Memoria di un Giusto
“Il cardinale Martini è stato per la Chiesa un padre, un profeta e un maestro, e ricordarne la memoria è solo un atto di giustizia”. Così Papa Francesco si è espresso il 30 agosto, alla vigilia del primo anniversario della morte dell’Arcivescovo emerito di Milano, ricevendo i dirigenti della neonata Fondazione Carlo Maria Martini, guidata dal Provinciale d’Italia dei Gesuiti padre Carlo Casalone e dal direttore di “Aggiornamenti sociali” padre Giacomo Costa.
Questa dichiarazione del Pontefice è stata rilanciata dalla Radio Vaticana, e costituisce ad ogni effetto il sigillo che il primo Vescovo di Roma gesuita della storia ha voluto apporre alla memoria del suo illustre confratello, non certo (o non solo) per la comune militanza nelle schiere dei figli del Loyola, ma essenzialmente perché questo è il suo pensiero, peraltro non troppo dissimile da quello che Benedetto XVI consegnò nel messaggio che venne letto un anno fa ai funerali del Cardinale.
Sicché Martini è stato un Padre della Chiesa, ossia una figura che ha esercitato nella comunità dei credenti un magistero speciale, che per certi versi è andato oltre i confini pur vasti della Diocesi di Milano: una figura che, si può dire, grandeggia ancora di più a distanza di un anno dalla sua scomparsa per la profondità del suo pensiero e per l’acume delle sue intuizioni sulla Chiesa che in qualche modo questo inizio del pontificato di Francesco ha confermato.
Soprattutto, l’idea dominante che la Parola di Dio cui egli dedicò tutta la sua vita dovesse diventare vita vissuta delle donne e degli uomini e giustificare e costruire percorsi di vita nella città in condizioni sempre più complesse, in cui la fede non è scontata, non solo perché vi sono altre persone che professano fedi diverse o non ne professano alcuna, ma anche e soprattutto perché la fede stessa assume contorni e forme altre rispetto a quelle che tradizionalmente si erano consolidate.
A voler ben vedere, il senso profondo del Concilio Vaticano II, che viene definito da alcuni “Concilio pastorale” per depotenziarne il significato, era proprio quello di aprire una fase generale di ripensamento del modo di comunicare la fede nella società in una fase storica complessa che era certo storicamente segnata dalla contrapposizione fra Est ed Ovest, ma faceva già intravvedere istanze diverse, dall’emergere delle istanze dei popoli del Sud del mondo alle esigenze di soggettività personale che una gioventù inquieta esprimeva in Occidente e che avrebbe trovato nell’esasperazione della dialettica politica solo una prima, parziale risposta che sarebbe poi rifluita in un’accettazione pigra di un modello di sviluppo opulento che nel frattempo è andato sempre più erodendosi.
In questo senso, per Martini Milano era come l’archetipo delle trasformazioni in atto, soprattutto grazie ad una classe dirigente politica ed imprenditoriale perennemente inconsapevole dei passaggi che stava vivendo, e che amministrava il declino di un modello di sviluppo senza proporne uno alternativo, nello stesso tempo seguendo tutte le mitologie, fossero di matrice craxiana, leghista o berlusconiana (questo evidentemente lo diciamo noi, non il Cardinale, ma si tratta di dati di fatto universalmente noti), come se fossero ricette salvifiche mentre erano essenzialmente dei placebo per non vedere la triste realtà.
E in effetti, fin dal 1987 Martini denunciò il clima crescente di ambiguità e di corruzione che dominava la scena politica, e venne trattato da guastafeste e qualunquista; poi scoppiò Tangentopoli, e qualche imbecille arrivò ad accusare il Cardinale di più o meno tacita complicità con una classe dirigente disonesta; nello stesso tempo, le sue critiche alla gestione accentratrice della CEI ruiniana e la sua convinzione che evangelizzazione non facesse rima con organizzazione lo condannarono ad una pratica marginalità nella gestione del potere ecclesiale. Nel frattempo beninteso la dirigenza della CEI accumulava pagine e pagine di documenti che nessuno leggeva e metteva in piedi circhi mediatici con intellettuali foraggiati e plaudenti, salvo ritrovarsi con un’Italia ancora più scristianizzata e un’opinione pubblica convinta che la vera preoccupazione dell’Episcopato fosse la conservazione del proprio potere politico ed economico.
Negli anni del suo episcopato Martini fu un pedagogo amato da molti e sopportato da altri, e questo si vide con chiarezza dopo le sue dimissioni nel 2002, ed in particolare negli ultimi cinque anni della sua vita, quando l’astio e l’odio dei circoli più reazionari dentro e fuori la Chiesa non hanno avuto più ritegno e si sono manifestati anche nei giorni della morte come reazione rabbiosa ed impotente di fronte ad un cordoglio che univa tutti gli strati popolari e non solo, come si pretendeva, intellettuali più o meno eterodossi: un popolo che è tornato a gremire il Duomo di Milano il 31 agosto scorso quando il cardinale Scola insieme ai cardinali Tettamanzi e Coccopalmerio e numerosissimi altri Vescovi e sacerdoti hanno celebrato una Messa solenne, e ai molti altri che si sono uniti nella preghiera e nel ricordo in tutte le altre parrocchie della Diocesi ambrosiana e non solo.
Ciò che i critici di Martini non capivano, o non volevano capire, era che il Cardinale parlava alle persone nel loro insieme, al loro cuore e alla loro mente, e li trattava da adulti non in contrapposizione alla necessità di una fede ingenua (che nell’accezione di certuni è una fede incolta che poco si distingue dalla superstizione), ma nella consapevolezza che parlare alla donna e all’uomo di oggi vuol dire anche parlare ai loro dubbi, alle loro paure, anche ai loro sogni, cercando di ricondurli alla logica del Vangelo che non è quella dei burocrati né quella dei fanatici.
Molti finsero di non capire, ma molti altri, magari anche alla “fine del mondo”, ascoltarono e capirono.