I nuovi lavori, i contratti e l’occupazione
Tra la fine del 2014 e la seconda metà del 2015, con l’introduzione dei primi decreti legislativi che avrebbero poi costituito nei mesi a seguire il cosiddetto Jobs Act, si è registrato un cambiamento sostanziale nel mondo del lavoro italiano.
Promossa e poi attuata dal governo Renzi, questa manovra prende il nome da una legge statunitense emanata nel 2012 durante la presidenza di Barack Obama volta a tutelare le piccole imprese (Jumpstart Our Business Startups Act) e dalla quale è stato appunto distillato l’acronimo “JOBS” associato ad “Act”, anche se in Italia gli interventi sono stati estesi al mondo del lavoro in generale.
A distanza di più di tre anni dal primo decreto è lecito chiedersi come si sia evoluta la situazione lavorativa sul territorio italiano e, a tal proposito, i numeri forniti dai rapporti dell’INPS possono fare chiarezza sullo scenario che si è delineato in seguito alla messa in atto del Jobs Act.
Stando ai dati pubblicati sembra che per quanto riguarda il fronte dei nuovi lavori a tempo indeterminato, il 2017 abbia segnato un calo rispetto all’anno precedente che ha riguardato tutta e 20 le nazioni come dimostra il gradiente di colore verde che oscilla tra il -16,3% registrato in Umbria e il -0,4% del Trentino Alto Adige.
Da notare che buona parte del centro Italia è il fulcro principale in cui la flessione riguardante questa tipologia di lavoro ha fatto segnalare i valori più evidenti come dimostrano i numeri di Lazio (-15,5%), Marche (-14,4%) e Abruzzo (-13,5%) oltre alla già citata Umbria.
In generale, il lavoro a tempo indeterminato, a fronte dei più di due milioni di nuovi impieghi iniziati nel 2015, nei due anni seguenti ha fatto registrare un calo (1,27 milioni nel 2016 e 1,17 milioni nel 2017) a cui curiosamente fanno da contraltare le altre tre tipologie prese in esame dallo studio.
Anche considerando l’eccezione che riguarda l’anno 2016 per i lavori stagionali, in lieve decrescita rispetto al 2015, in tutti gli altri casi, i numeri indicano un trend in continuo aumento come nel caso dei nuovi contratti di apprendistato passati dai 177mila del 2015 ai 285mila del 2017, e di quelli a tempo determinato saliti dai 3,4 milioni nel 2015 ai 4,8 milioni nel 2017.
Confrontando i discostamenti percentuali del 2017 (in funzione del 2016) relativamente alle tre categorie non assimilabili ai contratti a tempo indeterminato, è piuttosto chiaro come la distribuzione dei nuovi posti di lavoro sia particolarmente eterogenea di regione in regione.
Se da un lato ci sono realtà come il Friuli Venezia Giulia e la Puglia che hanno registrato un aumento sempre attorno al 30% in ciascuna delle tre tipologie di contratto, dall’altro ce ne sono alcune che presentano tendenze diverse a seconda del tipo di lavoro.
È il caso ad esempio del Molise che con il 54,4% risulta essere la regione con l’incremento percentuale maggiore nell’ambito dei contratti a tempo determinato, mentre dal punto di vista dei lavori stagionali ha chiuso con un aumento di soli dieci punti percentuali, peggior dato su scala nazionale ad eccezione dell’Umbria (5,4%).
Interessante anche la situazione della Lombardia, notoriamente associata al centro del mercato del lavoro italiano, in cui l’aumento dei nuovi contratti di apprendistato (28,1%) si colloca tra i primi valori su scala nazionale a poca distanza da Sardegna, Puglia e Friuli Venezia Giulia, mentre per quanto concerne i nuovi contratti a termine e quelli stagionali, gli incrementi percentuali rispetto al 2016 risultano tra i più bassi d’Italia, rispettivamente fermi al 21,1% e 12,5%.