Un'Europa integrata
Articolo di Patrizia Toia.
Senza troppi giri di parole, Draghi ha detto in modo lapidario ciò che molti di noi europeisti credono profondamente: o si fa un grande salto di cambiamento, oppure si diventa ininfluenti (e inutili).
Draghi usa parole come "collaborazione" e "cooperazione" a livelli senza precedenti: si tratta dunque di integrazione istituzionale e politica, di sovranità, competenze, poteri e governance dell'UE. Le opzioni, a mio avviso, sono due: o una riforma dei Trattati, oppure una fortissima volontà politica (e capacità programmatica) che, al di là delle basi giuridiche e legali, scelga la strada della comunitarizzazione e operi già come Europa federale, di diritto o di fatto (si potrebbe dire così). Dobbiamo avere il coraggio di un cambiamento radicale.
Questa premessa è essenziale per realizzare il programma che Draghi ha anticipato ieri a Bruxelles. Non è un federalista sognatore o velleitario, anzi, è un uomo delle istituzioni con una visione concreta del governo della realtà. Ma perché tanta urgenza e tanto coraggio? Perché, con il riaccendersi dei conflitti nel quadrante europeo e mediterraneo, la situazione è completamente cambiata. Le vulnerabilità economiche e sociali (europee o nazionali che siano) diventano vulnerabilità geopolitiche, mettendo a rischio l'indipendenza del nostro continente.
Aprire il vaso di Pandora dei Trattati significa intraprendere un processo lungo e pieno di incognite. Per noi federalisti è la strada maestra, ma il tempo non gioca a favore, né le condizioni politiche in molti Stati membri. L'intero processo rischierebbe, agli occhi dell'opinione pubblica che attende risultati concreti e risposte puntuali, di apparire come troppo "giuridicista e astratto". Perché allora non scegliere una strada politica e programmatica, partendo proprio dai bisogni dell'economia e delle persone? La "via di fatto" per una maggiore integrazione avrebbe il suo fondamento e propellente nell'esigenza di raggiungere una maggiore competitività e di mantenere e sviluppare il nostro welfare europeo in tutti i paesi dell'UE. Le vulnerabilità economiche e sociali, i freni strutturali da rimuovere, i nuovi bisogni sociali da soddisfare, possono essere la ragione e la "giustificazione" per un'Europa più unita e solidale. Insomma, il sovranismo europeo come risposta concreta alle domande e alle pulsioni che, inascoltate, alimentano i disegni nazionalisti. Draghi, secondo quanto emerso dalla conversazione europea di ieri, ha evidenziato uno dei limiti più gravi della competitività del sistema europeo: la debole crescita dell'innovazione, la scarsa penetrazione delle tecnologie nei processi e la carenza di specializzazioni e competenze. Bene, se è così, come possiamo pensare che bastino asfittici piani nazionali e contributi dispersivi? Se un altro freno è il costo dell'energia (diverso nei vari paesi ma, ovunque in UE, non competitivo con il resto del mondo sviluppato), come possiamo pensare che bastino piani dei singoli paesi per garantire insieme sicurezza degli approvvigionamenti, sostenibilità delle fonti e costi contenuti?
Occorrono piani europei, risorse europee e una governance europea! In attesa di conoscere le priorità, i settori strategici e le azioni concrete, cioè i contenuti preziosi del Rapporto Draghi, possiamo concludere che l'integrazione di fatto, su base programmatica, è operativa ed è quasi una necessità di sopravvivenza. È una strada possibile, a patto che la classe politica europea (e quelle nazionali) sia all'altezza della sfida dei tempi. Altre volte, di fronte alla straordinarietà degli eventi, l'Europa ha reagito in modo straordinario. E, si sa, le difficoltà fanno emergere doti e leadership prima inaspettate.
Senza troppi giri di parole, Draghi ha detto in modo lapidario ciò che molti di noi europeisti credono profondamente: o si fa un grande salto di cambiamento, oppure si diventa ininfluenti (e inutili).
Draghi usa parole come "collaborazione" e "cooperazione" a livelli senza precedenti: si tratta dunque di integrazione istituzionale e politica, di sovranità, competenze, poteri e governance dell'UE. Le opzioni, a mio avviso, sono due: o una riforma dei Trattati, oppure una fortissima volontà politica (e capacità programmatica) che, al di là delle basi giuridiche e legali, scelga la strada della comunitarizzazione e operi già come Europa federale, di diritto o di fatto (si potrebbe dire così). Dobbiamo avere il coraggio di un cambiamento radicale.
Questa premessa è essenziale per realizzare il programma che Draghi ha anticipato ieri a Bruxelles. Non è un federalista sognatore o velleitario, anzi, è un uomo delle istituzioni con una visione concreta del governo della realtà. Ma perché tanta urgenza e tanto coraggio? Perché, con il riaccendersi dei conflitti nel quadrante europeo e mediterraneo, la situazione è completamente cambiata. Le vulnerabilità economiche e sociali (europee o nazionali che siano) diventano vulnerabilità geopolitiche, mettendo a rischio l'indipendenza del nostro continente.
Aprire il vaso di Pandora dei Trattati significa intraprendere un processo lungo e pieno di incognite. Per noi federalisti è la strada maestra, ma il tempo non gioca a favore, né le condizioni politiche in molti Stati membri. L'intero processo rischierebbe, agli occhi dell'opinione pubblica che attende risultati concreti e risposte puntuali, di apparire come troppo "giuridicista e astratto". Perché allora non scegliere una strada politica e programmatica, partendo proprio dai bisogni dell'economia e delle persone? La "via di fatto" per una maggiore integrazione avrebbe il suo fondamento e propellente nell'esigenza di raggiungere una maggiore competitività e di mantenere e sviluppare il nostro welfare europeo in tutti i paesi dell'UE. Le vulnerabilità economiche e sociali, i freni strutturali da rimuovere, i nuovi bisogni sociali da soddisfare, possono essere la ragione e la "giustificazione" per un'Europa più unita e solidale. Insomma, il sovranismo europeo come risposta concreta alle domande e alle pulsioni che, inascoltate, alimentano i disegni nazionalisti. Draghi, secondo quanto emerso dalla conversazione europea di ieri, ha evidenziato uno dei limiti più gravi della competitività del sistema europeo: la debole crescita dell'innovazione, la scarsa penetrazione delle tecnologie nei processi e la carenza di specializzazioni e competenze. Bene, se è così, come possiamo pensare che bastino asfittici piani nazionali e contributi dispersivi? Se un altro freno è il costo dell'energia (diverso nei vari paesi ma, ovunque in UE, non competitivo con il resto del mondo sviluppato), come possiamo pensare che bastino piani dei singoli paesi per garantire insieme sicurezza degli approvvigionamenti, sostenibilità delle fonti e costi contenuti?
Occorrono piani europei, risorse europee e una governance europea! In attesa di conoscere le priorità, i settori strategici e le azioni concrete, cioè i contenuti preziosi del Rapporto Draghi, possiamo concludere che l'integrazione di fatto, su base programmatica, è operativa ed è quasi una necessità di sopravvivenza. È una strada possibile, a patto che la classe politica europea (e quelle nazionali) sia all'altezza della sfida dei tempi. Altre volte, di fronte alla straordinarietà degli eventi, l'Europa ha reagito in modo straordinario. E, si sa, le difficoltà fanno emergere doti e leadership prima inaspettate.
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