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Morti di carcere

Written by Stefano Pasta.

Stefano Pasta
Francesco, 52 anni, si è tolto la vita il 6 gennaio, incastrando una camicia nella cerniera della porta del bagno di Rebibbia, a Roma. Non è stato il primo suicidio del 2014 nelle carceri italiane. Già nel pomeriggio del 3 gennaio, nell’istituto penitenziario di Ivrea, si era suicidato un uomo, anche lui italiano e di nome Francesco, più giovane di dieci anni. Ha attorcigliato un sacchetto dell’immondizia e lo ha fatto passare attraverso le sbarre del bagno interno alla cella, creando così un cappio. Poi ha infilato la testa e si è lasciato andare.
Queste prime morti sono parte di una serie che, lo dicono le statistiche da oltre un decennio, arriverà a una cifra oscillante tra le quaranta e le sessanta o, magari, le settanta unità nei prossimi dodici mesi.
Nel 2013, i suicidi in carcere sono diminuiti, 42 rispetto ai 56 dell’anno precedente a detta del Ministero. Secondo il dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti, invece, sono stati 49 e 60.
Tra i casi non registrati o catalogati come «incidente», quello di Denis Ronzato, 25 anni, morto il 23 aprile scorso a Castelfranco Emilia con una bomboletta del gas e un sacchetto. «Doveva essere scarcerato e ricoverato in una casa di cura, ma l’ordinanza del magistrato non era stata ancora eseguita», spiega l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. «Il ricovero del giovane, firmato da giorni dal magistrato di sorveglianza non è stato eseguito neppure quando, il 19 aprile, dopo il colloquio con i familiari, aveva dato segni evidenti di malessere psicofisico».
Tre giorni prima, anche lui non conteggiato dal Ministero, era morto asfissiato Rachid Ben Chalbi, nel carcere sardo di Macomer (Nu), dove aveva inalato il gas dai piccoli fornelli da campeggio a disposizione dei detenuti. Stava per essere sepolto senza alcuna comunicazione alla famiglia, né il rito prescritto dalla religione musulmana, alla quale Ben Chalbi apparteneva. L’impegno di alcuni attivisti per i diritti umani ha poi reso possibile il trasporto della salma in Tunisia.
Al di là dei conteggi (a cui andrebbero aggiunti 90 suicidi tra gli agenti penitenziari dal 2000 al 2013), nelle nostre carceri ci si ammazza con una frequenza 17/20 volte superiore a quella che si registra in Italia. Al contrario di quello che succede tra le persone libere, tra le sbarre la percentuale di suicidi è assai più elevata nei giovani tra i 24 e i 35 anni. Spesso si verifica nelle primi tempi dopo l’ingresso in carcere, quando l’impatto con un mondo di cui spesso si ignorano regole e linguaggi, codici e gerarchie, fa precipitare in uno stato di smarrimento che può portare al gesto estremo.
Ma si può “morire di carcere” anche per malattie non curate o situazioni inconciliabili con le condizioni di vita dietro le sbarre. Rosaria Iardini dell’Anlaids è convinta che «almeno il 70% delle persone sieropositive non ricevono cure corrette», mentre Francesco Ceraudo, presidente dell’Associazione dei medici penitenziari, ha definito il carcere una «fabbrica di handicap».
Nei casi di questi decessi in cella non sempre c’è trasparenza da parte del Ministero. Federico Perna, 34 anni, è morto a Poggioreale (Napoli) l’8 novembre scorso, per «collasso cardiocircolatorio». Racconta la madre Nobila Scafuro: «L’ho sentito al telefono l’ultima volta il martedì precedente, mi disse che perdeva sangue dalla bocca quando tossiva. Si trovava nel Padiglione Avellino, nella cella 6, assieme ad altre 11 persone. Federico non doveva restare in carcere, ma essere ricoverato in ospedale: aveva bisogno di un trapianto di fegato ed era stato dichiarato incompatibile con la detenzione da due diversi rapporti clinici, stilati dei Dirigenti Sanitari delle carceri di Viterbo e Napoli Secondigliano».
Invece era stato trasferito a Poggioreale, dove le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate: «Sputava sangue, letteralmente, e chiedeva il ricovero disperatamente da almeno dieci giorni lamentando dolori lancinanti allo stomaco. Abbiamo appreso della sua morte tramite la lettera di un compagno di cella, con il quale Federico aveva stretto amicizia. Non sappiamo nemmeno dove sia morto, perché le versioni sono diverse».
Successivamente, la magistratura ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Infine, due dati appena diffusi sul sovraffollamento, che spesso viene giustamente indicato come una delle condizioni del malessere dietro le sbarre. Al 31 dicembre, negli istituti penitenziari italiani erano recluse 62.536 persone, a fronte delle 65.701 alla stessa data del 2012.
Dal 2007 al 2013, i detenuti sono aumentati del 28% (14.000 persone): se l’incremento tra gli stranieri è stato circa del 20%, quello degli italiani è stato molto più elevato (+34%). Secondo i ricercatori della Fondazione Moressa, «dall’inizio della crisi i detenuti italiani sono aumentati con un ritmo molto più sostenuto rispetto a quello degli stranieri».
«Si può ipotizzare che la crisi economica e la conseguente crescita della disoccupazione, mentre nel caso degli stranieri spinge maggiormente a cercare fortuna in altri Paesi, per i nostri connazionali sfoci purtroppo spesso nell’illegalità. Resta il fatto che generalmente i detenuti stranieri finiscono in carcere per reati legati a condizioni di marginalità ed esclusione sociale, come furti e spaccio di stupefacenti».

Articolo pubblicato su Famiglia Cristiana.
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