La necessità di una riforma costituzionale
In questi giorni si continua a parlare di Referendum sul Governo, si parla di Legge Elettorale e poi si discute degli italiani all’estero, si discute addirittura della legittimità o meno del voto che sarà mentre, invece, bisognerebbe discutere del contenuto della Riforma Costituzionale su cui si andrà a votare e spiegare le ragioni del sì o del no. Occorre, ovviamente, anche chiarire cosa non è questa riforma: va ricordato che non è stata toccata la Prima Parte della Costituzione, che ne contiene i principi e i valori; così come non sono stati modificati i poteri dell’Esecutivo e del Presidente del Consiglio.
La riforma corrisponde sostanzialmente al quesito che si troverà sulla scheda il 4 dicembre, in cui si chiede se si vuole abolire il bicameralismo paritario, ridurre il costo delle istituzioni e della politica, ridurre il numero dei parlamentari, chiudere il CNEL e modificare il Titolo V che regola i rapporti Stato-Regioni.
Dal dibattito di questi mesi, tuttavia, sembrano scomparse le ragioni per cui si è avviata questa riforma. Si è dimenticato anche che da molti decenni si discute di come fare la riforma costituzionale e, dopo il voto alle elezioni politiche del 2013, alcune motivazioni che hanno spinto a voler fare la riforma si sono rese ancora più evidenti.
Il Parlamento ha dato uno spettacolo indecoroso quando ha cercato di eleggere un Presidente della Repubblica senza riuscirci dopo la scadenza del primo mandato di Giorgio Napolitano e le ragioni di una crisi profonda sono emerse in modo ancora più forte.
In questo Paese, ormai, è evidente che c’è un problema serio di ricostruire un patto tra i cittadini e le istituzioni perché la credibilità delle istituzioni è in crisi: la politica e le istituzioni non sono più in grado di avere la fiducia dei cittadini prevalentemente perché non sono in grado di dare risposte concrete ai bisogni dell’oggi, che richiedono tempi più rapidi e rapporti diversi tra i cittadini e lo Stato.
Credo che ormai sia chiaro a tutti che un Paese in cui vota il 50% dei cittadini, in cui c’è questo evidente scollamento e si manifesta con un’ondata di voti di protesta (come è accaduto nel 2013, quando il Movimento 5 Stelle ha ottenuto il 25% dei consensi) significa che c’è una sfiducia complessiva nella politica e una crisi molto forte nel rapporto tra i cittadini e le istituzioni.
Dopo le elezioni politiche del 2013 in Parlamento non c’era nessuna forza politica che da sola avesse la maggioranza sufficiente per poter governare. Abbiamo deciso, poi, che questa sarebbe stata una legislatura costituente e il Governo Letta avrebbe dovuto fare le riforme. Giorgio Napolitano, quando fu rieletto per svolgere un secondo mandato, infatti, disse che o la politica mostrava di essere in grado di cambiare se stessa e mettere le istituzioni nelle condizioni di lavorare meglio, anche rimettendo in discussione alcune cose, per dare un segnale chiaro ai cittadini oppure si sarebbe continuato ad avere delle situazioni problematiche, perché sicuramente una democrazia così non ha le qualità che vorremmo e non ci consente di riscrivere un rapporto proficuo con i cittadini.
Il superamento del bicameralismo paritario nasce anche per far fronte a questa situazione.
Avere una Camera sola con il compito di fare il 97% delle leggi, vuol dire metterla nelle condizioni di poter funzionare in modo tale da poter avere processi legislativi più rapidi e, quindi, consentire di dare risposte più veloci e adeguate ai bisogni che si creano.
Inoltre, in questo modo si riesce anche a rimettere al centro il lavoro del Parlamento ed è importante perché in questa legislatura, invece, su 240 leggi discusse, 140 sono state di provenienza governativa, quindi, portate avanti tramite decreti legge e leggi delega e, spesso, approvate con voti di fiducia, senza che il Parlamento avesse molte possibilità di intervento. Questo è avvenuto spesso in tutti questi anni, con tutti i governi, di qualsiasi colore politico mentre i decreti dovrebbero essere strumenti utilizzati solo per situazioni di reale emergenza. Tuttavia, oggi, non esistono altri strumenti legislativi per consentire ai governi di intervenire in tempi rapidi.
Con la riforma costituzionale, invece, si avrà una Camera sola che farà la maggior parte delle leggi e si riformano anche i procedimenti legislativi, dando la possibilità al Governo di trovare corsie preferenziali - una volta che c’è il consenso in Parlamento - per votare in tempi certi leggi proposte dal Governo e si mettono paletti più rigidi rispetto all’utilizzo dei decreti. Si ricostruisce, quindi, una centralità del Parlamento, che troppo spesso ha avuto poca autonomia legislativa perché costretto a seguire le scelte governative anche rispetto alle procedure.
Oggi, inoltre, l’Italia è l’unico Paese con due Camere che votano entrambe la fiducia al Governo ma in tempi e sedi diverse e questo ha provocato la fragilità dei Governi. Non va dimenticato che il bicameralismo paritario è stato inventato proprio per questo. Nel dopoguerra c’erano due grandi partiti in cui nessuno si fidava dell’altro e hanno contribuito a costruire un sistema in cui nessuna forza potesse avere la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Il bicameralismo, quindi, è stato fatto volutamente per ridurre la stabilità dei Governi e fare in modo che chi volesse governare dovesse necessariamente fare accordi con le altre parti.
Il risultato è che in Italia si sono susseguiti 64 governi mentre in Germania ce ne sono stati 14; il nostro attuale Governo è il terzo per longevità e questo è oggettivamente un problema. Se un Governo ha delle prospettive limitate è un problema per il Paese. E difficilmente Governi con prospettive limitate si mettono a fare riforme che comportano anche problemi di consenso. È chiaro, quindi, che per molti anni in tanti non hanno fatto le riforme anche per questo motivo.
C’è anche chi sostiene che siamo in questa situazione per colpa della classe politica e può anche essere vero ma, comunque, con questa riforma costituzionale la classe politica viene messa di fronte a responsabilità più stringenti perché non si potranno più fare i giochini per formare le maggioranze.
La stabilità di un Governo non è data, dunque, solo dalla legge elettorale (su cui, oltretutto, c’è anche disponibilità a cambiarla): mettere la possibilità che sia una Camera sola a dare la fiducia al Governo è già un elemento di stabilità forte.
Il bicameralismo paritario ha portato instabilità anche negli anni dei sistemi elettorali maggioritari in quanto le due Camere hanno basi elettorali diverse e collegi diversi.
A mio avviso, una democrazia, per funzionare, deve anche dare all’esecutivo strumenti per governare. In questo senso, avere una legge elettorale che il giorno dopo le elezioni consenta di sapere chi ha vinto e metta chi ha vinto nelle condizioni di poter governare è da preferire alla situazione attuale in cui si è appesi a pochi numeri e bisogna continuare a provare a costruire maggioranze ogni volta che occorre approvare qualcosa. Chi ha la responsabilità di governo, poi, ovviamente, alla tornata elettorale successiva risponderà agli elettori sul come ha governato.
In merito alla velocità del legiferare, però, non possiamo nascondere che in questi anni alcuni problemi sono derivati anche dalla lentezza del processo legislativo. Le leggi che sono state approvate velocemente, negli ultimi anni, sono state realizzate tutte attraverso decreti, compreso per materie su cui probabilmente non era opportuno utilizzarli.
Con la riforma, nell’articolo 70 vengono indicate le diverse nuove modalità attraverso cui si può legiferare. Inoltre, si è molto polemizzato sulla lunghezza di questo articolo ma è più corto di uno dei tre articoli che nella Costituzione Tedesca normano il procedimento legislativo.
Con la riforma costituzionale, inoltre, si sceglie di andare verso un modello istituzionale più europeo. Una traccia di questo vi era già nel lavoro avviato dalla Commissione dei Saggi voluta da Napolitano con il Governo Letta. In questo senso si ha una Camera come rappresentante delle autonomie locali, poi nel corso della discussione parlamentare ne è cambiata la composizione e la rappresentanza. Oggi, la riforma prevede che in quel Senato - che deve rappresentare i territori - ci vadano i consiglieri regionali (come rappresentanti delle Regioni) e i sindaci (come rappresentanti dei Comuni). I nuovi senatori saranno espressione dei Consigli Regionali, cioè scelti dai Consigli Regionali ma – come ha stabilito l’ultimo passaggio del testo in Parlamento – sono anche indicati dai cittadini. Il rapporto, quindi, diventa tra autonomie locali, Regioni e Stato e nel Senato sarà il momento in cui avranno voce i rappresentanti dei territori. Essi parteciperanno anche all’elezione dei membri della Corte Costituzionale e del Presidente della Repubblica.
Preciso, però, che il Senato delle Regioni sarà molto diverso dall’attuale Senato e, soprattutto, avrà modalità e tempi di funzionamento diversi. Anche i suoi membri saranno rinnovati man mano che vengono rinnovati i Consigli Regionali.
Si contesta, infatti, che il nuovo Senato diventerà il dopo-lavoro degli amministratori oppure un luogo in cui si lavorerà a tempo pieno per cui i nuovi senatori non potranno fare altro. A mio avviso il nuovo Senato non potrà essere né l’una né l’altra cosa ma avrà bisogno di trovare delle formule diverse per organizzare la propria attività (ad esempio come avviene per il Parlamento Europeo).
Sulla questione della modifica del Titolo V, preciso che la riforma non mira al centralismo ma a risolvere i problemi che si sono creati dopo che il Titolo V era stato riformato in anni passati dal centrosinistra con la creazione delle materie concorrenti che hanno aperto la strada ad una serie infinita di contenziosi tra Stato e Regioni. I problemi che sono conseguiti hanno riguardato le imprese (perché ogni Regione ha regolamenti diversi per concedere le autorizzazioni) e le persone (perché, ad esempio, i corsi regionali di formazione professionale sono validi esclusivamente nella singola Regione che li hanno proposti). Sulla Sanità, ad esempio, la riforma dice che lo Stato si riprende la tutela della salute perché non è possibile che si accetti l’idea che esistano cittadini con possibilità di accesso alle cure al Nord e cittadini del Sud che se vogliono curarsi adeguatamente devono venire nelle Regioni Settentrionali. Con la riforma questo verrà cambiato.
Si contesta, poi, che vengono cambiati oltre 40 articoli della Costituzione ma sono gli articoli che vanno ad incidere sulle questioni poste nel quesito referendario.
In merito al percorso di questa riforma, va ricordato che inizialmente è stata tentata la strada dei saggi, voluti da Napolitano con il Governo Letta, che poi si è bloccata con i tentativi di modificare l’articolo 138 per fare più in fretta.
Dopo è cambiato il Governo ma non la finalità della legislatura, tanto che la prima votazione al Senato del testo che ha fatto da base alla Riforma Costituzionale attuale era stata votata anche da molte forze di opposizione, tra cui Forza Italia.
Nel corso dei vari passaggi parlamentari il testo ha subito diverse modifiche, in quanto sono stati accolti numerosi emendamenti presentati anche dalle forze di opposizione.
È vero che la spinta alla riforma è arrivata dal Governo ma occorre considerare il contesto in cui questo è nato.
Durante il percorso della riforma, ad un certo punto è successo quello che è accaduto già altre volte durante i tentativi di riformare il Paese: Berlusconi si è sfilato. Nelle occasioni precedenti, di fronte a questo problema, ci si è fermati e non si è più fatto nulla, in questo caso, invece, si è scelto di andare avanti.
Dopo l’elezione di Mattarella, Forza Italia ha deciso di mettersi contro la riforma ma non perché non fosse più d’accordo sulla riforma, che oltretutto ha contribuito a scrivere, ma perché ambiva ad avere voce in capitolo sulla scelta del Presidente della Repubblica. A quel punto, si è fatta una scelta diversa dal passato: si è deciso di non interrompere il percorso delle riforme e di portarlo avanti fino in fondo perché il Paese ha bisogno di una riforma costituzionale.
Il rischio è che questo referendum si traduca in un voto pro o contro il Presidente del Consiglio o sul Governo. A mio avviso il Presidente del Consiglio si è assunto la responsabilità di aver voluto la riforma e di avere provato a costruirla e oggi è pronto a trarne le conseguenze. Probabilmente Renzi ha personalizzato troppo la campagna elettorale ma non è che i sostenitori del No, come Lega e Movimento 5 Stelle, stiano facendo una campagna sul merito della riforma. L’opposizione a Renzi per alcuni è l’unico modo per giustificare il No.
Chi ha auspicato che si arrivasse ad ottenere una riforma ancora più condivisa tra le forze politiche in Parlamento deve considerare che era molto difficile e che l’Italia è un Paese diviso su tante questioni e il dibattito politico in generale lo mostra.
Era difficile, quindi, riuscire a costruire una proposta unitaria.
Resta che questa è la prima volta che viene applicato l’articolo 138 senza derogare e che sono stati fatti tutti i sei passaggi parlamentari (tre alla Camera e tre al Senato).
Chi sostiene che questa sia una riforma frettolosa dimentica che il Parlamento ne ha discusso per due anni e mezzo e che il testo approvato contiene anche richieste contenute negli emendamenti proposti nel corso della discussione parlamentare dalle opposizioni.
Ricordo ancora, quindi, che ogni volta che si è cercato di fare una riforma ad un certo punto capitava sempre qualcuno che si tirava indietro e ci si fermava, questa volta, nonostante qualcuno si sia tirato indietro si è scelto di proseguire con la riforma perché il Paese ne aveva bisogno e perché questa legislatura è stata fatta per questo.
A mio avviso questa riforma non è perfetta ma è utile perché modifica alcune cose che è bene cambiare e anche perché è il momento di riuscire a dare l’idea che l’Italia non ha paura di cambiare ogni volta che se ne presenta l’occasione e che di fronte al cambiamento lasci sempre prevalere la paura che ci portino via qualcosa. Il risultato di questo blocco e di questo sentimento è che tutti continuiamo a dire che le cose non vanno ma, appena si cerca di cambiare qualcosa, prevale sempre altro.
Non possiamo ragionare sempre come se tutto restasse immutabile.
Oggi stiamo provando a cambiare davvero e io penso che stiamo cambiando in meglio.
A questo si lega anche l’idea che si ha di noi nel mondo: se siamo un Paese che di nuovo mostra di fermarsi o se, invece, sappiamo cambiare, come io auspico che avvenga.
Domenica 4 dicembre si vota sì o si vota no su questa riforma. Se si vota no, il giorno dopo non si farà un’altra riforma: le bicamerali e simili sono già state tentate e hanno tutte fallito. Chi sostiene il No non dica che il giorno dopo si metterà a lavorare per fare un’altra riforma perché difficilmente Forza Italia si metterà al tavolo con Grillo e Salvini per farlo.
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