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I giovani italiani vogliono andare via dalle città più ricche

Scritto da AGI.

Milano
Articolo di AGI.

Un paradosso si aggira per l’Italia. Ed è quello che vede i nostri ragazzi andarsene all’estero partendo o abbandonando proprio le città più ricche. E quel che resta da capire, secondo Federico Fubini che ne scrive sul Corriere della Sera, è proprio perché “tanti italiani colti, preparati, giovani e ambiziosi vogliano andarsene. Difficile pensare che siano solo migranti economici dei ceti schiacciati dalle forze tecnologiche e commerciali del secolo”.
Quel che resta un enigma, semmai, “il fatto che gran parte di coloro che vanno all’estero vengano dalle regioni più ricche”.
Che è anche una chiave per poter meglio capire l’Italia. Infatti, delle 57 province con un tasso di emigrazione internazionale superiore alla media del Paese, “45 hanno anche un tasso di occupazione più alto della media”. Cioè “si espatria da culle di qualità della vita, ricchezza e produttività come Mantova, Vicenza, Trieste, Varese, Como, Trento”. Tanto che “fra le prime venti province per percentuale di abbandono del Paese, soltanto tre hanno meno occupati della media”.
Domanda delle domande: perché allora i giovani se ne vanno da città tanto civili, floride e accoglienti? La risposta è che c’è una forte “correlazione fra le aree di origine di questi ragazzi e la mappa delle crisi dei distretti italiani”. Quindi, Macerata con le calzature, i mobili in legno di Udine o di Pordenone, l’industria orafa a Vicenza o ad Arezzo, il tessile di Como. “Questi sono luoghi di antica ricchezza ma alta intensità di defezioni verso il resto del mondo, ancor più che verso il resto del Paese” si può leggere ancora nel servizio di inchiesta e di analisi del fenomeno.
Ma poi, secondo Fubini, esiste anche una seconda correlazione: “Sei delle undici province che nel 2017 hanno conosciuto la più alta emigrazione verso l’estero sono state teatro, negli anni precedenti, di dissesti bancari” come Imperia, Macerata, Vicenza, Teramo, Treviso e Arezzo. Ma la mappa dell’espatrio ci dice però che le motivazioni più profonde non sono solo economiche. Sono anche “culturali e psicologiche” cosicché “le nuove generazioni istruite tendono a trovare il modello di piccola e media impresa italiana arretrato sul piano delle tecnologie, inadeguato nella prima linea dei manager, riluttante a dar loro spazi di crescita rapida”.
Quindi “possono decidere che non vogliono più subire l a lentezza, l’atrofia e la rigidità delle carriere. E se ne vanno”. Ma i paradossi non finiscono qui. Meglio, non finiscono mai. Perché c’è chi va e anche chi viene. La Stampa di Torino dedica infatti un ampio servizio alle storie dei dottori, non proprio giovanissimi, mezz’età, arrivati da tutto il mondo e che da anni lavorano nei nostri ospedali, sentendosi da sempre italiani. Arrivati nel nostro paese anche a partire dalla metà degli anni ’70, come la ginecologa Mbiye Diku da Kinshasa, proveniente dal Congo, il cui primo parto da medico è stato nel 1981.
E così si esprime: “Sono stati anni belli. Anni di alti e bassi. Quando sono arrivata, l’Italia era provinciale. Un posto chiuso. Ma con ingenuità e grazia. Poi ha cominciato ad aprirsi e modernizzarsi sul piano culturale e sociale. Quindi è arrivato il declino. Inesorabile, salvo qualche breve risalita. Ora la crisi è sotto gli occhi di tutti”. Dove la qualità della prestazione “non conta più", “si lavora a cottimo”, la solidarietà tra colleghi “è sparita” anche per il troppo stress, “siamo tutti numeri”. A cui s’aggiunge la cattiva gestione degli ospedali, il blocco delle assunzioni, la crescente insoddisfazione.
Segno di un declino del Paese. Chissà, forse potrebbero persino pensare di tornare nel proprio Paese d’origine. O comunque lasciare l’Italia. Anche loro, come i giovani di cui sopra.
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