Il gettone nell’Iphone
All’indomani del referendum costituzionale del 4 dicembre e alla (probabile) vigilia di elezioni politiche che potrebbero non essere risolutive, soprattutto se si decidesse di approvare una legge elettorale a carattere marcatamente proporzionale, uno dei maggiori problemi è e rimane quello della rappresentanza di una serie di istanze sociali che sino ad ora sembrano esser prive di una reale sponda politica, e che sono tentate dal voto alle forze antisistema come se fosse una richiesta estrema di udienza ad una politica che li ha dimenticati.
Nel suo intervento alla Leopolda del 2014, che fu forse il punto più alto della sua curva di consenso, Matteo Renzi disse che le modalità comunicative della sinistra tradizionale facevano pensare a qualcuno che volesse inserire il gettone che un tempo si usava nelle cabine telefoniche all’interno di un Iphone di ultima generazione, a significare l’arcaicità dell’approccio dei suoi oppositori ad una realtà che era diventata più ricca e variegata rispetto ad una concezione novecentesca – come suol dirsi – della politica.
In un articolo comparso poco dopo la grave sconfitta referendaria che è costata a Renzi la guida del Governo il brillante giornalista Francesco Cundari ha scritto che, sì, ora è giunto il momento di mettere davvero il gettone nell’Iphone perché esiste una vasta area di disagio sociale che si sente abbandonata in un contesto in cui la globalizzazione dell’economia, la scomparsa del modello economico e lavorativo tradizionale e la relativizzazione dei diritti sociali hanno creato una legione di “sconfitti” in cui figurano in prima fila i giovani in cerca di occupazione. Non è un caso che in questo contesto prosperino le forze volte alla contestazione radicale, soprattutto quelle che mirano ad indirizzare il risentimento popolare verso un’indefinita “casta” ovvero, nella logica della guerra fra i poveri, verso gli stranieri, i migranti, i profughi: in questo senso Beppe Grillo ha potuto definire l’elezione di Trump alla Casa Bianca come la “vittoria dei disadattati”, promettendo di dar voce alla loro rabbia (come, è tutto da vedere).
Il fatto è che nel momento in cui si va ad analizzare la realtà sociale e a misurarsi con le sue asprezze, i critici più aspri dei “cedimenti” della sinistra tradizionale contro la logica neocapitalista che ha portato alla grande crisi del 2008, la quale a sua volta ha provocato una ristrutturazione del sistema sociale ed economico che non sembra molto più equa rispetto allo statu quo ante, non sembrano avere le idee molto chiare rispetto al futuro, ed anzi dimostrano di vivere una specie di schizofrenia fra le dichiarazioni pubbliche – quelle che fanno opinione e, teoricamente, consenso- ed i comportamenti concreti.
Un paio di esempi.
Alla fine del novembre scorso per la prima volta da anni tutte e tre le principali sigle sindacali del settore metalmeccanico hanno firmato insieme a Federmeccanica, e con la benedizione del Governo Renzi, il Contratto nazionale di categoria: ovviamente la notizia era che oltre a FIM e UILM avesse firmato anche la FIOM del tribuno Maurizio Landini, dopo anni di rottura con le altre componenti sindacali. Ora, all’interno della CGIL ed in particolare della FIOM opera una minoranza di estrema sinistra che con una certa presunzione si autodefinisce “Il sindacato è un’altra cosa”: minoranza peraltro trattata malissimo da Landini, che prima ne ha estromesso l’unico rappresentante dalla Segreteria nazionale, togliendogli poi il distacco sindacale ed inducendolo, insieme ad altri, a lasciare la CGIL per passare al sindacalismo di base. I superstiti rappresentanti della minoranza hanno rifiutato l’accordo contrattuale contestando a Landini, oltre a una serie di questioni di merito, anche e soprattutto di non aver posto come condizione essenziale per firmare il contratto di pretendere da FIM e UILM che rinnegassero gli accordi stretti con Sergio Marchionne che hanno portato al nuovo assetto di FIAT/FCA in Italia. Nella loro logica settaria gli oppositori hanno centrato il punto, ma Landini non poteva certo chiedere una cosa del genere, perché da un lato i suoi interlocutori sindacali si sarebbero rifiutati di rinnegare l’accordo, e dall’altro perché in tutta evidenza quell’accordo sta producendo risultati importanti dal punto di vista produttivo e occupazionale, smentendo le fosche previsioni avanzate all’epoca dalla FIOM. Lo stesso Landini, peraltro, senza troppo parlarne in giro, ha accettato nei fatti la posizione della Segreteria confederale in merito all’accordo con Confindustria sulla rappresentanza sindacale contro cui aveva tuonato nell’immediato.
Il secondo esempio riguarda i famosi tre referendum della CGIL, i quali, se la saggezza della Corte costituzionale non vi avesse posto rimedio, avrebbero costretto l’Italia ad assistere per sei mesi alla ripetizione di una stanca battaglia ideologica sull’art.18 dello Statuto dei lavoratori , facendo assurgere a norma assoluta di civiltà quello che era semplicemente un accorgimento di difesa delle libertà sindacali di qualche attualità nel 1970 ma assolutamente inutile ed inoperante nella realtà odierna del mondo del lavoro. Caduto l’art.18 rimane la questione dei voucher, che vengono dipinti come strumenti per la reintroduzione surrettizia della schiavitù, e di cui tuttavia la CGIL risulta essere fra i maggiori utilizzatori e, come ha ribadito il Segretario generale dei pensionati CGIL (cioè la categoria più numerosa) continuerà ad esserlo.
In ambedue i casi, quello di Landini e quello dei voucher, assistiamo ad una spettacolare scissione fra proclami e comportamenti, che nei fatti indica l’accettazione silenziosa della realtà esistente per quanto apertamente la si disprezzi. Soprattutto – e non è certo una prerogativa del sindacato – viene fuori l’incapacità di una certa sinistra di fare fino in fondo i conti con se stessa e con i propri errori, oscillando fra il rinnegamento puro e semplice del passato (senza spiegare i passaggi logici che hanno condotto prima a certe posizioni e poi a certe altre) e la proclamazione del fatto che si è sempre parlato in un certo modo, tacendo ambiguamente sulla sorte riservata a chi per primo aveva fatto lo sforzo di guardare oltre i recinti e gli slogan.
Difficile, per tornare all’immagine proposta da Renzi e Cundari, poter avviare un dialogo logico con chi usa abitualmente l’Iphone ma proclama fermamente in pubblico la necessità di tornare alle cabine a gettone. Ancor più difficile è prendere sul serio quelli che parlano di “decrescita felice” o “povertà condivisa”, e lo fanno da qualche cattedra universitaria o seggio parlamentare (sono cioè persone perfettamente integrate nel sistema che a parole disprezzano) mentre i settori sociali poveri o in via di impoverimento desiderano essenzialmente non essere più tali e apprezzano poco certe fantasie elaborate a tavolino.
La questione è stata posta con chiarezza, ad esempio, dal giornalista ed attivista di sinistra britannico George Monbiot, che in un articolo sul Guardian nell’aprile scorso stigmatizzava i danni compiuti a livello globale dal neoliberalismo, cogliendolo nella sua essenza di ideologia pervasiva sostenuta da potenti forze economiche e politiche che erano anche riuscite a diventare senso comune intellettuale interpretando al meglio la categoria gramsciana dell’”egemonia”.
E tuttavia, pur constatando il fallimento del neoliberismo come ideologia e prassi in quanto non ha saputo realizzare le sue promesse, Monbiot prende atto amaramente di come non sia al momento in vista alcuna alternativa. “Quando la dottrina liberista portò alla catastrofe nel 1929, Keynes aveva pronta una teoria economica generale per rimpiazzarla. Quando il keynesismo iniziò a mostrare la corda negli anni Settanta, c’era un’alternativa pronta. Ma quando il neoliberismo crollò nel 2008 a sostituirlo c’era …il nulla”.
Ogni evocazione di Lord Keynes, afferma Monbiot “è un’ammissione di fallimento. Proporre soluzioni keynesiane alle crisi del 21° secolo significa ignorare tre ovvi problemi. E’ difficile mobilitare la gente intorno a vecchie idee; i problemi emersi negli anni Settanta non sono ancora risolti; infine, più importante di tutti, i keynesiani non hanno nulla da dire sul nostro problema più grave, la crisi ecologica”.
Monbiot conclude appellandosi “ai laburisti, ai democratici e all’intera sinistra” affinché sappiano elaborare una sistema ideologico ed economico che sia tagliato sulle esigenze del ventunesimo secolo. Si tratta appunto di vedere in che modo un gettone, per continuare con la nostra analogia, può evolvere in una carta SIM da inserire nell’Iphone.
Complicato, necessario, non impossibile (si spera).