Print

L’assalto al Campidoglio

Written by Lorenzo Gaiani.

Lorenzo GaianiArticolo di Lorenzo Gaiani pubblicato dal sito delle Acli.

Il mondo non dimenticherà facilmente le scene trasmesse in tempo reale da Washington il giorno dell’Epifania, quando una folla di facinorosi ha dato l’assalto al Congresso riunito per una cerimonia solitamente di routine come l’omologazione delle elezioni presidenziali e alcuni di essi, dopo aver sfondato il (tenue) cordone di sicurezza hanno fatto irruzione in aula minacciando deputati e senatori.
Peggio ancora, questi facinorosi poche ore prima erano stati arringati ed in qualche modo istigati dal Presidente uscente, che da due mesi rifiuta pervicacemente di ammettere la sua sconfitta alle elezioni di novembre e si è arroccato in una sorta di universo parallelo fatto di notizie false o non verificate e di ricorsi in giustizia che sono stati respinti da tutte le Corti adite, su su fino alla Corte suprema.
Di fronte ad atti simili valgono veramente poco le affermazioni per cui quella folla sarebbe espressione di un popolo culturalmente e socialmente deprivato che non trova di meglio che affidarsi al pifferaio magico di turno: le analisi sociologiche e politiche sono una cosa, il rispetto della legalità costituzionale è un’altra- ed è preminente.
Anche perché, detto per inciso, il popolo aveva già parlato nelle debite forme istituzionali ventiquattr’ore prima, in Georgia , eleggendo due senatori democratici, Raphael Warnock e Jon Ossoff, consegnando così al Presidente eletto Joe Biden una maggioranza, seppur modesta, anche alla Camera alta. Da notare che i due neo eletti sono , rispettivamente, un nero ed un ebreo, risultato notevole in uno Stato dell’antica Confederazione a lungo dominato dal Ku Klux Klan razzista ed antisemita.
Fra l’altro, le potenti implicazioni istituzionali dei disordini del 6 gennaio hanno certamente danneggiato le residue ambizioni di Trump, visto che la leadership repubblicana si è affrettata a prendere le distanze dalla folla golpista e da lui personalmente, con una serie di dichiarazioni , e di dimissioni dei componenti del Gabinetto, che suonano abbastanza ipocrite, visto che venivano da persone che per quattro anni avevano accettato le bizze, le prepotenze, i nepotisimi, l’affarismo sfacciato e gli abusi verbali del Presidente senza dir nulla o, peggio, avallandoli con le parole e con gli atti. Lo stesso si può dire dei proprietari di strumenti di comunicazione sociale come Twitter e Facebook, che di fatto hanno atteso la definitiva certificazione dei risultati elettorali per impedire a Trump di continuare a diffondere il suo verbo, il che equivale a togliere la benzina ad un piromane solo dopo che ha appiccato l’incendio.
Il fatto è che la leadership repubblicana, che per anni ha sfruttato la presenza al suo interno di fanatici ed estremisti di ogni tipo cercando di ampliare tramite essi la sua base elettorale, si trova oggi di fronte al dilemma di separarsi definitivamente da un (quasi) ex Presidente che non ha mai realmente percepito come uno dei suoi (nel 2016 i candidati per sfidare Hillary Clinton erano ben altri) ed il timore che, attraverso il meccanismo delle primarie, i candidati che si richiamano al mito trumpiano possano scalzare deputati e senatori uscenti, in vista magari di una rivincita generale di “The Donald” alle presidenziali del 2024.
Può riuscire questa strategia, ammesso che le scene di Capitol Hill non l’abbiano affondata definitivamente? Il sistema politico statunitense è sempre stato sostanzialmente bipartitico, ma questo bipartitismo si è di volta in volta rimodellato a seconda delle faglie che dividevano la società ed il dibattito politico della Repubblica stellata. La prima questione fu quella della prevalenza del governo e del diritto federali su quelli dei singoli Stati, che si intrecciò progressivamente con quella, ricca di implicazioni morali ed emotive, dello schiavismo (da qui, in sostanza, prese origine la Guerra di secessione). La seconda fu quella sociale, nel senso della trasformazione del paese a seguito dell’impetuosa industrializzazione e dell’afflusso di nuove generazioni di migranti da tutto il mondo ed in particolare dall’Europa. La terza, a cavallo fra la prima e la seconda guerra mondiale , fu il riposizionamento degli Stati Uniti in un mondo che richiedeva una loro crescente presenza, che divenne una leadership globale talvolta riluttante. La quarta, infine, fu la questione dei diritti civili, che decretò la fine della tradizionale prevalenza dei Democratici negli Stati del Sud.
Ognuno di questi passaggi si concretizzò nella trasmigrazione di militanti e dirigenti di partito dall’uno all’altro schieramento, spesso preceduta dalla presentazione di candidature presidenziali plurime (nel 1860, ad esempio, il Partito Democratico si spaccò in tre tronconi, ognuno dei quali presentò un suo candidato favorendo la vittoria dei Repubblicani uniti dietro Abraham Lincoln): ancora nel 1992 e nel 1996 il multimiliardario Ross Perot tentò la strada della creazione di un terzo partito, ed è noto che persino Trump accarezzò un’idea del genere.
E’ fuori discussione che la faglia sociale che ha originato la risposta populista, sovranista, la si chiami come si vuole, e che Trump ha utilizzato più per istinto che per riflessione come base per il suo successo nel 2016 è ancora tutta lì, e che la pandemia l’ha aggravata: solo che il discorso divisivo e muscolare che il Presidente ha sistematicamente utilizzato in questi anni è servito veramente a poco, se non ad esasperare la situazione, e l’incerta gestione della crisi del coronavirus lo ha affondato definitivamente.
I dirigenti repubblicani avevano accettato Trump obtorto collo per cercare di ottenere da lui almeno due cose fondamentali nella loro agenda: la diminuzione delle tasse e la nomina di giudici federali conservatori. Ora però hanno capito che il prezzo da pagare è quello di uno strappo costituzionale che altererebbe per sempre il gioco democratico e creerebbe i presupposti di qualcosa di simile ad una seconda guerra civile. D’altro canto, chi afferma che il Partito Repubblicano non potrebbe rinunciare così facilmente ad un Presidente che, pur nella sconfitta, è riuscito a raccogliere 74 milioni di voti popolari dovrebbe però riflettere sul fatto che in un sistema bipolare le persone votano in base all’offerta politica che concretamente hanno sul piatto, e che quindi molti elettori hanno votato per Trump non perché lo stimassero particolarmente ma perché in ogni caso non avrebbero votato per un esponente democratico.
Anche a questo, paradossalmente, dovrà servire l’abilità di Biden nel ricucire molti degli strappi che Trump ha prodotto od aggravato sul corpo vivo dell’America: a permettere al partito avversario di darsi una leadership credibile ed affidabile che, una volta giunta al potere, non si traduca in un rischio per la democrazia.
Pin It