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Fra mollezza lasciva ed arsura dannata

Written by Roberto Pecoraro.

Roberto PecoraroVorrei, in questo intervento, raccontare una storia di speranza, di coraggio, di generosità, di intraprendenza.
Prima, però, chiedo al lettore di mettersi comodo ad ascoltare, con tutta calma, uno dei passaggi più belli de “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Siamo nel novembre del 1860.
Dopo l’impresa dei Mille, il Plebiscito ha ufficialmente decretato l’unione del Sud al regno dei Savoia.
I Salina si trattengono in villeggiatura a Donnafugata, feudo di famiglia.
Un funzionario regio, il piemontese Chevalley, giunge in missione a Donnafugata per offrire ufficialmente a Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, Duca di Querceta, Marchese di Donnafugata, la carica di senatore del futuro Regno d’Italia. Chevalley è un’onesta figura di liberale: benché sconcertato dalle condizioni di arretratezza culturale e socio-economica che vede intorno a sé, appare sinceramente convinto che l’affermazione degli ideali risorgimentali estenderà anche al Sud il progresso e la modernizzazione del Piemonte.
Don Fabrizio rifiuta garbatamente ma con fermezza illustra le proprie ragioni ad un costernato Chevalley:
“Ma allora, principe, perché non accettare?”.
“Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. [….] In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso”. […] “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto”.
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley: soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero autentiche vecchie tradizioni. Disse: “Ma non le sembra di esagerare un po’, Principe? Io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni.”
Il Principe si seccò: “Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semidesti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma lei forse potrà vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso torpore: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano. Queste sono le forze che insieme e forse più che le denominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’arsura dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe esser sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora le piogge, sempre tempestose, che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove due settimane prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno formato il carattere nostro, che così rimane condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità d’animo”.
Don Fabrizio conclude dicendo che la rovina dei siciliani è “quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo non c’è niente da fare”.
Chevalley ripartirà all’alba del giorno dopo; la rappresentazione del paesaggio arido e desolato diviene immagine della sconfitta e dell’ineluttabilità del destino dell’isola.
“Chevalley pensava: Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna cambierà tutto. Il Principe era depresso: tutto questo pensava, durerà, sempre…Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”.
Ecco, adesso inizia la storia che voglio raccontare.
Francesco e Silvia sono due liberi professionisti, due avvocati; vivono in Sicilia, in una bella città che, come tante nel nostro paese, ha grandi potenzialità turistiche.
Bravi avvocati, persone generose. Li ricordo, ad esempio, prendere a cuore le situazioni personali di alcuni clienti dei quali erano stati nominati difensori d’ufficio, al punto da aiutarli economicamente e supportarli moralmente e psicologicamente.
Nel 2007 decidono di iniziare un percorso imprenditoriale, senza lasciare la loro professione di avvocati.
Chiedono un prestito e prendono in gestione un locale nel centro storico.
Nel giro di tre anni nascono due bambini; Francesco e Silvia lavorano a ritmi frenetici. Le notti al locale, che d’estate chiude alle 3-4 di notte; la mattina in tribunale, il pomeriggio allo studio per incontrare i clienti e preparare le cause, poi di nuovo al locale.
In questo tourbillon rimane viva la voglia di incontrare gli amici, l’allegria, l’ironia, il sorriso sulle labbra, sempre e comunque. Non mancano le difficoltà di vario genere: economiche, di gestione del personale del locale, di assestamento nella relazione tra i due.
I due ragazzi sono però, insieme, una forza della natura; la loro unione resiste ad intemperie di qualsiasi genere.
Verso la fine del 2008 decidono di fare un altro passo, comprano una casa nel centro storico, vicino al locale, la ristrutturano e si trasferiscono lì dopo alcuni mesi.
Le diverse attività proseguono ai ritmi di sempre, i bimbi crescono ed anche le responsabilità.
Nel 2012 decidono di chiedere un altro prestito per acquistare una nuova auto, più grande, per le nuove esigenze della famiglia, un bellissimo SUV.
Una notte dell’estate del 2013 vengono svegliati da un boato sotto casa, l’auto nuova ha preso fuoco, distrutta, irrecuperabile!
Partono subito le indagini delle Autorità, si sospetta un atto intimidatorio. Vi risparmio i dettagli tragicomici della vicenda. Verrà stabilito, in tribunale, a fronte di perizia tecnica, che l’incendio è stato generato da un corto circuito legato all’allarme dell’auto.
Francesco e Silvia si ritrovano quindi senza auto, in causa con assicurazione ed installatore dell’allarme e con la beffa di dovere continuare a pagare le rate sino alla fine del 2015!
I nostri personaggi sono tosti, come avrete capito, non demordono. Comprano un’auto usata, una Opel Agila del 2008, e con quella vanno avanti ancora oggi.
Quest’estate, come ogni anno, da bravi terroni emigrati al Nord, io e la mia famiglia siamo andati a trovarli. Manco a dirlo, ci hanno pagato il soggiorno in agriturismo per tre giorni!
Il locale in centro storico è diventato un catalizzatore, un punto di riferimento per la vita artistica e notturna della città. Francesco e Silvia, insieme ai gestori dei locali vicini, hanno trasformato la piazza in un vero e proprio palcoscenico. Quasi ogni sera si tiene un concerto o uno spettacolo diverso, viene dato spazio ad artisti emergenti.
Qualche giorno fa, ricevo, tramite Whatsapp, una foto di Francesco e Silvia che, indossando tute da lavoro e maneggiando attrezzi edili, lavorano con le maestranze ad alcuni lavori di ristrutturazione.
Chiedo loro in quale nuova avventura si stanno imbarcando.
Hanno deciso di ricavare il loro nuovo appartamento all’interno dello studio professionale, in modo da affittare la loro casa in centro storico, settimanalmente, ai turisti!
Mentre li osservavo in foto, con indosso la tuta da lavoro, ad impastare il cemento per le murature, immaginavo Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, Duca di Querceta, Marchese di Donnafugata sorridere beffardo nel vedere i ponti stradali che crollano al primo acquazzone, la città di Messina senz’acqua per 15 giorni, le opere incompiute, l’inadeguatezza di gran parte della classe politica siciliana.
Ho quindi deciso, per contrasto, di raccontare questa storia, perché in Sicilia e nel Sud Italia ci sono tanti Francesco e Silvia che, con generosità e coraggio, non mollano mai, che hanno voglia di costruire, di progettare il futuro!
L’ho fatto anche perché non smetterò mai di sperare che, prima o poi, i Francesco e Silvia riescano a prendere per mano la loro splendida terra, scalzando per sempre gli sciacalletti, le iene e le pecore che la infestano.

Per contattare Roberto Pecoraro e seguire la sua attività: Twitter @RoPecoraro - Pagina Facebook - Sito web

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