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Art.18 tabù o protezione necessaria?

Scritto da Manuela Campanella.

Manuela CampanellaArticolo pubblicato da Huffington Post.
4:24 a.m., ancora sveglia. Accidenti, ma si può non dormire per una riforma? Certo non una riforma qualsiasi, per carità quella sul Lavoro, quella centrale per la vita di milioni di italiani. Però mi dico, mica sto al Governo, non spetta certo a me perderci il sonno. Eppure eccomi qui. E sì perché questa è un po' la questione principe attorno al quale è ruotata gran parte della mia vita, da quando ho avuto la malaugurata idea di scegliere l'art.18 come oggetto della tesi di laurea in economia.
Il Lavoro già dagli anni '90 si capiva essere uno dei punti nodali da affrontare, per chi come me mossa da amor patrio sognava di "cambiare le cose". Quindi con ottimismo mi sono messa a studiare svariati modelli matematici creati da illustri economisti nordeuropei in cui si dimostrava che all'aumentare dei costi di licenziamento quali l'art.18 anche la disoccupazione aumenta (al riguardo si veda Lazear (1990), Risager e Sorensen (1997) o il mio studio Liberalizzare il mercato dalla parte del lavoratore).

Dopo di che, presa dall'euforia e dalla passione mi sono dedicata nel mio piccolo a divulgare le informazioni acquisite. E qui comincia il mio calvario. Inutile, qualsiasi tentativo anche solo di spiegarmi cade nel vuoto, un po' come dire ad un Americano in sovrappeso che il ketchup, il bacon o il pollo fritto fanno ingrassare più di un piatto di spaghetti. Provateci. È impossibile! O non vi ascoltano o vi prendono per matti. È come se ci fossero degli incantesimi collettivi, delle credenze a cui tutto un popolo si affeziona e non si possono mettere in discussione. Per noi è l'art. 18. Toccateci tutto qualsiasi cosa anche la mamma, ma non parlate male dell'art.18. Pena la morte, e questa purtroppo non è una battuta.

Con gli anni di fronte ai discorsi e alle tesi più improbabili ho imparato a tacere, a stamparmi un sorriso di circostanza in volto sperando di resistere alla tentazione di sciorinare tutti i miei studi e le mie esperienze in materia, che nel frattempo ho continuato a collezionare.
Poi come per magia, proprio come scriveva Victor Hugo: "Non c'è niente di più forte di un'idea per cui i tempi sono maturi", ecco che la nebbia si dirada, l'incantesimo si dissolve e appaiano i primi segnali del cambiamento. Ecco che il programma sul Lavoro di Renzi inizialmente è accolto senza polemiche. Ecco che i sondaggi dicono che i giovani sono favorevoli all'abolizione di quello che viene sempre più spesso definito un "tabù". E infine questa estate assisto ad un dialogo surreale in cui un esponente del mondo del Lavoro dice a un altro guardandolo negli occhi: "Ma si dai ora lo possiamo dire....."
Insomma ora finalmente lo possiamo dire.
Finalmente possiamo dire che "in Italia posso divorziare da mia moglie ma non da un dipendente", per usare le parole di un imprenditore comunista e 68ino che da giovane tirava le pietre a Valle Giulia. "Tutti sanno nella mia azienda - continua - chi lavora e chi no, ma mandare via qualcuno è praticamente impossibile. Dimostrare la giusta causa difficilissimo. E il rischio che l'orientamento dei giudici sia comunque quello di reintegrare il lavoratore è moto alto".
Finalmente possiamo dire che art.18 o no spesso se l'impresa fallisce siamo in mezzo alla strada senza uno straccio di sussidio, niente di niente. Così come se non riusciamo a trovare lavoro nessuno ci dà un reddito anche minimo per sopravvivere.
Finalmente possiamo dire che le tutele vere dei lavoratori sono altre: indennità di licenziamento per tutti, reddito minimo garantito, servizi per l'impiego specializzati che fanno incontrare imprese e lavoratori e che formano e riqualificano la manodopera.
Finalmente possiamo dire che la tutela più grande per un lavoratore è un mercato del lavoro sano e ben funzionante. Negli Usa pur godendo di protezioni minime la gente si sente sicura perché: "alla fine un lavoro si trova sempre".
E soprattutto che un mercato che funziona è un mercato basato sul merito, dove i flussi in entrata e in uscita sono liberi e basati esclusivamente sulle capacità e i comportamenti dei lavoratori. È come lamentarsi che il caffè non esca quando non abbiamo messo l'acqua. Facciamolo funzionare questo mercato del lavoro, diamo alle imprese la possibilità di agire al meglio, di creare più occupazione possibile, di far venire voglia anche agli investitori esteri più reticenti di scommettere sull'Italia. E allo stesso tempo facciamo le necessarie correzioni per proteggere i lavoratori. Protezioni vere però e non quelle che nel migliore dei casi ci incatenano a vita ad un posto di lavoro.
Finalmente possiamo dire che con i tempi frenetici dell'economia globale se devi tagliare o riconvertire un ramo d'azienda non puoi aspettare i tempi della giustizia italiana perché un giudice che capisce di economia come di massaggio tantrico, ti dia il via libera.
Finalmente possiamo dire che se qualcuno ci dà il famigerato posto fisso non importa dove, noi a malincuore lo accettiamo rinunciando ai nostri sogni e ad anni di studi. Facendo così, con poche competenze e scarsi risultati, un lavoro che non amiamo e che probabilmente togliamo a qualcun altro. Questo ha di fatto instaurato un ciclo vizioso per cui oramai nessuno è più al suo posto, nessuno fa il lavoro per cui ha studiato o per cui è competente. Siamo tutti sempre più frustrati, legati a situazioni che detestiamo. O condannati ad una vita di stenti ed incertezze, se facciamo parte dei pochi che hanno scelto di seguire i propri sogni e inclinazioni. Insomma, una società basata su tutto fuorché il merito.
Finalmente possiamo dire che l'unico Paese oltre all'Italia che utilizza il reintegro è la Germania, e che i giudici lo accordano molto di rado. E che il sistema tedesco prevede l'assunzione del rischio da parte del lavoratore che ricorre in giudizio: se perde non ha diritto al rimborso economico che gli spetta normalmente se si accorda con il datore di lavoro e rinuncia a fare causa. Questo riduce notevolmente il numero di contenziosi così come l'incertezza economica per le aziende (il lavoratore che ricorre in giudizio lo farà solo quando è veramente sicuro di avere ragione).
Finalmente possiamo dire che la produttività delle imprese italiane è sempre stata tra le più basse e che continua a scendere. E che anche nei periodi di boom economico l'occupazione italiana è cresciuta molto meno che negli altri Paesi in quanto le imprese hanno sempre preferito spremere come un limone i lavoratori già assunti piuttosto che far fronte ai rischi dell'art.18 e ai maggiori costi di assumerne di nuovi.
Finalmente possiamo dire il Lavoro non è fisso per definizione, bensì legato alla durata dell'impresa che si intraprende (la costruzione di una diga, di un ponte, ecc.) oppure alla durata di un bisogno che la produzione soddisfa come i ferri dei cavalli, le macchine a vapore, i cellulari di prima generazione. Sempre che qualcun'altro non lo faccia meglio e magari anche a un prezzo più conveniente.
A meno che ovviamente non si parli di Pubblica Amministrazione, ma questa è un'altra storia....

 

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