L’idea di dividersi è un incubo
Veltroni, il partito che Prodi e lei avete fondato sta per finire.
«Temo che la sinistra italiana stia facendo due errori in cui è incorsa più volte nella sua storia. Il primo: non capire l’apertura di una fase storica del tutto inedita per le conseguenze che ha sugli assetti sociali, sugli stati d’animo, sulle forme di sapere e di comunicare».
Che c’entra con la scissione del Pd?
«C’entra. È in corso una rivoluzione paragonabile a quella industriale. Allora si fondarono le città, si formarono le classi sociali. Oggi assistiamo a una rivoluzione tecnologica affascinante, seducente, ma che non genera lavoro; lo distrugge. Scompone le classi sociali. Riscrive l’esistenza umana sotto il segno della precarietà permanente. Un mondo nuovo, che la sinistra stenta a leggere, a capire nella sua inevitabile ambiguità. Torna ad avere atteggiamenti o catastrofici o zuzzurelloni».
Lo zuzzurellone sarebbe Renzi?
«Ma no. Mi riferisco a un errore di interpretazione del reale tipico dei momenti drammatici. Se la sinistra non accetterà la sfida del mondo nuovo, entrerà in una crisi irreversibile».
La crisi è già cominciata.
«Purtroppo sì. Vent’anni fa la sinistra era al governo in tutto l’Occidente; oggi è ai margini, sbandata, isolata, ridotta ai minimi termini in Francia, Inghilterra, Spagna, pure nei Paesi del Nord culla della socialdemocrazia. Se si resta fermi al ’900, o si nega la propria identità di sinistra, l’esito è scontato».
E il secondo errore fatale qual è?
«La propensione a separarsi. Quando leggo al fianco della parola Pd la parola scissione mi sale una grande angoscia. Voglio cogliere l’occasione della posizione in cui mi trovo, di uno che guarda e vive le cose della politica con il cuore, senza parteciparvi e senza avere nulla da chiedere, per rivolgere a tutti i dirigenti del Pd una richiesta: fermatevi un minuto prima che questo avvenga. Nella storia della sinistra, quasi sempre nelle fasi di crisi si è pensato che la cosa migliore fosse separarsi; e queste separazioni sono sempre nel dichiarato nome dell’unità».
L’ha notato Paolo Mieli sul Corriere: Unità socialista, partito socialista di unità proletaria...
«Invece no. Sono fili che si spezzano. Sono storie umane che si abbandonano. È una comunità che deflagra. Il Pd è uno dei pochi partiti nella storia italiana nato per fusione e non per separazione. Prodi e io eravamo convinti che dovesse nascere nel ’96, sulla scia della vittoria dell’Ulivo. Non fu possibile. Nacque in un altro momento drammatico per la sinistra, durante l’esperienza del governo dell’Unione. Quel partito doveva essere la sintesi delle culture che avevano attraversato il ’900, con una propria originale vocazione: coniugare giustizia sociale e libertà».
Ma quel partito fu sconfitto.
«Tutti sapevano che sarebbe stato sconfitto. Leggo tante ricostruzioni della storia fatte da improvvisatori. La destra era molto forte, noi avevamo un governo con Mastella alla Giustizia e Ferrero al Welfare, ed eravamo al 22%. Prendemmo il 34, ai livelli del Berlinguer del 1976, aumentando di un terzo la nostra forza. Questo è il contesto in cui nacque il Pd, e non bisogna mai dimenticarlo».
Ora la vocazione maggioritaria a lei cara è messa in discussione, probabilmente è finita.
«La vocazione maggioritaria non è mai stata isolamento. Era l’idea che la sinistra non dovesse avere in Italia una funzione ancillare, che non dovesse dare per scontate invisibili colonne d’Ercole attorno al 25% oltre le quali non poteva andare. Ero convinto che una sinistra moderna potesse avere un consenso tale da garantire un riformismo radicale di cui l’Italia ha grandissimo bisogno, ma che questo non escludesse alleanze. Più facili ora con Pisapia che non con altri sul versante opposto».
E ora siamo alla scissione.
«Una parola da incubo. Per fare cosa? È difficile allearsi dopo che ci si è scissi. Dopo la scissione sarebbero tutti più deboli: il Pd sarebbe risucchiato in un’identità più di centro, il che secondo me negherebbe l’idea stessa del Pd; e la sinistra sarebbe relegata in un ambito in cui la sinistra italiana non è mai stata, che oscilla tra il 5 e il 10%».
Colpa di Renzi?
«Qui non si tratta di una persona, ma di una fase storica. Noi pensiamo la storia come proiezione delle nostre virtù e dei nostri errori; ma ci sono i movimenti sociali, i venti d’opinione. Mentre la sinistra balbetta e si divide, è nata una nuova destra. La destra è stata più capace di interpretare questo cambiamento, in un modo che a me pare pericolosissimo. Non abbiamo davanti Major e Chirac, ma Le Pen e Trump. La destra ha assunto questo taglio populista, sovranista, protezionista: una cosa non di poco conto per il futuro dell’umanità. Vedo le stesse movenze degli anni 30: una sinistra che si spacca e non capisce quello che sta accadendo, e una destra che interpreta in maniera semplificata e destabilizzante il senso della storia».
Sta dicendo che c’è il rischio di un nuovo fascismo?
«Non voglio mettere sullo stesso piano i soggetti degli anni 30 con quelli di oggi. Ma la storia di Weimar assomiglia terribilmente alla fase che ci è data in sorte. La richiesta di un uomo forte è evidente; anche in Italia. Nel luglio 2015 scrissi sull’Unità, giornale che spero non muoia, che avrebbe vinto Trump. Oggi le dico che non sono affatto certo che non vinca Marine Le Pen; non è detto che si ripeta in Francia l’unione repubblicana contro l’estremismo. C’è il pericolo che nei prossimi anni l’Europa finisca».
Non c’è più nulla da fare, quindi?
«No. Non bisogna pensare che tutto questo sia ineludibile. Trump apre spazi enormi a una sinistra nuova, che sappia ripensare i suoi fondamentali: politiche sociali, forme di partecipazione democratica alla gestione della cosa pubblica, condivisione del dolore sociale».
Qual è il suo giudizio su Renzi?
«Ha fatto molte cose positive, dalle unioni civili all’elezione di Mattarella. Non mi piace la damnatio memoriae, è il grande difetto di un Paese che ha l’8 settembre come dna: prima tutti aedi entusiasti, poi tutti contrari. Bisogna riconoscere a Renzi di aver dato una scossa a un Paese fermo da troppo tempo. Quello che è mancato è il disegno d’insieme. La capacità di dire all’Italia dove si andava e sulla base di quali sistema di valori. La guida di un Paese non è mai solitaria; è la guida di una comunità. Tagliar fuori tutte le forme di rappresentanza sociale, dall’associazione magistrati ai sindacati, e presentarle come nemiche, è stato un errore. Ho sempre in mente il modo in cui Ciampi e Prodi affrontarono la politica dei redditi e l’entrata in Europa. Renzi deve riconoscere che la politica è fatica, costruzione, mediazione».
Resta il miglior segretario possibile per il Pd? Quando si dovrebbe tenere il congresso, e quando votare?
«Non mi chieda questo. Ho scelto di guardare alle cose della politica con lo sguardo che suggeriva Vittorio Foa: compassione, compartecipazione, senza invadenza. Ho lasciato la politica attiva per mia scelta, e da allora non ho mai chiesto ruoli o responsabilità, né mi sono messo di traverso a nessuno tra coloro che mi sono succeduti. Non per carattere, ma per visione del mondo: voglio bene a questa comunità, la vorrei vedere unita e vincente. Mi piacerebbe da un lato che Renzi non fosse considerato l’avversario principale; dall’altro che Renzi dimostrasse maggiore capacità di inclusione e accoglienza delle diversità inevitabili in un grande partito».
Lei conosce D’Alema da una vita. Farà la scissione?
«Spero e credo di no. Con D’Alema ho discusso tante volte; ma non ha mai avuto l’idea di una sinistra minoritaria, di testimonianza. Sarebbe giusto che lui e le sue posizioni restassero all’interno del Pd, e avessero nel Pd la giusta cittadinanza; naturalmente in un clima diverso. Le parole contano, nella politica come nella vita. E le parole che ci si incrocia, da entrambe le parti, non sono quelle che si possono usare restando nello stesso partito. Si dà un’idea di disarmonia, di conflitto, di scontro anche personale che non aiuta».
Quale legge elettorale serve?
«Dobbiamo trovare un meccanismo che faccia nascere una maggioranza. Altrimenti la democrazia italiana entrerebbe in crisi».
Virginia Raggi si deve dimettere?
«Non ho mai detto una parola su nessuno dei sindaci che mi ha succeduto. So quanto sia difficile governare Roma. Che però ha immense possibilità. A una condizione: la città va unita, non va separata. Vinsi le elezioni due volte, e sempre impedii che si festeggiasse sulla piazza del Campidoglio: quello è un luogo sacro, appartiene a tutti i romani».
Ma la sua amministrazione non ha responsabilità? A cominciare dal dissesto finanziario.
«Non scherziamo. Hanno sparato cifre assurde. Ogni sindaco di Roma ha difficoltà di bilancio. Io ho ridotto la spesa corrente, che poi è esplosa, e ho incrementato infrastrutture e investimenti. I sindaci di centrodestra del Nord mi invitavano a parlare del modello Roma. La capitale aveva un tasso di crescita doppio di quello nazionale, finiva sulla copertina di Time accanto a Parigi e Berlino. Fui rieletto con il 62%, e lo slogan era: orgogliosi di essere romani».