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Il leone e la zebra

Scritto da Roberto Pecoraro.

Roberto PecoraroMilano, centro città, sabato sera, la luce della lampada da tavolo si riflette attraverso il whisky che Matteo e Francesco stanno sorseggiando. I bambini giocano in mansarda mentre le mogli stanno smantellando il guardaroba alla ricerca non si sa di cosa; probabilmente vogliono godersi soltanto un po’ di tranquillità e di confidenze. Matteo racconta un fatto, riferitogli di recente.
Una persona, che era venuta a conoscenza di un traffico losco nel suo quartiere, voleva esporre denuncia.
Un “capetto” della malavita di zona, venutolo a sapere, lo aveva avvicinato, dicendogli: “Ricordati che nella giungla ci sono le zebre ed i leoni. Ecco, tu sei una zebra!”.
Francesco è un milanese DOC, Matteo un siciliano trapiantato da una decina d’anni a Milano.
Francesco inizialmente non riesce a cogliere il senso profondo della minaccia, poi chiede:
“E lui cos’ha fatto? Lo ha denunciato, vero?”
“No”
“E che schifo, così non cambierà mai niente!”
zebraleone “Tu cosa avresti fatto, considerando che hai due figli piccoli e che queste persone sanno dove abiti?”
“Eh beh, avrei fatto la stessa cosa. Ma allora, secondo te, come si fa a combattere contro questi comportamenti mafiosi?”
Per comprendere come combattere questi comportamenti, cari lettori, occorre conoscere, innanzitutto, qual è il substrato psicologico che può trasformare un’allegoria come quella del leone e della zebra in una minaccia assoluta, paralizzante! Parlo del senso di solitudine profonda in cui viene messa, da chi minaccia, la vittima. Una solitudine insormontabile, un senso di impotenza assoluta.
La stessa solitudine della zebra che sta per essere attaccata, la medesima sensazione che provano le vittime del bullismo!
Per comprenderlo bisogna essere tra quelli che, nel 1992, in Sicilia, avevano appena compiuto 18 anni e ricordano esattamente cosa stavano facendo il 23 maggio, nel momento in cui si apprese la notizia della strage di Capaci. Il tempo si fermò e quell’istante rimase per sempre cristallizzato nei cuori.
La sensazione fu di profonda impotenza, di grande solitudine, di inadeguatezza, di sconfitta. Fu la sensazione della resa anticipata di una generazione che stava proprio allora per affacciarsi alla maturità.
Per comprenderlo bisogna avere tatuata sulla pelle la polvere di Via D’Amelio, dopo l’esplosione del 19 luglio 1992: bisogna ricordare l’odore acre della carne bruciata che si sentì per ore nella zona.
Per comprenderlo bisogna provare quel senso di batticuore ogni volta che si percorre il tratto di autostrada da Punta Raisi a Palermo, bisogna sentire il nodo alla gola quando, sulla destra, si comincia a vedere la lapide rossa che ricorda il luogo dell’esplosione.
Per comprenderlo bisogna avere pianto, almeno una volta, per un delitto di mafia.
La mafia vive di questo, della solitudine delle proprie vittime.
Colpisce solo chi è solo!
Falcone e Borsellino erano stati lasciati soli, così come le circa 5000 vittime di mafia che si contano a partire dal 1860.
Allora come si combatte la prepotenza mafiosa?
Si combatte innanzitutto rompendo l’isolamento delle potenziali vittime, ed agendo su molti altri fronti, a partire dall'educazione alla legalità delle nuove generazioni.
Se a Palermo ed in altri luoghi le cose in questi anni sono cambiate è perché le Istituzioni hanno rotto quel muro di isolamento: fornendo protezione a chi denunciava, arrestando i delinquenti, confiscando i beni.
Bisogna agire globalmente per innescare quel circolo virtuoso che ha fatto dell’Italia, purtroppo sulla scia di troppo sangue versato, una delle nazioni all’avanguardia nella lotta contro il crimine organizzato.
Oggi è una bella domenica di sole: accompagno mio figlio di 7 anni a giocare la sua partita di calcio in trasferta.
Il centro sportivo si chiama “Falcone e Borsellino”.
Mi chiede chi sono queste due persone, io inizio a raccontargli la storia di un leone e di una zebra!

Per contattare Roberto Pecoraro e seguire la sua attività: Twitter @RoPecoraro - Pagina Facebook - Sito web

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