Stare nel Pse
Se non guardiamo oltre noi stessi, come potremmo essere utili alla nuova Europa? La domanda ha fatto da sfondo al dibattito che ha impegnato giovedì la direzione del Pd e che si è concluso con l’adesione al Partito socialista europeo. Un’adesione che non ha nulla di magico e non trasforma nessuno in chi non è. Anzi, che propone al Pd responsabilità nuove proprio in virtù delle proprie sensibilità ed esperienze.
Sarebbe inutile pensare ad un’Europa profondamente diversa se scegliessimo di occuparcene non sporcandoci le mani, o ritenendo di dover scendere in campo scegliendoci gli interlocutori e con un po’ di snobbismo pensare ad un’Europa progressista a nostra immagine e somiglianza.
Non vi è dubbio che il risultato raggiunto, con l’annuncio da parte della presidenza del Pse di aggiungere alla denominazione accanto a ‘Socialisti” la parola “Democratici” sia innanzitutto un riconoscimento a quello che il Pd rappresenta, in continuità con quanto realizzato al Parlamento europeo dopo la fondazione del gruppo dei Socialisti e democratici.
Un compito che ci fu affidato da un’altra direzione del partito, dopo le elezioni europee, per dare casa ai democratici italiani, fino a quel momento divisi in gruppi parlamentari differenti.
Un’alleanza con i socialisti che fece discutere, ma che ha prodotto risultati importanti se è vero che questa legislatura europea, come ha ricordato il presidente Napolitano poche settimane fa a Strasburgo, ha visto il Parlamento europeo essere l’unica istituzione dell’Unione che ha tenuto ferma la prospettiva europeista e antinazionalista, che ha prodotto indicazioni per contrastare le politiche di sola austerity, che ha detto no al fiscal compact e sì alla tassa sulle transazioni finanziarie, che ha combattuto con la Commissione europea una dura battaglia sul bilancio dell’Unione per recuperare fondi allo sviluppo, al welfare e alla cultura.
Risultati resi possibili anche grazie a quelle dinamiche che hanno consentito ai gruppi parlamentari di liberarsi dalla difesa di interessi nazionali. Oggi, possiamo dirlo anche con un pizzico di orgoglio, non c’è maggioranza che non veda centrale la posizione del Partito democratico nel comporre l’agenda e la lista di voto del gruppo S&D. E questo per forza numerica e per l’impegno dei nostri parlamentari. Ma anche per l’idea guida che ha sempre ispirato il Pd: scommettere sì sull’Europa, ma su un’Europa diversa.
Alleati finora del Pse dunque, e da domani impegnati non ad indossare abiti nuovi, ma ad assumere da democratici impegni nuovi. Per costruire un vero partito progressista, per aiutare i socialisti a spalancare porte e finestre, per ridurre la forza di quel populismo che sentiamo così minaccioso, per avvicinare l’Europa ai cittadini riducendo il peso di una euroburocrazia asfissiante.
Che tutto questo avvenga alla vigilia di una campagna elettorale che per la prima volta avrà al centro anche la sfida per la presidenza della Commissione europea, con la candidatura di Martin Schulz, aumenta l’importanza della decisione di aderire organicamente al campo progressista.
Non è una burocratica adesione, ma una scelta fondamentale per il nostro partito. D’altronde, in tutte le nostre analisi sulla crisi ricorre costante una preoccupazione: che l’Europa dell’austerity stia minacciando non solo le condizioni di vita dei nostri cittadini, ma anche la qualità della nostra democrazia, soffocando istituzioni e sovranità popolare. La Grecia insegna e l’uso spavaldo e arrogante di sbandierare l’intervento della troika ogni qualvolta si osi rimettere al centro politiche di crescita, lo conferma.
Ecco, la scelta del Pd si inserisce esattamente nella battaglia per una nuova Europa, perché se non costruiamo partiti davvero europei, se non usciamo da contenitori che troppo spesso somigliano a cooperative, non saremo mai in grado di offrire una prospettiva concreta alla costruzione degli Stati Uniti d’Europa.
Articolo pubblicato da Europa.
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