Oltre il Pil
Articolo di Antonio Calabrò pubblicato da Huffington Post
Pensieri sparsi, per ricordare Jean-Paul Fitoussi, uno dei migliori economisti di questi nostri tempi inquieti e difficili. Pensieri sui valori dell’economia, sull’insufficienza del Pil come strumento di misurazione dello sviluppo economico (indica la quantità, non apprezza la qualità della crescita), sulla necessità che la cosiddetta “scienza triste” guardi più alle persone che non all’accumulazione del denaro.
Pensieri che possono partire da un giudizio di Tony Judt, storico tra i più lucidi della seconda metà del Novecento: "Sappiamo quanto costano le cose, ma non quanto valgono. Non ci chiediamo più, di una sentenza di tribunale o di una legge, se sia buona, o equa, o giusta, o corretta, se contribuirà a rendere migliore la società o il mondo. Erano queste, un tempo, le domande politiche per eccellenza. Dobbiamo reimparare a porcele".
La frase è tratta da “Guasto è il mondo”, pubblicato in Italia da Laterza e scritto nel 2010, poco prima della sua morte. In quelle pagine, una sorta di testamento politico e morale, si insiste sulle responsabilità della politica e del lavoro intellettuale e si condensano riflessioni sui nodi irrisolti del secolo appena trascorso e sugli squilibri degli anni in corso (tracce ampie sono in “Novecento. Il secolo degli intellettuali e della politica”, una lunga e affascinante conversazione con Timothy Snyder, pubblicata nel 2012 sempre da Laterza).
C’è, nella riflessioni di Judt, la piena consapevolezza delle gravi carenze, analitiche e strategiche, della tendenza culturale dominante nel passaggio di secolo, quella del liberismo, del market fundamentalism, del “mercatismo” e dell’individualismo senza limiti cara ai politici alla Margareth Thatcher (“There is no society”) e alla Ronald Reagan e agli economisti monetaristi della “scuola di Chicago” guidata da Milton Friedman (premio Nobel per l’economia nel 1976). E la sottolineatura dell’importanza di ripensare riforme politiche e strategie economiche nel segno di un intervento pubblico e privato sull’economia che stimoli verso la sostenibilità e i migliori equilibri sociali.
Sono i temi che riporteranno alla ribalta il pensiero di John Maynard Keynes, un liberalismo con forti venature sociali e stimoleranno il passaggio verso un pensiero economico attento meno all’ideologia dello shareholder value (il primato dei profitti e dei valori di Borsa nella gestione delle imprese) e molto di più agli stakeholders values (l’attenzione prioritaria da riservare alle comunità su cui insiste l’impresa, ai dipendenti, ai fornitori, ai consumatori, alle persone).
Tramonta il predominio di Friedman, si rilegge Keynes, appunto (depurato dalle poco keynesiane derive assistenzialiste dei lettori italiani più superficiali). E trovano spazio qualificato, nel discorso pubblici, gli economisti come Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’economia nel 2001) e, appunto, Jean-Paul Fitoussi. I due, insieme con Amartya Sen (premio Nobel per l’economia) guidano la Commissione per una nuova misurazione dello sviluppo economico e del progresso sociale voluta nel 2010 dall’allora presidente francese Nicholas Sarkozy e contribuiscono a una svolta radicale del pensiero economico verso la cosiddetta “economia giusta”, “circolare” e “civile” e la sostenibilità ambientale e sociale. Un terreno in cui si incontrano il pensiero di Papa Francesco, le elaborazioni di vasti settori della migliore letteratura economica e, dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, l’impegno sulla sostenibilità ambientale e sociale di potenti istituzioni economiche, come la più grande società d’investimenti del mondo, BlackRock, guidato da Larry Fink. Fitoussi, di questo mondo, è riferimento essenziale. Alcune indicazioni tratte dai suoi scritti ne offrono chiara testimonianza: “Da tempo, seguendo il pensiero dominante, i poteri pubblici hanno puntato i riflettori sulla stabilità dei prezzi quale obiettivo della politica economica - che dovrebbe anche consentire la massima crescita del Pil - e sulla teoria dei mercati concorrenziali per legittimare la propria azione”. Criticamente, “La crescita del Pil si è accompagnata a una profonda miseria sociale e la deregolamentazione dei mercati è stata il preludio al loro peggior funzionamento dai tempi della crisi degli anni Trenta del Novecento. Non sono stati accesi i lampioni giusti e si è cercato di agire a partire da una rappresentazione teorica del mondo che non aveva molto a che fare con il mondo reale, fissando obiettivi relativamente mal misurati (il Pil, per esempio) e non veramente importanti per la società”. Insomma, “Il Pil sarebbe una misura economica utile se riuscisse almeno a rendere l’idea della distribuzione della ricchezza di una nazione. Però il Pil può avere segno positivo anche quando l’80% della ricchezza va all’1% della popolazione”. In sintesi, “L’economia è in espansione solo quando l’aumento del benessere è distribuito tra la maggioranza della popolazione”.
Sono riflessioni che si ritrovano in un libro che vale la pena leggere, “Misurare ciò che conta. E ciò che conta davvero è il benessere”, scritto da Stiglitz, Fitoussi e Martine Durand e pubblicato nel 2021 da Einaudi. Non tanto e non solo il Pil, ma il Bes (l’indice che misura il Benessere Equo e Sostenibile, è stato messo a punto dall’Istat e fa già da riferimento per la scrittura delle leggi Finanziarie italiane), non tanto la quantità della crescita economica (comunque necessaria, contro le illusioni della cosiddetta “decrescita felice”) quanto soprattutto la qualità dello sviluppo, con una robusta attenzione ai temi della salute, dell’istruzione, dell’inclusione sociale, della sicurezza sul lavoro e della partecipazione di giovani e donne ai processi produttivi e sociali.
La rilettura di Keynes a la Fitoussi, appunto. Impegnato a proporre scelte fuori dalla falsa antinomia tra Stato e mercato (servono entrambi, con ruoli diversi e convergenti, in una sintonia riformista attenta allo sviluppo e al lavoro). E con un occhio di particolare riguardo per le politiche della Ue, di cui Fitoussi è stato un convinto sostenitore, per andare al di là dell’ortodossia ordoliberista dei parametri e insistere sugli investimenti pubblici per lo sviluppo (il Recovery Fund Next Generation Ue per rispondere alla crisi della pandemia da Covid-19 ne è solida conferma).
C’è una tendenza del pensiero economico italiano che è andata in queste direzioni e che Fitoussi conosceva bene e apprezzava: quello di Franco Modigliani (premio Nobel per l’economia nel 1985), di Claudio Napoleoni e di Federico Caffè (il maestro del premier Mario Draghi, improvvisamente e misteriosamente scomparso nella primavera del 1987, proprio mentre nel mondo economico trionfava il liberismo più accentuato e da lui nettamente avversato; sulle eventuali ragioni della sua scomparsa hanno scritto tra gli altri Ermanno Rea, “L’ultima lezione”, Einaudi, l’allievo prediletto Bruno Amoroso e, di recente, Guido Maria Brera, “Dimmi cosa vedi tu da lì”, Solferino).
C’è un’altra riflessione utile da ricordare, parlando di riscoperta di Keynes e di Fitoussi. E la troviamo nelle pagine di Zygmunt Bauman, in “Vite che non possiamo permetterci”, Laterza: “La società può elevarsi a comunità solo finché protegge efficacemente i suoi membri dagli orrori gemelli della miseria e dell'umiliazione, del terrore di essere esclusi e condannati alla 'ridondanza sociale' o comunque marchiati come 'rifiuti umani'”. Una buona lezione contemporanea.
Pensieri sparsi, per ricordare Jean-Paul Fitoussi, uno dei migliori economisti di questi nostri tempi inquieti e difficili. Pensieri sui valori dell’economia, sull’insufficienza del Pil come strumento di misurazione dello sviluppo economico (indica la quantità, non apprezza la qualità della crescita), sulla necessità che la cosiddetta “scienza triste” guardi più alle persone che non all’accumulazione del denaro.
Pensieri che possono partire da un giudizio di Tony Judt, storico tra i più lucidi della seconda metà del Novecento: "Sappiamo quanto costano le cose, ma non quanto valgono. Non ci chiediamo più, di una sentenza di tribunale o di una legge, se sia buona, o equa, o giusta, o corretta, se contribuirà a rendere migliore la società o il mondo. Erano queste, un tempo, le domande politiche per eccellenza. Dobbiamo reimparare a porcele".
La frase è tratta da “Guasto è il mondo”, pubblicato in Italia da Laterza e scritto nel 2010, poco prima della sua morte. In quelle pagine, una sorta di testamento politico e morale, si insiste sulle responsabilità della politica e del lavoro intellettuale e si condensano riflessioni sui nodi irrisolti del secolo appena trascorso e sugli squilibri degli anni in corso (tracce ampie sono in “Novecento. Il secolo degli intellettuali e della politica”, una lunga e affascinante conversazione con Timothy Snyder, pubblicata nel 2012 sempre da Laterza).
C’è, nella riflessioni di Judt, la piena consapevolezza delle gravi carenze, analitiche e strategiche, della tendenza culturale dominante nel passaggio di secolo, quella del liberismo, del market fundamentalism, del “mercatismo” e dell’individualismo senza limiti cara ai politici alla Margareth Thatcher (“There is no society”) e alla Ronald Reagan e agli economisti monetaristi della “scuola di Chicago” guidata da Milton Friedman (premio Nobel per l’economia nel 1976). E la sottolineatura dell’importanza di ripensare riforme politiche e strategie economiche nel segno di un intervento pubblico e privato sull’economia che stimoli verso la sostenibilità e i migliori equilibri sociali.
Sono i temi che riporteranno alla ribalta il pensiero di John Maynard Keynes, un liberalismo con forti venature sociali e stimoleranno il passaggio verso un pensiero economico attento meno all’ideologia dello shareholder value (il primato dei profitti e dei valori di Borsa nella gestione delle imprese) e molto di più agli stakeholders values (l’attenzione prioritaria da riservare alle comunità su cui insiste l’impresa, ai dipendenti, ai fornitori, ai consumatori, alle persone).
Tramonta il predominio di Friedman, si rilegge Keynes, appunto (depurato dalle poco keynesiane derive assistenzialiste dei lettori italiani più superficiali). E trovano spazio qualificato, nel discorso pubblici, gli economisti come Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’economia nel 2001) e, appunto, Jean-Paul Fitoussi. I due, insieme con Amartya Sen (premio Nobel per l’economia) guidano la Commissione per una nuova misurazione dello sviluppo economico e del progresso sociale voluta nel 2010 dall’allora presidente francese Nicholas Sarkozy e contribuiscono a una svolta radicale del pensiero economico verso la cosiddetta “economia giusta”, “circolare” e “civile” e la sostenibilità ambientale e sociale. Un terreno in cui si incontrano il pensiero di Papa Francesco, le elaborazioni di vasti settori della migliore letteratura economica e, dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, l’impegno sulla sostenibilità ambientale e sociale di potenti istituzioni economiche, come la più grande società d’investimenti del mondo, BlackRock, guidato da Larry Fink. Fitoussi, di questo mondo, è riferimento essenziale. Alcune indicazioni tratte dai suoi scritti ne offrono chiara testimonianza: “Da tempo, seguendo il pensiero dominante, i poteri pubblici hanno puntato i riflettori sulla stabilità dei prezzi quale obiettivo della politica economica - che dovrebbe anche consentire la massima crescita del Pil - e sulla teoria dei mercati concorrenziali per legittimare la propria azione”. Criticamente, “La crescita del Pil si è accompagnata a una profonda miseria sociale e la deregolamentazione dei mercati è stata il preludio al loro peggior funzionamento dai tempi della crisi degli anni Trenta del Novecento. Non sono stati accesi i lampioni giusti e si è cercato di agire a partire da una rappresentazione teorica del mondo che non aveva molto a che fare con il mondo reale, fissando obiettivi relativamente mal misurati (il Pil, per esempio) e non veramente importanti per la società”. Insomma, “Il Pil sarebbe una misura economica utile se riuscisse almeno a rendere l’idea della distribuzione della ricchezza di una nazione. Però il Pil può avere segno positivo anche quando l’80% della ricchezza va all’1% della popolazione”. In sintesi, “L’economia è in espansione solo quando l’aumento del benessere è distribuito tra la maggioranza della popolazione”.
Sono riflessioni che si ritrovano in un libro che vale la pena leggere, “Misurare ciò che conta. E ciò che conta davvero è il benessere”, scritto da Stiglitz, Fitoussi e Martine Durand e pubblicato nel 2021 da Einaudi. Non tanto e non solo il Pil, ma il Bes (l’indice che misura il Benessere Equo e Sostenibile, è stato messo a punto dall’Istat e fa già da riferimento per la scrittura delle leggi Finanziarie italiane), non tanto la quantità della crescita economica (comunque necessaria, contro le illusioni della cosiddetta “decrescita felice”) quanto soprattutto la qualità dello sviluppo, con una robusta attenzione ai temi della salute, dell’istruzione, dell’inclusione sociale, della sicurezza sul lavoro e della partecipazione di giovani e donne ai processi produttivi e sociali.
La rilettura di Keynes a la Fitoussi, appunto. Impegnato a proporre scelte fuori dalla falsa antinomia tra Stato e mercato (servono entrambi, con ruoli diversi e convergenti, in una sintonia riformista attenta allo sviluppo e al lavoro). E con un occhio di particolare riguardo per le politiche della Ue, di cui Fitoussi è stato un convinto sostenitore, per andare al di là dell’ortodossia ordoliberista dei parametri e insistere sugli investimenti pubblici per lo sviluppo (il Recovery Fund Next Generation Ue per rispondere alla crisi della pandemia da Covid-19 ne è solida conferma).
C’è una tendenza del pensiero economico italiano che è andata in queste direzioni e che Fitoussi conosceva bene e apprezzava: quello di Franco Modigliani (premio Nobel per l’economia nel 1985), di Claudio Napoleoni e di Federico Caffè (il maestro del premier Mario Draghi, improvvisamente e misteriosamente scomparso nella primavera del 1987, proprio mentre nel mondo economico trionfava il liberismo più accentuato e da lui nettamente avversato; sulle eventuali ragioni della sua scomparsa hanno scritto tra gli altri Ermanno Rea, “L’ultima lezione”, Einaudi, l’allievo prediletto Bruno Amoroso e, di recente, Guido Maria Brera, “Dimmi cosa vedi tu da lì”, Solferino).
C’è un’altra riflessione utile da ricordare, parlando di riscoperta di Keynes e di Fitoussi. E la troviamo nelle pagine di Zygmunt Bauman, in “Vite che non possiamo permetterci”, Laterza: “La società può elevarsi a comunità solo finché protegge efficacemente i suoi membri dagli orrori gemelli della miseria e dell'umiliazione, del terrore di essere esclusi e condannati alla 'ridondanza sociale' o comunque marchiati come 'rifiuti umani'”. Una buona lezione contemporanea.