La città delle eccellenze scava solchi incolmabili
Intervista del Corriere della Sera a Luciano Gualzetti (file PDF).
«La città è un polo di attrazione per tutti, sia per chi può competere a livelli di eccellenza sia per chi invece non ha grandi competenze da offrire al mercato. Se si insiste con l’enfasi sulle eccellenze e ci si dimentica degli altri si rischia di scavare un solco incolmabile e una spirale al ribasso per tante persone». Dal suo osservatorio di direttore della Caritas Ambrosiana, Luciano Gualzetti ha ben chiare le vite «degli altri» milanesi. E durante l’uragano della pandemia ha visto scoperchiate tantissime economie di sussistenza basate sulla precarietà, che fino a quel momento avevano retto aggrappate alla vetrina della città del post-Expo.
Già in quelle prime settimane in cui i centri di ascolto Caritas diventavano l’unico punto di riferimento di tanti lavoratori diventati di colpo fantasmi senza reddito né sussidio, lui poneva i temi che ripropone oggi: disuguaglianze, nuove povertà da lavoro, esclusione sociale.
Gualzetti, dunque le due velocità di Milano sono diventate più evidenti?
«Mi sembra una realtà evidente. Questa è la città degli affari, della grande finanza, del terziario avanzato, che offre occasioni a tanti, ma al tempo stesso è anche la città italiana con più persone senza fissa dimora e dove tante persone, famiglie intere, hanno bisogno di risposte sebbene abbiamo una casa e magari anche un lavoro».
Ma cosa non funziona, dove sta il corto circuito?
«Forse si è esagerato nel porre l’enfasi sulle eccellenze, la richiesta di competenze alte ha contribuito a creare una spirale che trascina verso il basso tante persone che non riescono più a emanciparsi da lavori come — per esempio — i servizi di pulizia e da contratti soltanto precari e poveri. Così ci ritroviamo con una nuova classe di working poor che sta già proiettando la propria condizione di fragilità ed esclusione sui figli. Rischiamo di trovarci di fronte a una povertà multidimensionale e a una dinamica che comporta la trasmissione generazionale delle fragilità».
In che senso?
«Nel senso che difficilmente questi bambini o ragazzi potranno contare su strumenti solidi — a partire dagli studi — per competere al questa grande sfida. E lo stesso corto circuito si ripropone se prendiamo in considerazione questioni vitali come l’accesso alla sanità, i trasporti la casa».
Per esempio?
«Lo schema è lo stesso: si pone continuamente l’enfasi, per esempio, sul Bosco verticale o sulle case di pregio e si parla dei quartieri popolari soltanto in termini di problema, ma non si apre una riflessione profonda su come riqualificarli».
E secondo lei come si può interrompere questa spirale?
«Innanzitutto la politica che ha la responsabilità della governance della città, del territorio, deve prendere atto di questa forbice e anche di tutte le questioni che chiama in causa. E a partire da questa consapevolezza bisogna ricominciare a programmare senza avere come unica voce di riferimento il profitto, altrimenti si rischia davvero di avere una città soltanto per ricchi assediata dagli altri, dagli esclusi, che diventano soltanto molesti e sgraditi».
Ma chi sono gli interlocutori di questo messaggio? Chi dovrebbe dare risposte?
«Tutta la classe dirigente: gli amministratori pubblici a tutti i livelli, dal Comune alla Regione, gli imprenditori, le banche, il terzo settore, la Chiesa... Milano ha istituzioni sensibili a questi temi e ci sono le condizioni per affrontare le sfide che ci pongono. Ma come dice l’arcivescovo Mario Delpini, per dare queste risposte è indispensabile costruire alleanze».
Cioè l’ennesimo «tavolo»?
«No, anche perché poi succede che dopo i buoni propositi iniziali, c’è chi si ritrova da solo per le strade ad affrontare la realtà. Durante la pandemia, per esempio, hanno funzionato le reti vere, consolidate, radicate nei quartieri. Ma non possiamo più pensare che le parrocchie e le associazioni di volontariato possano reggere da sole: bisogna ragionare su progetti veri, che abbiano impatto sulla vita nei quartieri per una nuova sostenibilità metropolitana».
«La città è un polo di attrazione per tutti, sia per chi può competere a livelli di eccellenza sia per chi invece non ha grandi competenze da offrire al mercato. Se si insiste con l’enfasi sulle eccellenze e ci si dimentica degli altri si rischia di scavare un solco incolmabile e una spirale al ribasso per tante persone». Dal suo osservatorio di direttore della Caritas Ambrosiana, Luciano Gualzetti ha ben chiare le vite «degli altri» milanesi. E durante l’uragano della pandemia ha visto scoperchiate tantissime economie di sussistenza basate sulla precarietà, che fino a quel momento avevano retto aggrappate alla vetrina della città del post-Expo.
Già in quelle prime settimane in cui i centri di ascolto Caritas diventavano l’unico punto di riferimento di tanti lavoratori diventati di colpo fantasmi senza reddito né sussidio, lui poneva i temi che ripropone oggi: disuguaglianze, nuove povertà da lavoro, esclusione sociale.
Gualzetti, dunque le due velocità di Milano sono diventate più evidenti?
«Mi sembra una realtà evidente. Questa è la città degli affari, della grande finanza, del terziario avanzato, che offre occasioni a tanti, ma al tempo stesso è anche la città italiana con più persone senza fissa dimora e dove tante persone, famiglie intere, hanno bisogno di risposte sebbene abbiamo una casa e magari anche un lavoro».
Ma cosa non funziona, dove sta il corto circuito?
«Forse si è esagerato nel porre l’enfasi sulle eccellenze, la richiesta di competenze alte ha contribuito a creare una spirale che trascina verso il basso tante persone che non riescono più a emanciparsi da lavori come — per esempio — i servizi di pulizia e da contratti soltanto precari e poveri. Così ci ritroviamo con una nuova classe di working poor che sta già proiettando la propria condizione di fragilità ed esclusione sui figli. Rischiamo di trovarci di fronte a una povertà multidimensionale e a una dinamica che comporta la trasmissione generazionale delle fragilità».
In che senso?
«Nel senso che difficilmente questi bambini o ragazzi potranno contare su strumenti solidi — a partire dagli studi — per competere al questa grande sfida. E lo stesso corto circuito si ripropone se prendiamo in considerazione questioni vitali come l’accesso alla sanità, i trasporti la casa».
Per esempio?
«Lo schema è lo stesso: si pone continuamente l’enfasi, per esempio, sul Bosco verticale o sulle case di pregio e si parla dei quartieri popolari soltanto in termini di problema, ma non si apre una riflessione profonda su come riqualificarli».
E secondo lei come si può interrompere questa spirale?
«Innanzitutto la politica che ha la responsabilità della governance della città, del territorio, deve prendere atto di questa forbice e anche di tutte le questioni che chiama in causa. E a partire da questa consapevolezza bisogna ricominciare a programmare senza avere come unica voce di riferimento il profitto, altrimenti si rischia davvero di avere una città soltanto per ricchi assediata dagli altri, dagli esclusi, che diventano soltanto molesti e sgraditi».
Ma chi sono gli interlocutori di questo messaggio? Chi dovrebbe dare risposte?
«Tutta la classe dirigente: gli amministratori pubblici a tutti i livelli, dal Comune alla Regione, gli imprenditori, le banche, il terzo settore, la Chiesa... Milano ha istituzioni sensibili a questi temi e ci sono le condizioni per affrontare le sfide che ci pongono. Ma come dice l’arcivescovo Mario Delpini, per dare queste risposte è indispensabile costruire alleanze».
Cioè l’ennesimo «tavolo»?
«No, anche perché poi succede che dopo i buoni propositi iniziali, c’è chi si ritrova da solo per le strade ad affrontare la realtà. Durante la pandemia, per esempio, hanno funzionato le reti vere, consolidate, radicate nei quartieri. Ma non possiamo più pensare che le parrocchie e le associazioni di volontariato possano reggere da sole: bisogna ragionare su progetti veri, che abbiano impatto sulla vita nei quartieri per una nuova sostenibilità metropolitana».