Un sistema che fa acqua
A metà gennaio, in un altro dei Cie “sopravvissuti”, a Bari, è intervenuto il Tribunale per ordinare al Ministero dell’Interno e alla Prefettura di eseguire, entro il termine perentorio di tre mesi, i lavori necessari per garantire le condizioni minime di rispetto dei diritti umani. Il provvedimento è arrivato dopo un ricorso dell’associazione Class Action e dopo che un perito nominato dal Tribunale aveva depositato una dura relazione di venti pagine. Si sta peggio che in carcere, secondo il giudice: «Non è azzardato concludere – ha scritto nella sentenza – che, se lo stato degli stranieri trattenuti nei Cie in vista della loro espulsione fosse stato assoggettato alla disciplina dell’ordinamento penitenziario vigente, la loro condizione sarebbe stata migliore o comunque più “garantita”, quanto meno sul piano formale». Nel Cie di Bari, infatti, si vive in condizioni inaccettabili: niente tende, niente aerazione, bagni praticamente impresentabili, nessuna attenzione alle attività sociali. In compenso, ricorso massiccio a psicofarmaci. Insomma, «trasmoda nell’illegalità».
Con la fine del 2013, nel resto d’Italia, altri Cie hanno chiuso i battenti. Definitivamente a Modena, dopo 11 anni di attività, mentre solo temporaneamente e per (costosi) lavori di ristrutturazione a Milano e Gradisca d’Isonzo. Nel capoluogo lombardo, il Cie di via Corelli, ex Cpt, costruito nel 1998 quando il periodo massimo di permanenza era ancora di 30 giorni e non gli attuali 18 mesi, ha chiuso il 31 dicembre dopo anni di rivolte, scioperi della fame, incendi e fughe. Non si sa quando, ma riaprirà, dicono dalla Prefettura. Con un nuovo gestore però: la Croce Rossa, che ha gestito il centro nell’ultimo periodo, ha ora rinunciato, anche per ragioni economiche (l’ultimo bando prevedeva un compenso giornaliero troppo basso). Continua invece a gestire il Cie di Torino, dove alcuni consiglieri comunali del Pd e Sel hanno appena presentato una mozione per chiederne la chiusura: «Qui – dicono – un trattenuto su tre usa ansiolitici e antidepressivi e il costo sostenuto per l’ampliamento di tre anni fa è stato di 14 milioni di euro, ossia 78mila euro a posto letto».
Nel frattempo, a fine dicembre, il premier Letta aveva annunciato l’intenzione del Governo di «mettersi al lavoro per una revisione dei Cie, che rappresenta una risposta obbligatoria»’. Peccato che contemporaneamente il Viminale, oltre a tappare buchi (e innalzare muri) nei Cie che sopravvivono, portasse avanti dispendiosi progetti per nuovi centri. I Ministeri dell’Interno e delle Infrastrutture, insieme alla Prefettura di Potenza, hanno dato il via al bando per riaprire il Cie di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza. Le buste si sono aperte il 12 novembre scorso, per un importo complessivo di 2 milioni e settecentomila euro. Istruttiva la storia di questa “gabbia” in terra lucana, soprannominata “la voliera degli immigrati” e “pollaio”. Venne istituita dal ministro Maroni per far fronte all’Emergenza Nord Africa insieme a quello di Santa Maria Capua Vetere (provincia di Caserta) e alla tendopoli di Kinisia.
Si trattava allora, nell’aprile 2011, di due Ciet (la “t” stava per temporanei), dove vennero reclusi centinaia di persone provenienti dalle coste tunisine. Con il Governo Moniti, a inizio 2012, persero la “t”, diventando Cie ordinari (18 milioni il costo della sola ristrutturazione). Il Cie di Palazzo San Gervasio venne poi chiuso dopo alcune denunce che ne dimostrarono l’inadeguatezza e il mancato rispetto dei diritti umani. Ora invece si spendono nuovi milioni per riaprirlo. E il suo “gemello” di Santa Maria Capua Vetere? Stessa sorte: chiuso perché posto sotto sequestro dalla magistratura dopo varie rivolte, anche su questo c’è ora un progetto per la riapertura con un costo di vari milioni di euro.
Articolo pubblicato da Famiglia Cristiana.
Segnaliamo anche un articolo sulla situazione del CIE di Ponte Galeria a Roma, tristemente balzato alle cronache per la protesta dei migranti con le bocche cucite, sempre a cura di Stefano Pasta.