Acqua: un'emergenza cronica
Articolo di Carlo Borghetti.
Il 15 maggio 2022 l’Italia ha esaurito la sua quota di risorse che il pianeta riesce a rigenerare nel corso di un anno, secondo i calcoli del Global Footprint Network. Stiamo già vivendo a debito con il pianeta Terra, perché il nostro Paese ha bisogno di 2,7 volte quello che gli spetterebbe commisurato alla popolazione e al territorio. Terra, aria, risorse minerali e acqua sono risorse finite, non infinite. Ecco perché è fondamentale agire velocemente secondo un triplice criterio: preservare-utilizzare-recuperare le risorse-beni comuni, a partire dall’acqua.
Non c’è altra strada per invertire la rotta di quella che ormai non può più nemmeno essere definita una “emergenza” perché i drammi odierni –una siccità che non ha eguali nella nostra storia, incendi e la tragedia del distacco del seracco della Marmolada– non sono altro che la punta dell’iceberg di un modo di vivere incurante degli appelli e poi degli allarmi degli esperti di cambiamenti climatici che ormai va avanti da molti, troppi decenni. Preservare-utilizzare-recuperare è il senso della “transizione ecologica”, espressione della quale ancora forse non si comprende appieno il significato.
Anche di questo ho parlato lo scorso 8 luglio nel convegno “Il sistema dell’acqua circolare” organizzato dalla Commissione Ambiente e Protezione civile del Consiglio regionale, a cui hanno preso parte ARPA Lombardia, esperti e rappresentanti delle istituzioni ospitati dal Centro Ricerche di CAP, il Consorzio Acqua Potabile della Città Metropolitana di Milano all’Idroscalo di Milano. Obiettivo: portare all’attenzione di tutti –responsabili della cosa pubblica, operatori, cittadini– le criticità del sistema idrico e soprattutto individuare gli strumenti per una migliore gestione dell’acqua, cominciando da una maggiore limitazione degli scarichi industriali, civili, commerciali e artigianali e dalla diffusione della conoscenza dei comportamenti responsabili che tutti noi possiamo utilizzare anche nella vita quotidiana, in famiglia e al lavoro.
Un giornale ha definito “buchi nell’acqua” le perdite idriche di rete, un problema che non riguarda i Comuni lombardi ma che nell’intero Paese fa sì che su 2,4 miliardi di metri cubi di acqua immessi in rete, l’erogazione finale sia ridotta a 1,5 miliardi di metri cubi: quasi un miliardo di metri cubi d’acqua va persa, oltre il 35% del totale.
L’Italia utilizza quasi il 35% delle sue risorse idriche rinnovabili, quando l’obiettivo europeo di efficienza prevede di non estrarre più del 20% delle disponibili ed è prima in Europa per prelievo di acqua potabile, con oltre 9 miliardi di metri cubi. E ancora, mentre in Europa il consumo medio giornaliero per persona è di 120 litri, gli italiani ne consumano 243 litri, più del doppio. A margine, siamo anche tra i primi consumatori di acqua in bottiglia al mondo. I nostri comportamenti sono la prova della mancanza di consapevolezza sul fatto che gli sprechi, prima o poi, si pagano: serve una diversa cultura di utilizzo.
Delle proposte e azioni da mettere in atto si è discusso nel convegno e personalmente condivido la posizione di Legambiente, che già l’ottobre scorso aveva auspicato una nuova strategia per gestire l’acqua come risorsa circolare. Come?
Con “interventi strutturali per rendere efficiente il funzionamento del ciclo idrico integrato, separare le reti fognarie, investire sullo sviluppo di sistemi depurativi innovativi e con tecniche alternative”. Nonché “misure di incentivazione e defiscalizzazione in tema idrico come avviene per gli interventi di efficientamento energetico”, “obbligo di recupero delle acque piovane e installazione di sistemi di risparmio idrico e recupero della permeabilità in ambiente urbano attraverso misure di de-sigillazione del suolo, togliendo asfalto e cemento, per ridargli permeabilità”.
E, ancora, “utilizzo dei Criteri Minimi Ambientali definiti dal Ministero della transizione ecologica nel campo dell’edilizia per ridurre gli sprechi; implementazione di sistemi di recupero e riutilizzo delle acque; riutilizzo dell’acqua nei cicli industriali con un servizio di depurazione dedicato”.
Molte di queste azioni hanno a che fare anche con la sicurezza del territorio lombardo: siccità e fortunali, dissesto idrogeologico, eccessiva impermeabilizzazione del suolo, inadeguatezza degli invasi hanno causato negli ultimi anni un numero mai visto prima di richieste di riconoscimento dello stato di calamità naturale. Che, di nuovo, si traducono in richieste di risorse per risarcimenti danni: emergenze, insomma. Solo una migliore gestione delle acque e del suolo può modificare questa situazione.
Ma ha senso parlare di “emergenza” quando le siccità che abbiamo sofferto in Italia sono state nel 1997, 2002, 2012, 2017 e nel 2022, e che la serie si fa sempre più ravvicinata? E aggiungiamo che nel 2021 il Po, secondo l’Autorità Distrettuale del Fiume, ha avuto portate del 30% sotto la media. Quindi non stiamo bene neanche negli anni “dimenticati” dalla siccità.
A ogni evento drammatico –alluvioni, esondazioni, bombe d’acqua, ghiacciai che si ritirano, valanghe che si distaccano, crisi agroalimentari– sembra che ci accorgiamo di qualcosa di inaspettato, di nuovo. Parliamo di calamità come di una disgrazia esterna che turba il nostro vivere quotidiano, per la quale non c’è preavviso e non abbiamo alcuna colpa. Eppure le catastrofi sono sempre più connesse al nostro modo di vivere e saranno sempre più frequenti e “normali” se non modifichiamo subito e profondamente il nostro approccio con l’ambiente in cui viviamo. L’attenzione all’acqua di questi mesi impone scelte forti e immediate, ma anche programmi per il medio e il lungo periodo, per evitare crisi nel futuro prossimo venturo.
“La Terra non è un’eredità ricevuta dai nostri padri ma un prestito da restituire ai nostri figli”.
Il 15 maggio 2022 l’Italia ha esaurito la sua quota di risorse che il pianeta riesce a rigenerare nel corso di un anno, secondo i calcoli del Global Footprint Network. Stiamo già vivendo a debito con il pianeta Terra, perché il nostro Paese ha bisogno di 2,7 volte quello che gli spetterebbe commisurato alla popolazione e al territorio. Terra, aria, risorse minerali e acqua sono risorse finite, non infinite. Ecco perché è fondamentale agire velocemente secondo un triplice criterio: preservare-utilizzare-recuperare le risorse-beni comuni, a partire dall’acqua.
Non c’è altra strada per invertire la rotta di quella che ormai non può più nemmeno essere definita una “emergenza” perché i drammi odierni –una siccità che non ha eguali nella nostra storia, incendi e la tragedia del distacco del seracco della Marmolada– non sono altro che la punta dell’iceberg di un modo di vivere incurante degli appelli e poi degli allarmi degli esperti di cambiamenti climatici che ormai va avanti da molti, troppi decenni. Preservare-utilizzare-recuperare è il senso della “transizione ecologica”, espressione della quale ancora forse non si comprende appieno il significato.
Anche di questo ho parlato lo scorso 8 luglio nel convegno “Il sistema dell’acqua circolare” organizzato dalla Commissione Ambiente e Protezione civile del Consiglio regionale, a cui hanno preso parte ARPA Lombardia, esperti e rappresentanti delle istituzioni ospitati dal Centro Ricerche di CAP, il Consorzio Acqua Potabile della Città Metropolitana di Milano all’Idroscalo di Milano. Obiettivo: portare all’attenzione di tutti –responsabili della cosa pubblica, operatori, cittadini– le criticità del sistema idrico e soprattutto individuare gli strumenti per una migliore gestione dell’acqua, cominciando da una maggiore limitazione degli scarichi industriali, civili, commerciali e artigianali e dalla diffusione della conoscenza dei comportamenti responsabili che tutti noi possiamo utilizzare anche nella vita quotidiana, in famiglia e al lavoro.
Un giornale ha definito “buchi nell’acqua” le perdite idriche di rete, un problema che non riguarda i Comuni lombardi ma che nell’intero Paese fa sì che su 2,4 miliardi di metri cubi di acqua immessi in rete, l’erogazione finale sia ridotta a 1,5 miliardi di metri cubi: quasi un miliardo di metri cubi d’acqua va persa, oltre il 35% del totale.
L’Italia utilizza quasi il 35% delle sue risorse idriche rinnovabili, quando l’obiettivo europeo di efficienza prevede di non estrarre più del 20% delle disponibili ed è prima in Europa per prelievo di acqua potabile, con oltre 9 miliardi di metri cubi. E ancora, mentre in Europa il consumo medio giornaliero per persona è di 120 litri, gli italiani ne consumano 243 litri, più del doppio. A margine, siamo anche tra i primi consumatori di acqua in bottiglia al mondo. I nostri comportamenti sono la prova della mancanza di consapevolezza sul fatto che gli sprechi, prima o poi, si pagano: serve una diversa cultura di utilizzo.
Delle proposte e azioni da mettere in atto si è discusso nel convegno e personalmente condivido la posizione di Legambiente, che già l’ottobre scorso aveva auspicato una nuova strategia per gestire l’acqua come risorsa circolare. Come?
Con “interventi strutturali per rendere efficiente il funzionamento del ciclo idrico integrato, separare le reti fognarie, investire sullo sviluppo di sistemi depurativi innovativi e con tecniche alternative”. Nonché “misure di incentivazione e defiscalizzazione in tema idrico come avviene per gli interventi di efficientamento energetico”, “obbligo di recupero delle acque piovane e installazione di sistemi di risparmio idrico e recupero della permeabilità in ambiente urbano attraverso misure di de-sigillazione del suolo, togliendo asfalto e cemento, per ridargli permeabilità”.
E, ancora, “utilizzo dei Criteri Minimi Ambientali definiti dal Ministero della transizione ecologica nel campo dell’edilizia per ridurre gli sprechi; implementazione di sistemi di recupero e riutilizzo delle acque; riutilizzo dell’acqua nei cicli industriali con un servizio di depurazione dedicato”.
Molte di queste azioni hanno a che fare anche con la sicurezza del territorio lombardo: siccità e fortunali, dissesto idrogeologico, eccessiva impermeabilizzazione del suolo, inadeguatezza degli invasi hanno causato negli ultimi anni un numero mai visto prima di richieste di riconoscimento dello stato di calamità naturale. Che, di nuovo, si traducono in richieste di risorse per risarcimenti danni: emergenze, insomma. Solo una migliore gestione delle acque e del suolo può modificare questa situazione.
Ma ha senso parlare di “emergenza” quando le siccità che abbiamo sofferto in Italia sono state nel 1997, 2002, 2012, 2017 e nel 2022, e che la serie si fa sempre più ravvicinata? E aggiungiamo che nel 2021 il Po, secondo l’Autorità Distrettuale del Fiume, ha avuto portate del 30% sotto la media. Quindi non stiamo bene neanche negli anni “dimenticati” dalla siccità.
A ogni evento drammatico –alluvioni, esondazioni, bombe d’acqua, ghiacciai che si ritirano, valanghe che si distaccano, crisi agroalimentari– sembra che ci accorgiamo di qualcosa di inaspettato, di nuovo. Parliamo di calamità come di una disgrazia esterna che turba il nostro vivere quotidiano, per la quale non c’è preavviso e non abbiamo alcuna colpa. Eppure le catastrofi sono sempre più connesse al nostro modo di vivere e saranno sempre più frequenti e “normali” se non modifichiamo subito e profondamente il nostro approccio con l’ambiente in cui viviamo. L’attenzione all’acqua di questi mesi impone scelte forti e immediate, ma anche programmi per il medio e il lungo periodo, per evitare crisi nel futuro prossimo venturo.
“La Terra non è un’eredità ricevuta dai nostri padri ma un prestito da restituire ai nostri figli”.
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