Sì al Referendum Costituzionale
In queste settimane, grazie all’iniziativa politica del PD e alla correzione di alcuni errori iniziali di impostazione, abbiamo chiarito alcuni aspetti sul referendum a cui andremo a votare.
Innanzitutto, è stato chiarito che al referendum non si vota per il Governo: il Presidente del Consiglio ha detto esplicitamente che il Governo finirà nel 2018, a prescindere dall’esito del referendum.
Al referendum, inoltre, non si vota neanche sulla legge elettorale. Recentemente, alla Camera dei Deputati è stata approvata una mozione che di fatto riapre la discussione parlamentare sulle modifiche all’Italicum.
Resta da chiarire meglio che il quesito referendario non è su questa riforma o un’altra alternativa ma si vota esprimendo un sì o un no a questa proposta di riforma, che implica una riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, il superamento delle materie concorrenti tra Stato e Regioni, il tetto per gli stipendi dei consiglieri regionali e una serie di altre cose.
Dire no significa dire no a tutto questo e lasciare le cose come sono adesso.
Con una vittoria del no, quindi, probabilmente, sarà difficile proporre un’altra riforma in tempi brevi perché i cittadini avranno decretato che preferiscono il sistema attualmente vigente.
Per comprendere meglio il senso della riforma costituzionale proposta, però, dobbiamo ripercorrere la storia degli ultimi tre anni.
Il risultato elettorale del 2013 ci ha messo di fronte ad una situazione che ha reso evidente la crisi del rapporto tra i cittadini e la politica e tra i cittadini e le istituzioni.
Quando si è arrivati all’elezioni del Presidente della Repubblica, le forze parlamentari hanno dato un pessimo esempio di sé, arrivando a definire il punto più alto della crisi della politica e della democrazia in Italia.
Difendere la nostra democrazia vuol dire risolvere il problema del rapporto tra i cittadini e le istituzioni.
La democrazia è riuscire a costruire una riforma della Seconda Parte della Costituzione che consenta alle istituzioni di funzionare meglio, di essere maggiormente capaci di intervenire sui problemi dei cittadini; significa anche attrezzarsi meglio per realizzare la Prima Parte della Costituzione che contiene principi che nessuno mette in discussione.
La scelta fatta con l’elezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica è stata quella di fare una legislatura di riforme perché l’Italia con questo assetto istituzionale non ce la fa più.
Tutti hanno accolto questo invito a fare le riforme e l’80% dei parlamentari si è messo a lavorare per mettere le basi a quella che poi è diventata la riforma costituzionale su cui ora andiamo a votare al referendum. Si tratta, quindi, di una riforma condivisa e la proposta iniziale non è molto distante da quella definitiva attuale.
Questa riforma ha avuto tre passaggi alla Camera dei Deputati, tre passaggi al Senato ed è stata modificata con 161 emendamenti approvati. Il testo, quindi, è stato lungamente discusso.
Per un lungo periodo ha dato una mano alla costruzione della riforma anche il centrodestra poi, con l’elezione di Mattarella alla Presidenza della Repubblica, ha scelto di sfilarsi dal tavolo per una sorta di rappresaglia.
A mio avviso, abbiamo fatto bene ad andare avanti con piena disponibilità ad accogliere i suggerimenti di tutti. Il problema è che sono stati fatti una serie di emendamenti strumentali con il chiaro intento di bloccare la riforma: la prima volta al Senato abbiamo dovuto discutere con 500mila emendamenti; la seconda volta di emendamenti ce n’erano un milione.
Non è vero, quindi, che questa riforma l’ha voluta una sola parte politica ma tutti hanno contribuito. Il superamento del bicameralismo perfetto era stato proposto già all’inizio del percorso, quando Forza Italia era ancora nel Governo e dava una mano alla costruzione della riforma.
Facciamo la riforma costituzionale, quindi, perché siamo preoccupati per la qualità della nostra democrazia e perché oggi, restando così come siamo, non abbiamo più gli strumenti per realizzare la Prima Parte della Costituzione.
Va chiarito innanzitutto che in questa riforma non c’è nulla che riguarda il potere del Governo, non viene dato alcun potere in più all’Esecutivo. Non è la riforma che aveva presentato Berlusconi con cui si attribuiva al Presidente del Consiglio il potere di sciogliere le Camere.
Oggi, l’Italia è l’unico Paese al mondo in cui c’è un bicameralismo perfetto (perché l’Articolo 70 della Costituzione afferma che le leggi vengono approvate quando Senato e Camera dei Deputati sono concordi sul testo).
In merito al processo legislativo, vorrei ricordare che solo due mesi fa si è riusciti a votare il Collegato Agricolo alla Legge di Stabilità del Governo Letta. Così come di recente si è votato il Collegato Ambientale, dopo tre anni di rimpallo tra Camera dei Deputati e Senato.
La riforma costituzionale prevede che ci sia una sola Camera a dare la fiducia al Governo e a fare le leggi e poi una Camera che rappresenti le Autonomie. Sulla composizione di quest’ultima si è discusso molto prima di arrivare alla formulazione definitiva: si è partiti con l’idea di fare una Camera dei Sindaci, poi si è pensato ad una Camera delle Regioni in cui tutte le Regioni dovevano avere lo stesso numero di rappresentanti a prescindere dalla dimensione o dal numero di abitanti (come avviene negli Stati Uniti) e, infine, si è arrivati alla composizione definitiva con consiglieri regionali e sindaci.
Il Senato delle Regioni interverrà su alcuni processi legislativi riguardanti le Regioni, i trattati europei e potrà valutare le leggi espresse dalla Camera e inviare delle proposte di modifica; parteciperà all’elezione del Presidente della Repubblica, della Corte Costituzionale e della Corte dei Conti.
Non ci sarà più, quindi, il rimpallo dei testi tra Camera e Senato e al Senato non si voteranno né la fiducia al Governo né la Legge di Bilancio.
L’obiezione mossa dalla Lega a tutto questo è che si sarebbero creati molti processi legislativi diversi, invece, che una semplificazione dell’esistente. Eppure è giusto che vi siano processi legislativi diversi.
A proposito di democrazia, vorrei ricordare anche che negli ultimi vent’anni i Governi che si sono succeduti per legiferare celermente hanno fatto abbondante uso di decreti legge e di voti di fiducia. Questo è avvenuto perché non c’è altro modo per velocizzare i tempi di approvazione delle leggi su questioni su cui ai cittadini servono risposte in modo rapido.
Con la riforma costituzionale proposta i decreti legge torneranno alla loro funzione originaria e, cioè, verranno utilizzati solo in situazioni di urgenza. Contestualmente, però, verrà stabilita la possibilità per il Parlamento di concedere al Governo una corsia preferenziale per discutere delle leggi ritenute importanti e urgenti entro 70 giorni e poi scegliere se approvarle o respingerle.
Va ricordato, infatti, il motivo per cui siamo arrivati a questa riforma e cioè che siamo di fronte ad una crisi del rapporto tra cittadini e la politica perché i tempi delle decisioni della politica non corrispondono alla velocità con cui mutano i problemi.
In tutti questi anni c’è stata continuamente la denuncia da parte di tutte le forze politiche dell’abuso della decretazione d’urgenza ad opera dei Governi in carica.
Con questa riforma, inoltre, vengono introdotti elementi seri che riguardano la partecipazione. Viene, infatti, introdotto il referendum propositivo di indirizzo. Viene, inoltre, introdotto uno strumento per rivitalizzare il referendum abrogativo in quanto, raccogliendo un milione di firme, il quorum si calcolerà sulla base degli elettori dell’ultima tornata elettorale e non più sul numero degli aventi diritto al voto.
Infine, vengono stabiliti tempi certi per la discussione delle leggi di iniziativa popolare. Nell’arco di queste legislature ne sono state proposte 500, delle quali ne sono state discusse 17 e queste sono arrivate solo perché erano aggregate ad altri disegni di legge di iniziativa parlamentare.
Per quanto riguarda le Regioni, credo che il fatto che abbiano una rappresentanza nel nuovo Senato sia una cosa seria e utile. Non c’è alcun centralismo: le Regioni possono far sentire la propria voce meglio.
Personalmente, trovo giusto che chi sia lì a rappresentare le Regioni sia un consigliere regionale.
Si è discusso molto sul modo di eleggere i consiglieri regionali in Senato e si è stabilito che deve essere fatta una legge per fare in modo che i cittadini, quando andranno a votare per il rinnovo dei Consigli Regionali, sappiano quali sono i nomi che potranno mandare al Senato.
C’è poi il tema delle materie concorrenti tra Stato e Regioni che, in questi anni, hanno ingolfato oltre misura la Corte Costituzionale per i contenziosi sorti e hanno anche creato dei problemi concreti alla nostra economia perché ogni Regione ha leggi e regolamenti diversi e per muovere le merci da una Regione all’altra è complicato. Per far fronte a questo si è stabilita la competenza di alcune materie alle Regioni (e non sono poche) e su altre allo Stato, con la possibilità del procedimento dell’autonomia rafforzata. Le Regioni, infatti, non sono tutte uguali e per questo viene data loro la possibilità di un’autonomia rafforzata in base a cui i soggetti coinvolti decidono di trasferire alcune competenze alla Regione che le richiede per una serie di motivi certi.
Ricordo, infine, che tutte le forze politiche hanno fatto la campagna elettorale spiegando che si sarebbe lavorato per diminuire il numero dei parlamentari, ridurre i costi della politica e superare il bicameralismo perfetto e queste cose sono tutte contenute nella riforma costituzionale ed entreranno in vigore se vince il sì al referendum. Votare no, significa dire no a tutto questo.
In questi anni abbiamo parlato della crisi del rapporto tra i cittadini e la politica e tra i cittadini e le istituzioni; abbiamo parlato di istituzioni che non sono abbastanza efficienti per dare risposte celeri alle esigenze delle persone e abbiamo parlato dei costi della politica. La riforma costituzionale serve a dare risposte a queste situazioni.
Non c’è nessuna deriva autoritaria in Italia ma c’è un problema democratico perché la nostra democrazia non funziona bene. La fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nei partiti è ai minimi storici e questo vuol dire che c’è un problema ed è legato alla qualità della democrazia.
Per questo, personalmente ho scelto di partecipare alla costruzione della riforma costituzionale; perché voglio provare a fare in modo che le istituzioni diventino più credibili agli occhi dei cittadini e, per ottenere questo risultato, occorre che funzionino meglio.
Questa riforma, secondo me, pur non essendo perfetta, raccoglie cose che tutto l’arco parlamentare ha detto per anni di voler mettere in campo.
Sui costi della politica, in questa legislatura si è già fatto molto di più di ciò che è previsto nella riforma costituzionale perché abbiamo già abolito il finanziamento pubblico ai partiti e molti enti ma resta il problema della credibilità delle nostre istituzioni rispetto alla qualità della nostra democrazia e il fatto che la politica in questi anni è stata percepita come un costo inutile.
L’idea che il nostro sistema attuale costi troppo e non dia risposte ha contato nell’aumentare la distanza tra i cittadini e la politica.
L’Italia è il Paese che ha il numero più alto dei parlamentari e ha due Camere che fanno la stessa cosa, quindi, è il caso di provare a mettere mano alla nostra Costituzione.
Questa riforma costituzionale affronta anche il problema della stabilità del Governo.
Quando è stato proposto il bicameralismo perfetto nella nostra Costituzione è stato perché garantiva entrambi i grandi partiti che chiunque dei due fosse stato il vincitore non si sarebbe aggregato al blocco avversario senza lasciare più niente ad altri. I Governi degli ultimi anni hanno sempre faticato a trovare la maggioranza al Senato.
Mettere una Camera sola che vota la fiducia al Governo risolve questo problema.
Il premio di maggioranza, poi, è utile perché quando un cittadino vota vuole sapere chi governerà e chi governerà deve avere gli strumenti per farlo.
Ci sono poi altre istituzioni che serviranno a fare da contrappeso.
Con la riforma costituzionale, ad esempio, il Presidente della Repubblica non può essere eletto senza le opposizioni, così come la Corte Costituzionale non può essere eletta solo dalla maggioranza.
I contrappesi, quindi, ci sono.
Una delle ragioni per cui si fa la riforma costituzionale è per garantire maggiore stabilità.
Pensiamo, inoltre, che sia democratico un Paese in cui quasi tutte le leggi si fanno attraverso l’utilizzo dei decreti governativi e il voto di fiducia?
Questo avviene non certo perché abbiamo poche leggi ma perché la velocità dei mutamenti degli scenari e delle scelte da intraprendere per farvi fronte richiedono tempi rapidi.
Non può essere il decreto lo strumento per fare le leggi se vogliamo che ci sia rispetto per il lavoro del Parlamento perché i decreti che deve ratificare, di fatto, sono delle leggi che entrano in vigore immediatamente quando li emana il Governo.
Con la riforma costituzionale, i decreti resteranno degli strumenti per far fronte alle urgenze, mentre per altre leggi di iniziativa del Governo ci saranno delle corsie preferenziali affinché vengano discusse in tempi certi e rapidi; poi il Parlamento può anche non approvarle.
A mio avviso, serve fare le leggi velocemente, senza dover per questo abusare di strumenti che la Costituzione ha previsto per altro.
Il nuovo Senato parteciperà e voterà sulle leggi che riguardano le Regioni, le autonomie locali e l’Europa, mentre sulle leggi di bilancio potrà avanzare una proposta di modifica o emendamenti ma non vota.
Per presentare proposte di modifica ad altre leggi, il nuovo Senato dovrà avere una maggioranza di un terzo dei senatori, cioè un terzo delle Regioni italiane (perché questo rappresenteranno i senatori).
Il Senato potrà anche respingere delle leggi ma dovrà avere la maggioranza assoluta.
Tutte le eventuali modifiche proposte dal nuovo Senato dovranno riguardare in prevalenza l’ambito del controllo della Pubblica Amministrazione.
La riforma costituzionale, quindi, serve all’Italia non al PD. L’abbiamo fatta con determinazione perché c’è bisogno di una riforma e di dare un segnale al Paese e di ricostruire una credibilità delle istituzioni e della politica.
La proposta di riforma l’ha fatta il Governo perché questo Governo e questa legislatura sono nati con l’impegno di fare le riforme. Nel corso dei passaggi parlamentari, però, il testo proposto inizialmente è stato modificato di molto: sono stati approvati 161 emendamenti.
Non penso che si possa andare a sostenere di dover votare no alla riforma (che comprende la riduzione dei parlamentari, la riduzione dei costi degli stipendi, l’abolizione della materie concorrenti) perché nel corso della discussione in Parlamento è stata usata la tecnica del “canguro” per evitare i milioni di emendamenti proposti strumentalmente dalle opposizioni. Il “canguro” è stato usato perché qualcuno voleva bloccare la riforma.
Così come non è possibile che un partito che ha deciso nel corso di una direzione di portare avanti la riforma tenga in Commissione in Parlamento dei suoi rappresentanti che però non lo rappresentano e che, quindi, non garantiscano di avere la maggioranza necessaria.
È opportuno, quindi, che la discussione venga fatta sul merito del contenuto della riforma e chi dice no deve sapere che se vince il no al referendum è perché i cittadini sceglieranno di tenere le cose come sono adesso e, di conseguenza, diventerà più difficile proporre un’altra riforma.
Quando abbiamo votato contro la riforma proposta da Berlusconi non era certo perché volevamo tenere il bicameralismo paritario ma perché conteneva la devolution e i poteri concentrati nelle mani del Presidente del Consiglio, a cui veniva data anche la possibilità di sciogliere le Camere.
La riforma attuale non tocca, invece, i poteri del Presidente del Consiglio.
Gli incontri che vengono fatti sui territori sono positivi perché servono a chiarire per cosa andiamo a votare al referendum. Credo, infatti, che bisogna andare a guardare alla sostanza delle questioni e penso che siamo di fronte ad un evento storico e che dobbiamo spiegarlo ai cittadini.
Di fronte al quesito referendario si può dire soltanto sì o no, non ci sono altre strade.
O si arriva finalmente a superare il bicameralismo perfetto, a superare le materie concorrenti tra Stato e Regioni, a ridurre il numero dei parlamentari e i costi della politica, oppure si resta come adesso.
Questa è l’unica alternativa che si pone con il referendum. Tutte le altre discussioni sono molto interessanti ma andranno affrontate dopo.
Cosa sarà il Senato delle Regioni e quali impegni avrà lo vedremo ma sicuramente il suo modo di funzionare sarà diversissimo da quello attuale del Senato. I sindaci e i consiglieri regionali saranno lì a rappresentare i loro territori (e non andranno più ai Ministeri una volta alla settimana come di fatto fanno adesso), sapendo che le loro istanze saranno più forti e non c’è un distacco tra i due lavori perché il lavoro di un sindaco o di un consigliere regionale è strettamente legato a dove si prendono le decisioni.
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