte risorse per aiutare i Paesi più poveri, con una concezione molto importante della salute come bene comune non solo dell’Europa ma anche delle aree del vicinato. Abbiamo scoperto che l’Europa è viva e in grado in pochi mesi di modificare sé stessa. Abbiamo emesso gli eurobond, cosa che il solo parlarne fino a qualche mese fa sembrava una eresia, una bestemmia, nelle riunioni europee. Oggi noi abbiamo emesso eurobond per SURE, stiamo facendo debito comune per il Recovery Fund. L’assetto dell’Europa è mutato radicalmente e non mi pare che questo possa essere un fatto transitorio, una parentesi che si chiuderà quando saremo finalmente fuori dalla pandemia. Questo certamente non significa che gli assetti istituzionali europei siano all’altezza di questo cambiamento, tant’è che dopo aver fatto a luglio un accordo sul Recovery fund oggi, mentre parliamo, ci troviamo ancora alle prese con un veto posto dalla Polonia e dall’Ungheria per la vicenda del tema dei diritti civili. Dobbiamo lavorare insieme alla Germania, alla Francia e agli altri grandi Paesi europei per superare questo veto e licenziare l’accordo che era stato stabilito sul bilancio e sul Recovery fund, dando la possibilità di partire con i programmi legati alla ripresa. E già c’è un appuntamento cruciale…
Quale?
Penso alla Conferenza sul futuro dell’Europa, che era stata pensata in un contesto di normalità, come l’esigenza di aprire un grande dibattito, che coinvolgesse i Parlamenti nazionali, le opinioni pubbliche, su come deve essere il nostro futuro. Questo dibattito dovrà portare anche a riforme politiche. Se penso alla politica estera, non è possibile che tutto debba essere deciso all’unanimità. Su alcune cose è giusto che si raggiunga il consenso di tutti, ma su molti dossier l’Europa può recuperare un ruolo da protagonista, se si libera del vincolo dell’unanimità. Laddove l’Europa non ha saputo fare sentire un’unica voce, pensiamo alla Libia, alla Siria o ai diversi conflitti che attraversano il Mediterraneo, si presentano altri attori. E dopo non possiamo stupirci, e dire: “Ma guarda, son tornati i russi, i turchi…”. L’Europa può essere una grande protagonista, tuttavia è evidente che dal punto di vista della politica estera non può essere tutto deciso all’unanimità.
Uno dei tratti qualificanti della politica estera dell’Italia, è stata per lungo la sua “vocazione mediterranea”. È una vocazione che sta scemando? E come risponde a coloro che sostengono che l’Italia sia game over nella “partita libica” o subalterna a autocrati come al-Sisi ed Erdogan?
Più che una “vocazione” è un dato geografico che non si può cambiare: noi siamo inevitabilmente collegati al Mediterraneo e questo può essere un punto di forza. Proprio in questi giorni si sono celebrati i venticinque anni del processo di Barcellona. L’Italia ha partecipato agli eventi che sono stati promossi a livello europeo, in particolare a quelli promossi in Spagna. Sia noi che Madrid abbiamo anche presentato un documento sul rilancio della dimensione euromediterranea. Non vi è dubbio che per una certa fase l’Europa ha guardato di più al vicinato orientale piuttosto che a quello meridionale. Il dramma del Covid crea le condizioni per una grande opportunità: ridisegnare le catene del valore e ridefinire gli elementi di un multilateralismo necessario quanto efficace. E la nostra area di riferimento, non per l’Italia ma per l’Europa intera, è il Mediterraneo. Perché la sicurezza e la stabilità del continente, tanto più di fronte a quel “cambiamento strutturale” degli Stati Uniti che rimarrà anche con la presidenza Biden, si giocano nel Mediterraneo, un’area fondamentale, per la sicurezza e la stabilità ma anche ai fini di uno sviluppo sostenibile. Pensiamo al tema dell’energia, a quello dell’acqua, dello sfruttamento del mare. Il Mediterraneo non è attraversato solo da conflitti, emergenze umanitarie, che lo fanno apparire come una minaccia. Non è questa la sua essenza. In questa regione ci sono enormi possibilità di cooperazione e sviluppo comuni. Questo è il messaggio che l’Italia ha portato in ambito europeo. Noi pensiamo che nel Mediterraneo si possa e si debba avere un’agenda di cooperazione. Bisogna fare propria la capacità di intraprendere partnership paritarie con i Paesi della sponda Sud, sia per quanto riguarda la gestione delle risorse comuni sia per quanto riguarda la gestione dei problemi collettivi. Le migrazioni, ad esempio, sono un problema di tutti e devono essere messe nell’agenda europea, anzi, in quella euromediterranea. Subalternità a leader di regimi autocratici? Io non credo che sia così. La dico in questi termini: l’Italia e, anche qui, l’Europa dovrebbero avere molto chiaro che c’è un terreno di valori che non sono negoziabili, come la tutela dei diritti umani, il rifiuto della pena di morte, il rispetto e la valorizzazione delle differenze, e così via. Questo ci deve consentire di avere un rapporto franco con tutti i Paesi dell’arco del Mediterraneo, anche con quelli con i quali, come è il caso dell’Egitto, abbiamo punti di attrito, penso ovviamente al caso Regeni ma anche alla vicenda di Patrick Zaki. Questo non significa, però, non avere relazioni con Paesi come l’Egitto e la Turchia, che hanno un ruolo regionale importante. Abbiamo bisogno di negoziare, di dialogare, di trattare, di lavorare insieme dove è possibile. La lotta al terrorismo è sicuramente un tema su cui dobbiamo unire la comunità internazionale, così come lo è la lotta ai traffici e alla illegalità. E questa unità deve riguardare anche quei Paesi con i quali non abbiamo totale unità di vedute. La risoluzione di alcuni conflitti, pensiamo al caso della Libia, richiede la partecipazione di tutti gli attori. Nello specifico all’Egitto e alla Turchia, noi chiediamo in questo momento di sostenere il processo guidato dalle Nazioni Unite. E dobbiamo dire che in quest’ultimo periodo Il Cairo ha svolto un ruolo positivo nel sostenere il processo del cessate-il-fuoco e il negoziato del comitato sulla sicurezza che ha portato alla costruzione di alcune misure di fiducia reciproca. Dobbiamo chiedere la stessa cosa ai turchi e a tutti gli altri. L’Italia in Libia ha un ruolo destinato a perdurare. Abbiamo un capitale politico da spendere. Mercoledì è stato firmato un protocollo d’intesa tra la nostra Ambasciata e il Ministero dell’Istruzione del Governo libico per confermare l’introduzione della lingua italiana come terza lingua, dopo l’arabo e l’inglese nelle scuole della Libia. Questo può dare il senso del ruolo dell’Italia in quel Paese. Io penso che i libici vogliano avere interlocuzioni con tutti, ma non accetteranno di avere qualcuno che li comanda dall’esterno. Questo vale per tutti. Noi non abbiamo mai avuto questo atteggiamento, siamo stati sempre molto rispettosi delle richieste delle autorità libiche, stiamo lavorando perché i libici trovino la loro strada; l’unificazione della Libia per noi è un fatto importante, sul piano politico e su quello economico, prima di tutto. Penso che l’Italia avrà un ruolo nella Libia del futuro, tanto più se riusciremo a portare a conclusione il negoziato sul dialogo politico guidato dalle Nazioni Unite.
L’ultima domanda più che alla Vice ministra degli Esteri è rivolta alla dirigente del Pd. Progressisti, democratici, riformisti. Lei è tra quelli che hanno paura a usare la parola “sinistra”?
Paura no. Mi sento una donna di sinistra, vengo dalla sinistra storica di questo Paese. Se guardo alle giovani generazioni, penso che la parola “sinistra” non sia sufficiente a descrivere il campo delle forze della trasformazione e del cambiamento. Credo ci siano tanti giovani che non si riconoscono nella parola “sinistra” e che però poi interrogati su ambiente, diritti, differenza di genere, si dimostrano di sinistra. Non dobbiamo avere paura delle parole, ma soprattutto non dobbiamo avere paura dell’innovazione. Il Partito democratico è nato con l’idea di unire le grandi culture riformiste italiane, quella socialista democratica, quella cattolica popolare, quella laica liberale. Questa operazione è in parte riuscita, perché dal punto di vista culturale se guardiamo oggi a chi si riconosce nel Partito democratico, è sempre più difficile distinguere da dove proveniamo. Da questo punto di vista, l’amalgama c’è stato. Però ha perso non solo pezzi, ha perso soprattutto quella capacità di interpretare la richiesta di cambiamento della politica. Siamo entrati dentro una fase del rapporto tra i cittadini e la politica, in cui più che tra destra e sinistra, c’è stata una faglia vecchio-nuovo, sistema-anti sistema, che ha portato alla ribalta forze totalmente sganciate dalle vecchie tradizioni politiche, penso al fenomeno del Movimento 5 Stelle, che ha spinto gran parte della destra ad assumere la configurazione di forza sovranista e populista che noi non pensavamo possibile. Ci siamo trovati di fronte a una Lega Nord che improvvisamente ha mutato pelle. Pensiamo a ciò che è successo in questi vent’anni: siamo partiti da una forza politica che nasceva per la secessione e che è arrivata ad essere un partito che adesso si definisce sovranista. È cambiato molto attorno a noi e proprio per questo il Partito democratico deve recuperare la sua ispirazione di luogo aperto alla partecipazione, perché la politica non vive di soli gruppi dirigenti. Sia chiaro: io penso che in una democrazia la politica richieda élite selezionate democraticamente. Noi siamo tra i pochi partiti che elegge i suoi organismi, dal segretario in giù, in forma democratica molto aperta e partecipata. Le ultime primarie hanno comunque dimostrato che c’è una grande mobilitazione e una grande voglia di partecipazione dei nostri militanti e dei nostri iscritti, però vediamo anche che c’è molta voglia di partecipare che non si aggrega ancora attorno ai partiti. Penso che la missione che questa segreteria, che Zingaretti si era dato all’inizio - poi ci sono state tante cose, le elezioni, il Covid, abbiamo avuto veramente un periodo davvero drammatico - sia del tutto attuale e cogente: un partito che si metta al servizio della ricostruzione di un’area più ampia, progressista, democratica, di un centrosinistra che sappia anche accogliere forze nuove che non sono nate dentro alla struttura tradizionale dei partiti.
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