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I nodi da sciogliere del PD

Scritto da Franco Mirabelli.

Franco MirabelliIntervento di Franco Mirabelli ad un incontro PD a Milano.  
Ci sembrava utile avviare un momento di discussione su quanto avvenuto in questi giorni e anche la possibilità di metterci la faccia per spiegare come abbiamo vissuto tutto questo da Roma. 
La prima cosa che voglio fare è scusarmi perché, al di là delle responsabilità personali (ho votato sempre come abbiamo deciso nelle riunioni del gruppo parlamentare), credo che sia nostro dovere per lo spettacolo drammatico che abbiamo dato nei giorni in cui ci siamo riuniti per eleggere il Presidente della Repubblica.
È stato uno spettacolo che ha sicuramente minato la credibilità del nostro partito e ha incrinato la fiducia nel rapporto tra gli iscritti e i propri rappresentanti.
E, soprattutto, dobbiamo scusarci perché quello che è successo ha creato una situazione di rabbia, di delusione, di disorientamento in tante persone che lavorano per il partito e per il centrosinistra, che si sono spese in questi mesi e continuano a farlo tutt’ora e si sono sentite tradite dallo spettacolo che è stato dato.
Dico questo perché dobbiamo ricominciare ad assumerci delle responsabilità collettive perché un partito esiste se tutti quanti sono consapevoli di stare dentro ad una comunità in cui ci sono delle regole. Altrimenti, come ha detto Bersani, non c’è un partito, non c’è un “soggetto politico” ma c’è uno “spazio politico” in cui chi vuole entra e trova dei microfoni o dei riflettori che illuminano la sua individualità (però, questo è altro rispetto ad un partito).
Lo spettacolo che abbiamo dato è stato ancora più grave per tre ragioni: la prima è che tutto ciò si è consumato in un momento molto importante quale è l’elezione del Presidente della Repubblica. Per la nostra Costituzione, infatti, l’elezione del Presidente della Repubblica è un momento solenne e ci sono stati comportamenti che hanno mostrato di non considerarlo come tale. In secondo luogo, avevo detto in precedenza anche in questa sede che l’auspicio che facevamo era quello di eleggere un Presidente della Repubblica subito, già dalla prima votazione, con un consenso largo perché questo avrebbe mostrato ai cittadini italiani che la politica, in una fase di crisi, sapeva essere veloce, governare le divisioni, occuparsi di dare risposte al Paese piuttosto che dilungarsi in scontri e confronti che spesso appaiono molto autoreferenziali e distanti dai problemi reali della quotidianità. Purtroppo, invece, lo spettacolo di quei giorni ha dato ai cittadini esattamente quella sensazione e, soprattutto, per responsabilità del Partito Democratico.
Soprattutto per responsabilità del PD, è stata data ancora una volta l’idea di una politica che si occupa delle proprie questioni interne invece che dei problemi reali dei cittadini. Infine, dobbiamo riflettere sul fatto che in tre giorni abbiamo bruciato tre importanti risorse per il centrosinistra. È stato bruciato Franco Marini che – al di là dei racconti giornalistici che troppo spesso influenzano le nostre opinioni – è stato colui che ha portato il Partito Popolare nel centrosinistra mentre Buttiglione aveva scelto di fare l’alleanza con Berlusconi e questo avrebbe dovuto essere sufficiente per testimoniare che quell’etichetta di “inciucista” che gli è stata data fosse immeritata.
Poi abbiamo bruciato una figura importantissima per il centrosinistra quale è Romano Prodi: il fondatore dell’Ulivo, uno dei fondatori del Partito Democratico.
Infine, questa vicenda ha portato alle dimissioni del segretario Bersani, il quale ha sicuramente fatto errori ma lo squagliamento del gruppo dirigente a cui abbiamo assistito in queste settimane è stato un problema molto grande su cui il PD deve riflettere.

C’è qualcuno che ha detto che in quei giorni si è prodotta una vicenda salutare perché ha creato una discussione utile. Personalmente, avrei fatto una discussione salutare evitando tutto questo. Tuttavia, è vero che questa vicenda ha fatto emergere alcuni nodi che il Partito Democratico dovrà sciogliere al congresso. Il PD, infatti, per rilanciarsi, ha bisogno di affrontare con chiarezza alcune questioni che forse in questi anni abbiamo trattato sempre marginalmente nel timore di dividerci e non abbiamo mai risolto. 
Adesso, però, prima di tutto, dobbiamo rimettere al centro il Paese e la nostra responsabilità nei confronti dell’Italia: siamo la forza politica che ha la maggioranza assoluta alla Camera e abbiamo il compito di assumerci la responsabilità che il Presidente della Repubblica ha chiesto di avere a tutta la politica con il discorso molto duro e molto giusto che ha fatto al Parlamento e in cui ha esortato i partiti a rimettere al centro i cittadini, smettendola con scontri troppo spesso incomprensibili.
A quel richiamo, risponde la formazione del Governo Letta, di cui discuteremo alle Camere e che avrà sicuramente la fiducia.
Personalmente, penso che questo sia un governo che può durare (anche se non cinque anni) perché è stato fatto bene e non al solo scopo di evitare il voto ma con l’ambizione di fare delle cose. Se si avviano delle riforme istituzionali, inoltre, ci vorrà del tempo.
A mio avviso, è un governo che ha la possibilità di entrare in sintonia con l’opinione pubblica anche per come è composto. È un governo che ha una media di età di 11 anni inferiore a quella del governo precedente. È il governo con maggiore presenza femminile che ci sia stato fino ad ora in Italia. C’è un’innovazione: il primo Ministro di colore di questo Paese con la creazione di un Ministero all’Integrazione affidatogli. Ci sono tante competenze, come ad esempio quella del Ministro dell’Istruzione.
Sento critiche immotivate: si dice che queste sono scelte fatte come specchietti per le allodole, che i Ministeri pesanti sono tutti andati al PDL e non è vero. A me pare un governo composto bene e che può fare cose importanti.
È un governo in cui i partiti si sono assunti la responsabilità di fare delle cose e può mettere in difficoltà i parlamentari del Movimento Cinque Stelle, i quali, fino ad oggi, hanno sempre votato all’unanimità tutti i provvedimenti che sono arrivati in Parlamento.
Se togliamo loro gli argomenti che caricano i discorsi antisistema, probabilmente si aprirà una dinamica nuova. Ha fatto bene Letta a sollecitare il fatto che loro si scongelino e discutano con gli altri in Parlamento.

Noi dobbiamo fare i conti con ciò che è successo nei 60 giorni che sono trascorsi dal voto ad oggi. In questi 60 giorni, siamo apparsi come quelli che, di fronte alla crisi, hanno tenuto bloccato il Paese e per questo il Paese ci contesta. Siamo stati presentati così ma, in parte, lo siamo anche stati.
Siamo stati visti come quelli che hanno tenuto bloccato il Paese mentre il Paese aveva bisogno di risposte.
Berlusconi, in questa fase, si è presentato come quello responsabile.
Non c’erano molte alternative a questo con il quadro istituzionale che si è creato e che vede il Parlamento diviso in tre grandi schieramenti. Chi governa si deve necessariamente alleare con gli altri o, comunque, si deve accordare con gli altri affinché gli garantiscano le condizioni per dare un governo al Paese.
Al di là di tutte le chiacchiere che si sono fatte, mi pare evidente che il Movimento Cinque Stelle non abbia mai lasciato alcuno spiraglio possibile affinché ci potesse essere il loro sostegno al governo di cambiamento che il PD aveva proposto.
Inoltre, abbiamo avuto sempre di più la sensazione che il lavoro del Movimento Cinque Stelle fosse maggiormente orientato a mettere in difficoltà il PD piuttosto che ad altro.
Un’altra alternativa è il voto ma, personalmente, credo che con questo faremmo un pessimo servizio al Paese, che è in una crisi molto grande.
Oltretutto, nelle prossime settimane abbiamo da prendere decisioni che spettano ad un governo, quali il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali e della cassa integrazione in deroga, affrontare la questione degli esodati (perché da questione teorica sta diventando concreta e, nei prossimi mesi, ci saranno persone che davvero cominceranno a restare senza stipendio e senza pensione), si devono creare le condizioni per evitare l’aumento di un punto percentuale dell’IVA previsto tra qualche settimana, rivedere la TARES perché è una tassa che peserebbe molto sulle famiglie…
Credo, quindi, che un governo sia necessario.
Inoltre, andare a votare ancora con questa legge elettorale sarebbe drammatico per quanto riguarda l’aspetto del rapporto tra i cittadini e le istituzioni e tra i cittadini e la politica. Innanzitutto, si rischierebbe di riprodurre lo stesso meccanismo di ingovernabilità e poi ritengo che bisogna anche dare segnali rispetto al fatto che si cambia veramente. Nel mondo attuale, la politica non ha gli strumenti per intervenire con l’efficacia di prima nel dare risposte ai cittadini. Questo ha provocato una crisi di tutti gli istituti della rappresentanza (le istituzioni, i partiti, i sindacati, i corpi intermedi) perché mancano gli strumenti. Questo tema di come si rifonda un’idea di governo democratico, che guarda ai nostri valori va affrontato prioritariamente.
Letta, con la proposta di governo, ha fatto un buon lavoro: ha presentato una lista di ministri che è un buon incontro tra competenze e rinnovamento. A parte Alfano e lo stesso Letta, si è scelto di non mettere nel governo persone che avessero già svolto ruoli ministeriali e questo ha evitato molte delle cose che sono state annunciate in questi giorni sui giornali e che avevano terrorizzato i nostri simpatizzanti.
È un governo che può lavorare bene e si è dato degli obiettivi ed è un governo che ha una responsabilità politica. Non ci possiamo permettere, infatti, un altro governo tecnico in cui nessuno si assume politicamente la responsabilità di quello che succede, anche perché – come hanno dimostrato gli ultimi sei mesi dell’esecutivo Monti – alla fine c’è stato il “liberi tutti” e il governo era paralizzato.
Adesso, ogni forza politica si deve assumere fino in fondo la responsabilità di portare avanti le proposte che questo governo farà.
Molto della credibilità di questo governo si giocherà nelle prossime settimane. Letta ha già detto che, oltre delle questioni sociali ed economiche (con provvedimenti per rilanciare le imprese e l’occupazione), c’è anche da mettere in campo un ragionamento che riguarda le riforme (legge elettorale, revisione della legge sui rimborsi elettorali e apertura della convenzione che il PD aveva proposto in cui discutere della diminuzione del numero dei parlamentari, dell’eliminazione del bicameralismo perfetto che impedisce di avere tempi certi e rapidi per l’approvazione delle leggi e ciò che va fatto se vogliamo che la prossima volta i cittadini italiani vengano a votare con un rapporto di fiducia ricostruito con le istituzioni).
Il governo dovrà essere giudicato per ciò che farà e noi dovremo dare il massimo del sostegno, assumendoci le nostre responsabilità e impedendo che vi siano scelte non coerenti.
Personalmente, ritengo che un governo come questo possa dare delle risposte al Paese e riavvicinare i cittadini alla politica che, oggi, è il tema principale che abbiamo di fronte e che, se riusciamo ad agire nel modo giusto, ci può anche consentire di evitare che continui ad esserci quell’acqua in cui sguazzano Grillo, i populisti e l’antipolitica.

Il PD ha fatto molti errori da quando non ha vinto le elezioni.
Il primo è stato quello di aver avuto poco coraggio: dovevamo dirci subito la verità e cioè che le elezioni non le avevamo vinte e che senza i voti di altri non potevamo governare. Questo non lo abbiamo fatto e abbiamo assecondato un’idea secondo cui tutto ruotava attorno a Berlusconi e non ai problemi del Paese, per cui il tema è stato “mai con Berlusconi”, sapendo che dall’altra parte non c’era una sponda. Questo ci ha portato nella condizione in cui, quando abbiamo iniziato a dire che bisognava dialogare sicuramente sulle riforme istituzionali però anche su chi avrebbe garantito i voti al Senato per il governo, dato che questi non sarebbero arrivati da M5S e quelli di Scelta Civica non erano sufficienti. Questo ragionamento, però, se fosse stato fatto prima, forse si sarebbe creato un clima diverso e, sicuramente, non ci sarebbero stati i cortocircuiti che hanno segnato le vicende di quei tre giorni.
Molti ci scrivono sui socialnetwork che stiamo tradendo il mandato elettorale ma la verità è che il PD si è presentato agli italiani per chiedere un governo di cambiamento e, se oggi questo non c’è, è perché gli italiani non ci hanno votati in modo sufficiente per avere la possibilità di governare.
Abbiamo, giustamente, provato a sfidare il Movimento Cinque Stelle per costruire insieme un governo del cambiamento sugli 8 punti e da parte loro c’è stata una risposta negativa.
Tutto ciò va chiarito perché nei giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica ha tenuto banco l’idea secondo cui il voto a Rodotà avrebbe potuto essere il grimaldello per poter poi costruire un’alleanza con il Movimento Cinque Stelle ma questo non ci è mai stato garantito.
Inoltre, su questo, c’è stato un cedimento anche rispetto all’autonomia che un partito come il nostro deve avere.
Adesso possiamo fare un governo di servizio, istituzionale ma non saremo mai alleati di Berlusconi.
Il non volere Berlusconi, comunque, non vuol dire che avremmo dovuto allearci con chi, in questi giorni, ha detto che con noi non vuole aver nulla che fare, che siamo dei “morti che camminano”, che dobbiamo “arrenderci” e che ha costruito una festa in piazza quando si è dimesso il nostro segretario. Penso, invece, che dobbiamo recuperare un po’ di autonomia rispetto a tutto questo.

Il PD ha sbagliato perché ha spiegato troppo poco cosa stava facendo.
Abbiamo pensato che fosse giusto dividere la questione istituzionale dell’elezione del Presidente della Repubblica dalla questione del governo.
Abbiamo sostenuto che il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto essere eletto dalla parte più ampia possibile del Parlamento perché deve essere rappresentativo per tutti gli italiani e avevamo detto che avremmo aperto una discussione con tutte le forze politiche presenti. Faccio un inciso: se Berlusconi avesse preso il Presidente della Camera, il Presidente del Senato, avesse chiesto il ruolo di Presidente del Consiglio e avesse anche voluto eleggere un suo Presidente della Repubblica solo con i propri voti (circa il 25%); cosa avremmo detto? Avremmo gridato che era un golpe e, soprattutto, ci sarebbe stato uno strappo istituzionale molto serio perché il Presidente della Repubblica è la figura che deve rappresentare non chi ha vinto le elezioni ma tutti gli italiani.
Così il PD ha aperto la discussione con tutte le forze presenti. Il Movimento Cinque Stelle si è rifiutato di discutere.
Il Partito Democratico ha presentato una rosa di nomi e, da qui, è uscita la proposta di Marini. Improvvisamente ci siamo resi conto che non l’avevamo spiegato. Anzi, nei quaranta giorni in cui abbiamo spiegato che un governo con Berlusconi non lo avremmo fatto mai, si è creato un clima che ha reso impossibile – anche da parte dell’opinione pubblica – capire la scelta di dialogare sulla Presidenza della Repubblica.
Questo ha prodotto il cortocircuito che ha portato alla reazione dell’opinione pubblica e ha creato anche le condizioni affinché la proposta di Marini non passasse tra i grandi elettori del centrosinistra. O meglio, è passata dalla votazione dell’assemblea dei grandi elettori del Partito Democratico ma poi la decisione (presa dalla maggioranza dei votanti) non è stata rispettata in aula. Ne è seguita la proposta di Prodi, presentata il giorno successivo, che è stata un’altra scelta difficile da spiegare perché aveva il senso opposto rispetto a quella di Marini. Prodi era una proposta di rottura nei confronti del PDL e di altre forze che stanno al centro e aveva l’ambizione e l’illusione di poter smuovere di nuovo il Movimento Cinque Stelle (essendo un candidato anche della loro lista). Il voto contrario del Movimento Cinque Stelle, tuttavia, ha dimostrato che da parte loro non vi era alcuna intenzione di assumersi delle responsabilità: M5S in questi mesi ha lavorato esclusivamente per mettere in difficoltà il PD.
Infine, siamo arrivati all’elezione di Napolitano.
Non la pensiamo tutti allo stesso modo ed è giusto che sia così: è la ricchezza di questo partito. Purtroppo, il rapporto tra l’opinione pubblica e il centrosinistra è mediato da un’informazione che partecipa: mi domando, infatti, se gli sms e le email che hanno ricevuto alcuni eletti ci sarebbero stati se La Repubblica non avesse sparato la foto di Bersani con la mano sulla spalla di Alfano o se il giudizio di una parte dei nostri simpatizzanti sull’elezione di Napolitano sarebbe stato così negativo se non fosse stata sparata la foto di Berlusconi che rideva contento per questo. 
C’è un problema di autonomia del Partito Democratico rispetto a tutto questo.
La cosa che mi ha più ferito nelle discussioni di questi giorni è stato un recupero di termini che ci avevano abbandonato, anche grazie alle primarie e riguardano il rapporto “base-vertice”. Il termine “la base” era scomparso, non ne parlavamo più, non perché non ci sia una distinzione tra i gruppi dirigenti che hanno delle responsabilità e gli iscritti, ma è evidente che questa vicenda ha creato una distanza maggiore.

Adesso dobbiamo decidere se, in questa fase storica, tutte le nostre scelte devono ruotare attorno a ciò che fa Berlusconi oppure devono ruotare attorno a cosa serve al Paese e che cosa mettere in campo.
Avendo letto le centinaia di messaggi che ci sono arrivati ogni sera, vedo che c’è una parte di noi che mette i problemi del Paese dopo la necessità di combattere Berlusconi.
Personalmente, sono convinto che Berlusconi sia una iattura per questo Paese, però rappresenta una parte di questo Paese, è stato votato e con questo dobbiamo fare i conti.
Non ci alleeremo mai con Berlusconi ma non possiamo neanche farci guidare da Berlusconi (nel bene e nel male).
Per questo pongo la questione dell’autonomia del PD.
Nei giorni in cui si stava eleggendo il Presidente della Repubblica, abbiamo rischiato di farci guidare perché ormai abbiamo dei riflessi condizionati e sia Grillo che Berlusconi sanno cosa fa scattare il nostro elettorato. Noi, invece, abbiamo bisogno di una nostra autonomia. La famosa “vocazione maggioritaria” era questo: dobbiamo avere un’idea nostra di società e di Paese che non può essere messa in discussione ogni volta a seconda di ciò che dice Berlusconi o a seconda di ciò che dice Grillo.

Questa vicenda, quindi, ci ha messo di fronte ad alcuni nodi che dovremo affrontare al congresso.
Dobbiamo farlo non solo per noi ma perché il Paese ha bisogno del Partito Democratico.
Il Partito Democratico è una grande forza e una risorsa per il Paese, per questo abbiamo il dovere e la responsabilità di rilanciare il PD.
La strada non si trova dietro di noi. Date le difficoltà in cui siamo, non credo che la risposta possa essere quella di rifugiarsi nelle vecchie appartenenze perché ci rassicurano. Non è vero che questa ipotesi non è più in campo perché il tema di recuperare ancora le vecchie divisioni del ‘900 c’è ed è anche dentro di noi. Un autorevole dirigente del PD ha dichiarato che tutto ciò che è accaduto è dovuto al fatto che abbiamo fatto il PD, per cui l’idea che si possa tornare a separarsi tra socialdemocratici e democristiani è presente.
A mio avviso, si tratta di un’idea antistorica ma su questo tema dobbiamo chiarirci.
Personalmente, credo che il progetto del PD vada rilanciato ma occorre farlo con chiarezza su alcuni punti.
Il primo problema è che abbiamo costruito un partito che voleva riunire i riformisti di questo Paese e adesso dobbiamo decidere che partito siamo in maniera chiara. Dalla discussione sul governo non si può uscire con una linea mediana: bisogna fare una scelta tra una linea riformista e una radicale. Penso che possano convivere le due anime (radicale e riformista) dentro allo stesso partito ma bisogna scegliere che cosa si fa e su quale strada si va. Non credo che al fatto che possiamo tenere insieme tutte le spinte (ad esempio l’antiberlusconismo con la necessità di sostenere questo governo).
Personalmente, penso che dobbiamo scegliere la strada originaria del PD che nasce come forza riformista.
Credo che questo sarà il tema del congresso.

C’è poi un tema che riguarda le alleanze.
Noi della coalizione di centrosinistra abbiamo firmato la Carta gli Intenti Italia Bene Comune che ci impegnava ad andare nelle assemblee degli eletti, votare e adeguarci al voto della maggioranza.
Nell’assemblea che ha deciso di votare Marini, su proposta del segretario Bersani, SEL (che prima aveva lavorato per evitare che fosse in campo Amato) se n’è andata senza votare e dal giorno dopo ha cominciato a manovrare per mettere in difficoltà il PD e interpretare il malessere e il disagio verso il centrosinistra pensando di poter lucrare sulle nostre difficoltà. Lì c’è stato uno strappo serio e non possiamo far finta di niente.
Questa vicenda dimostra che c’è un tema che riguarda le alleanze e il come si costruiscono e una discussione su questo punto va affrontata.

Si è parlato molto dei 101 franchi tiratori. Personalmente, ho votato sempre come ha indicato la maggioranza del gruppo. Credo, però, che si dovrebbe parlare molto anche dei quasi 200 parlamentari che non hanno votato Marini perché comunque, anche se lo avevano dichiarato in anticipo, non hanno rispettato ciò che avevamo deciso in assemblea. Il risultato è stato che ci siamo ritrovati nella condizione in cui Marini non è passato perché sono mancati i voti nostri e non quelli del centrodestra.
Alla luce di questo, credo che ci sia un problema ed è quello che Bersani ha posto bene in direzione e cioè se siamo uno “spazio politico” o un “soggetto politico”. Se siamo un “soggetto politico”, vuol dire che ognuno di noi eletto (a parte i casi di coscienza ma qui non c’erano) deve essere disposto a rinunciare ad un pezzo della propria sovranità di fronte alle scelte collettive.
Queste sono le regole di base.
Abbiamo spesso criticato i partiti personali (di Berlusconi, Monti, Grillo), però, quelli che sono eletti in quelle liste un pezzo di sovranità l’hanno ceduta: hanno dimostrato una disciplina di partito molto più seria della nostra.
Anche su questo punto c’è un tema da affrontare: che partito siamo e come si sta in un partito? La credibilità di un partito sparisce nel momento in cui gli eletti, nonostante ci siano state discussioni e sia stata presa una decisione comune, fanno ciascuno ciò che vuole e cambia poco nella sostanza se qualcuno lo ha detto o no che agiva diversamente. O c’è un luogo in cui si decide e poi ognuno si adegua alla decisione presa o è anarchia.
Pensiamo a cosa sarebbe accaduto se avessimo potuto fare un governo di minoranza in queste condizioni: sarebbero bastati cinque eletti discordi per mettere in crisi il governo ad ogni passaggio.
Non può funzionare così e su questo dobbiamo riflettere.
Personalmente, vorrei un partito che agisse come un “soggetto politico” in cui i gruppi dirigenti e gli eletti si assumano la responsabilità nei confronti del partito di ciò che fanno e rispetto a quello che si decide insieme. Vorrei un partito in cui non si presenti come un eroe - come sta succedendo in queste ore - chi ha votato tre o quattro volte in maniera diversa da ciò che si è deciso insieme, perché altrimenti questo non è più un partito.
È un partito pericoloso quello in cui viene mitizzato chi ha fatto ogni volta in modo diverso da ciò che si era stabilito. Un conto è il dissenso, un altro conto è mettere nelle mani di chiunque la possibilità di scardinare le scelte della maggioranza.
Il problema non è la sostanza delle discussioni perché si può anche aver ragione ma il gruppo aveva scelto un’altra cosa e andava rispettato.
Se si rompe questo meccanismo per cui ognuno di noi cede un po’ della propria sovranità al partito, tutto si riduce a chi la spara più grossa, a chi ha più visibilità e ai meccanismi di quel sistema informativo che vuole condizionare le nostre scelte ed è un problema.

Legato a questo tema dobbiamo riflettere anche su a chi rispondono gli eletti.
Al Senato abbiamo bocciato per due volte la richiesta di dimissioni di una senatrice del Movimento Cinque Stelle sostenendo che c’è un articolo della Costituzione che consente agli eletti di non avere vincolo di mandato affinché si sentano garantiti, perché pensiamo che M5S stia costringendo quella senatrice a dimettersi. Tuttavia, non può passare l’idea che gli eletti non rispondano più ai partiti ma solo a chi li ha eletti alle primarie o al web.
Dopo aver rischiato per molti anni di esser subalterni al berlusconismo rispetto ad un’idea di politica, oggi rischiamo di essere subalterni al grillismo. Personalmente, credo che sia inaccettabile questa idea che non ci si assume più la responsabilità delle scelte ma si risponde a chi ha votato alle primarie piuttosto che altro.
Su questo occorre fare chiarezza e bisogna discutere.

Il 4 maggio eleggeremo un reggente che guidi il PD fino al congresso. Non credo che potremo inventarci regole congressuali nuove.
Adesso dobbiamo pensare a dar vita a questo governo e aiutarlo a fare subito delle cose per dare dei segnali sia sulle questioni sociali che sulle questioni della riforma della politica.
Personalmente, non sono molto preoccupato rispetto alla tenuta dei gruppi di Camera e Senato su questo: la stragrande maggioranza dei parlamentari voterà la fiducia al governo convintamente e senza alcun problema.
Su questo punto, oggi, si assiste alla stucchevole discussione sulle espulsioni.
La Camera e il Senato non hanno fatto partire le Commissioni perché queste, per essere composte, hanno bisogno che sia chiaro chi sta in maggioranza e chi all’opposizione, quindi, non esiste istituzionalmente la possibilità che un gruppo abbia un po’ di persone che stanno in maggioranza e un po’ in minoranza. È, quindi, un problema istituzionale oltre che di buon senso. Poi, se ci sarà bisogno, il partito discuterà.

Dobbiamo costruire un congresso per sciogliere quei nodi, confrontarci sul fatto che dobbiamo essere un partito riformista o un’altra cosa, come si sta in un partito. Fatto questo possiamo ripartire, rilanciare questo partito, sapendo che abbiamo la fortuna di essere l’unico partito che ha un radicamento grande, tante persone che si sentono proprietarie di questo partito e pretendono da chi lo rappresenta comportamenti adeguati.
Faremo un congresso in cui finalmente parleremo di rinnovamento e di gruppi dirigenti non dal punto di vista generazionale perché, sotto questo aspetto, ciò che c’era da rimuovere è stato rimosso. Siamo in una situazione in cui il gruppo dirigente uscente di fatto non c’è più; altre persone che hanno fatto la storia di questo partito hanno già fatto dei passi indietro o sono stati costretti dalle vicende a fare passi indietro.
Oggi possiamo ragionare serenamente in un congresso in cui si parla di politica, delle scelte politiche e non delle persone. Il rinnovamento generazionale è stato fatto, lo dimostra il Parlamento, e possiamo ragionare sui meriti e le affidabilità in rapporto alla linea politica che decideremo di darci.
Questo è l’impegno che ci dobbiamo prendere tutti insieme, prima di tutto chi ha l’onere di rappresentare questo partito.  
 
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