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La volta buona (forse)

Written by Lorenzo Gaiani.

Lorenzo Gaiani“A noi della sinistra italiana , nella sostanza, non piacciono gli italiani che non fanno parte della sinistra italiana (…) Però, a questo Paese che non ci piace, che non possiamo amare, del quale non sentiamo di far parte, e che osserviamo inorriditi ed estranei, noi della sinistra italiana a ogni elezione, siamo costretti a chiedere il voto (…). Negli anni di Berlusconi, la vita di tutti noi che ci ritenevamo diversi e migliori, è stata più semplice. Qualsiasi complessità veniva subito abbattuta dall'ossessione per il Nemico. E le complessità sparivano, il senso di coesione tornava, la complicità si saldava. Tutto diventava di nuovo elementare. Per anni avevamo vissuto la certezza di essere diversi e migliori, e adesso finalmente era arrivata la dimostrazione pratica di questa diversità. Grazie a un errore politico, avevamo contribuito a stabilizzarla nella sconfitta, la condizione che ci faceva esprimere al meglio, e adesso potevamo goderci tutta la nostra diversità, e potevamo godercela tutti insieme,: non ci consideriamo più perdenti, perché non combattiamo più. Stiamo con le braccia conserte, quello che accade non ci riguarda”.

Questa lunga citazione è tratta da un libro molto discusso dello scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo, “Il desiderio di essere come tutti” , uscito lo scorso anno per i tipi di Einaudi. E' una sorta di autobiografia politica e sentimentale , che narra della sua precoce vocazione politica verso il PCI, del suo amore per Berlinguer, della fiducia malriposta in Bertinotti, soprattutto di una lunga lotta, quasi corpo a corpo, con la paralizzante ideologia della purezza come bene è descritta nelle righe precedenti.
Piccolo introduce anche un ulteriore elemento di analisi storica affermando che per lui il Berlinguer migliore è quello del compromesso storico e non quello della fumosa “alternativa democratica” degli anni Ottanta, che egli vede con una sorta di congelamento delle energie interne al PCI, un sorta di riflusso come contraccolpo della fine del progetto di collaborazione con la DC a causa della morte di Moro e della svolta moderata che ne conseguì. In questo senso egli legge anche la mortale battaglia contro il PSI di Craxi, da ultimo sul “Decreto di San Valentino” in materia di politiche salariali.
E'interessante notare come l'analisi di Piccolo su questo punto coincida con quella di un personaggio allora ben più addentro al gruppo dirigente del PCI, Massimo D'Alema, che in un suo libriccino di dieci anni fa vede la strategia berlingueriana dei primi anni Ottanta come una sorta di protezione esasperata della “diversità” comunista quale riserva insieme morale e politica in attesa che venissero tempi migliori, pur non rinunciando alla possibilità di accordi tattici con la stessa DC per far cadere il Governo a guida socialista. La spendibilità politica di una simile operazione, ammette D'Alema, era pressoché nulla, e il sommarsi di questa impotenza politica con il tatticismo craxiano rese impossibile un qualsiasi rapporto positivo fra le due maggiori forze della sinistra italiana.
Tutto ciò ha un qualche legame con il dibattito politico odierno? Eccome, e mi sembra che sia chiaro nel momento in cui si leggono le cronache interne all'unica sinistra esistente e possibile, il Partito Democratico. Non si tratta, nemmeno da parte mia, di una fascinazione o di una fede cieca nelle virtù salvifiche di Matteo Renzi: si tratta di inseguire l'unica (mi sembra) possibilità concreta di estendere il consenso della sinistra al di fuori delle rassicuranti mura della purezza per cercare il contatto, la contaminazione (ne parlava Occhetto ma forse non ci credeva nemmeno lui, certo non ci credevano molti che lo attorniavano) con quella larga maggioranza del Paese che si è sempre tenuta ben lontano dalla sinistra e che, pur vedendo abbastanza chiaramente i limiti di Berlusconi e del suo progetto continuava a non fidarsi dell'offerta politica variamente denominata che stava dall'altra parte.
Lo facevano in nome dei loro interessi? Si capisce, lo fanno tutti, ed è assolutamente fisiologico in politica. Non si reciti qui la commedia stantia della preservazione degli ideali puri ed incorrotti perché, innanzitutto essa stona assai in bocca a certi esponenti politici che nelle loro biografie hanno ben poco della stoffa del militante rivoluzionario modello Malatesta o Serrati o anche Terracini e Gramsci. Inoltre, è ben difficile che la prevalenza sistematica della sinistra in certe aree del nostro Paese sia riconducibile ad altro che ad una ben mirata gestione di equilibri fra interessi diversi, come aveva ben chiaro lo stesso Togliatti che non a caso intitolò uno dei suoi più noti discorsi postbellici “Ceto medio e Emilia rossa”. Sempre non a caso, un osservatore attento e paradossale come Pier Paolo Pasolini scrisse negli anni Settanta che il buongoverno del PCI nell' Italia centrale non aveva nulla di rivoluzionario, che lì il PCI governava come avrebbe dovuto governare una DC coerente con i suoi ideali.
Ecco, se molti nel PD pur con maggiori e minori perplessità e nella consapevolezza di un diverso approccio culturale e anche, direi, caratteriale, hanno deciso di dar fiducia a Matteo Renzi è proprio per questo, perché hanno creduto che la “volta buona” di cui parlava il politico fiorentino fosse quella in cui si rompeva il muro di vetro attorno a cui la sinistra italiana si era rifugiata nella sua endemica incapacità di parlare con il resto del Paese, convinta che solo l'autoevidenza della sua superiorità morale e culturale bastasse a richiedere il voto di chi non si stimava provocandone invece (e comprensibilmente) l'irritazione ed il rifiuto.
Non si tratta di firmare un assegno in bianco, si tratta di fare politica nell'unico spazio politico consentito a sinistra (forse nell'unico spazio politico esistente) facendosi carico non delle problematiche esistenziali di un ceto politico ed intellettuale autoreferenziale ma dell'Italia intera, come ha esortato a fare nel suo magistrale intervento per gli auguri natalizi il Presidente Napolitano (epigono di una grande tradizione comunista e riformista) , scuotendo i pigri e gli immemori su quelli che sono i compiti delle forze politiche e sociali oggi.
Lo stesso approccio alle tematiche costituzionali è stato forse vissuto da parte del Segretario/Premier con un eccesso di efficientismo che forse non è del tutto adatto alla complessità e delicatezza della materia trattata, ma nello stesso tempo è utile per ricordare che esiste un modo “laico” di rapportarsi a questi temi, senza impantanarsi in una concezione ideologica della Costituzione che nemmeno i Padri costituenti ebbero nel momento in cui stabilirono precise procedure per la sua modifica. Alcuni di essi peraltro ebbero ben chiari fin da subito i limiti delle mediazioni ottenute, come dimostrano le critiche convergenti al meccanismo del bicameralismo perfetto. Certo, le modalità si possono discutere, ma è ben strano che chi – giustamente - milita per un'applicazione totale dei chiavistelli previsti dall'art. 138 per riformare la Carta, e che prevedono il coinvolgimento di un largo schieramento di forze presenti in Parlamento si lagni poi del fatto che Renzi stringe accordi con l'opposizione o perlomeno con l'unico settore dell'opposizione che non si chiude in un'aprioristica astensione dall'agire politico.
Non significa che tutto va bene: è evidente che molto è ancora da fare in materia economica e sociale, dove il Jobs Act va messo alla prova della sua capacità di generare nuovi posti di lavoro e di contribuire alla riduzione delle rilevanti disparità sociali presenti nel nostro Paese. Altrettanto problematica è la situazione del Partito, se è vero che l'inchiesta di Roma Capitale ha dimostrato l'estrema permeabilità da parte delle organizzazioni criminali di tutti i modelli di formazione del consenso e di selezione del ceto politico (preferenze, primarie, tesseramento...), e non esistono quindi risposte certe sulle modalità organizzative migliori per strutturare un partito che si proponga di svolgere organicamente un ruolo di animazione politica di massa senza le pretese pedagogiche dei partiti della Prima Repubblica e nel contempo senza ridursi ad un puro e semplice comitato elettorale.
Insomma c'è molto da fare ed il cantiere è aperto: occorre però che a questa impresa comune ci si accinga con lo spirito giusto, che non è mai quello della rivalsa o della ricerca di una purezza forse mai esistita, a maggior ragione se tale purezza viene assunta come pretesto per dare in testa a chi invece decide di misurarsi con la realtà per quella che è e – pensa che sfacciato!- riesce anche a vincere le elezioni.

Per seguire l'attività di Lorenzo Gaiani: sito web - pagina facebook

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