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Pd, una difficile ripartenza

Scritto da Lorenzo Gaiani.

Lorenzo GaianiArticolo pubblicato dal sito delle Acli.

L’evento bolognese del Partito Democratico svoltosi dal 15 al 17 novembre ha fatto riscontrare una forte partecipazione, il che dimostra, se non altro, che il partito guidato da Nicola Zingaretti ha tuttora un radicamento ed una capacità mobilitativa altamente apprezzabili, specie se si tien conto che coloro che hanno partecipato lo hanno fatto a loro spese, viste le ormai ridotte capacità finanziarie dei partiti politici.
Si aggiunga anche l’evidente qualità dei relatori intervenuti all’ evento – intitolato significativamente, ed in neanche tanto sottile polemica con il recente passato del partito “Tutta un’altra storia”- coinvolti da Gianni Cuperlo nella sua qualità di presidente della neonata Fondazione Costituente , sul modello tedesco , dovrebbe affiancare il Partito nell’ attività di ricerca e formazione, il che fra le altre cose dimostra come vi sia ancora la percezione del PD come di un luogo interessante per chi ha delle proposte da fare per lo sviluppo economico, sociale e politico del nostro Paese.
Ciò a maggior ragione in un contesto particolarmente difficile, in cui il PD viene da una non interrotta striscia negativa di sconfitte elettorali a tutti i livelli (con l’eccezione di alcuni importanti Comuni e con quella, assai disputata, del risultato delle elezioni europee del maggio scorso, dove l’aumento percentuale rispetto alle elezioni politiche del 2018 è stato essenzialmente frutto del calo generale della partecipazione al voto), da ultimo nella Regione Umbria già baluardo “rosso”, e nella prospettiva delle elezioni di gennaio in Emilia-Romagna, realtà ancora più simbolica e resa contendibile, dopo quasi cinquant’anni di ininterrotta egemonia della sinistra, dall’impetuosa avanzata, in territori fin qui per lei assai impervi, di una destra a trazione leghista/sovranista. E’ chiaro che un’eventuale sconfitta in quella Regione così altamente simbolica avrebbe un impatto traumatico sia per le già barcollanti sorti del Governo giallo-rosso sia per lo stesso Zingaretti, il quale esaurirebbe di un colpo quella sorta di “bonus” che gli è stato fin qui conferito come “vittima” della pessima reputazione lasciata al PD dagli anni di Renzi.
D’altro canto, non si può dire che il PD abbia fin qui brillato per la qualità della sua proposta politica, né nel periodo dell’opposizione, dove il lavoro dei parlamentari democratici è rimasto sottotraccia rispetto ad una comunicazione politica in perenne affanno, sia nell’attuale stagione governativa, dove si è fatto travolgere dalla demagogia grillina anche su di un’essenziale questione di politica industriale come quella dell’ex ILVA, e la richiesta formulata al termine dell’assise bolognese da Zingaretti dello smantellamento dell’ apparato securitario messo in piedi da Salvini e di una riconsiderazione dei dossier dello jus culturae è stata rigettata con toni sprezzanti dal capo politico dei Cinquestelle Luigi Di Maio.
Allo stato di cose, la realizzazione più significativa sin qui ottenuta dalla Segreteria Zingaretti è quella della riforma dello Statuto, certificata in coda ai lavori bolognesi dall’Assemblea nazionale del partito, frutto di una complessa mediazione della quale è arrivato ben poco sui territori, che di fatto è stata la giustapposizione fra la volontà di molti di liquidare definitivamente la fase della “vocazione maggioritaria” e del ruolo prevalente degli elettori rispetto agli iscritti che si esplicita tramite le primarie e la resistenza di chi non voleva avallare un arretramento che, di fatto, avrebbe significato persino cestinare l’atto fondativo del PD, cioè il discorso del Lingotto di Walter Veltroni nella primavera del 2007. In ogni caso, lo Statuto di un partito politico non è certo argomento tale da suscitare soverchia simpatia o anche solo interesse da parte dell’opinione pubblica. Il dato di fatto è che il tono complessivo della tre giorni bolognese ha segnato in molti interventi dei principali relatori una tendenza generale ad un ripiegamento su antiche e rassicuranti sicurezze rispetto all’attacco generalizzato della cultura populista e sovranista della nuova destra che sta mettendo in discussione i cardini della democrazia liberale. Così ad esempio la rivendicazione da parte di Fabrizio Barca della ripresa di imprecisati “strumenti del XX secolo” sembra l’indice di una difficoltà a comprendere un XXI secolo che peraltro è già incominciato da vent’anni. Allo stesso mondo Maurizio Landini – al quale è stato consentito di svolgere un amplissimo intervento, differentemente dai suoi omologhi di CISL e UIL, e anche questo è un segnale- ha sì ammesso il fallimento di tutte le culture di sinistra nel comprendere la deriva culturale e sociale in atto, ma ha dimenticato di dire che il fallimento dell’opzione comunista – a differenza di quelle socialdemocratica, liberaldemocratica e cristiano – sociale- non solo ha determinato pesantissimi costi umani, ma ha anche causato, nel disvelarsi della sua realtà oppressiva ed economicamente fallimentare, una sorta di preventiva delegittimazione di ogni alternativa possibile al neoliberismo come ideologia e prassi in quanto squalificata dagli esiti di ogni forma di socialismo realizzato.
Non è un caso che autorevoli esponenti democratici come Giorgio Gori e Maurizio Martina abbiano ritenuto di dover prendere le distanze da un mood di generale rifiuto della concreta prassi di governo del PD nella legislatura precedente – di cui numerosi sostenitori dell’ attuale Segreteria erano stati pienamente partecipi- e da una retorica che ripudia la cultura d’impresa (la quale peraltro potrebbe benissimo sposarsi con la rivendicazione di una nuova centralità del lavoro avanzata da Landini) dando la sensazione , da un lato, di una totale estraneità di taluni dirigenti alle questioni relative al modello di produzione e alle dinamiche sociali in atto, e, dall’altro, della totale inconsapevolezza da parte degli stessi dirigenti del mero dato di fatto che il vero problema di questo Paese è che la crescita economica è bloccata da vent’anni e non riparte se non c’è un’alleanza positiva fra impresa, Stato e forze del lavoro. Va detto, comunque, che nel suo intervento finale Zingaretti si è tenuto lontano dalle questioni ideologiche preferendo concentrarsi sulle contingenze politiche.
Infine, non si può non rilevare la marginalità che nel contesto generale della tre giorni è stata riservata all’apporto del pensiero cattolico, al di là di qualche citazione più o meno strumentale del magistero di Papa Francesco e della presenza di relatori qualificati come il p.Francesco Occhetta, Mauro Magatti ed il Presidente nazionale delle ACLI Roberto Rossini, i quali peraltro, al di là dell’indubbio valore delle loro comunicazioni, sono sembrati chiamati a fare da contorno rispetto ad un quadro complessivo in cui la presenza dei credenti – non in quanto singoli ma in quanto espressione di un movimento di pensiero e di azione sociale- viene ritenuta inessenziale, forse perché li si ritiene ormai acquisiti largamente alla nuova destra, così implicitamente dando ragione a quanto sostenuto quindici giorni fa dal card. Ruini nella sua famosa intervista al Corriere della sera: e anche questo sarebbe un segnale dell’abbandono del progetto originario del PD.
E’ possibile che questo giudizio sia eccessivamente negativo e che i fatti ci smentiscano: del resto, più che i dibattiti ideologici che generalmente rimangono fra gli addetti ai lavori, è la prassi nelle istituzioni e nella società a determinare il reale carattere di un partito politico. D’altro canto, non è chi non veda come un progressivo insterilimento del PD sarebbe drammatico per la tenuta del quadro democratico del Paese facendo venir meno l’unica alternativa al populismo grillino e, soprattutto, al dilagare della destra sovranista. Ma il problema del ripiegamento ideologico rimane, e le tre giornate di Bologna non lo hanno dissipato, tutt’altro.
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