Va riequilibrato lo Stato sociale
Con il Governo attuale va riequilibrato lo Stato sociale, rendendolo accessibile alle varie generazioni.
Ricordiamo l’insegnamento di don Lorenzo Milani "non c’è peggiore ingiustizia che fare le parti uguali fra diseguali". La celebre affermazione fatta dal Prete di Barbiana circa 50 anni fa è ancora valida. A ciò dobbiamo aggiungere che la crescita e lo sviluppo economico, che hanno interessato ampie fasce di popolazione italiana nei decenni scorsi, hanno ulteriormente aumentato le disuguaglianze sociali nei cittadini perché hanno prevalso le spinte corporative, con la quasi assenza dello Stato.
Quando fu scoperchiato il tetto del limite massimo retributivo e pensionistico si è favorito, sine dies, coloro che già erano avvantaggiati, aumentando le disparità. Quando furono concesse pensioni di anzianità, magari integrate al trattamento minimo, come lo fu per i coltivatori diretti oltre venti anni fa senza controlli rigorosi della ricchezza patrimoniale dei destinatari, si è accordato un beneficio per i lavoratori autonomi ancora relativamente giovani ed in attività lavorativa, molto superiore rispetto al valore dei contributi versati, con un onere a carico di tutta la collettività.
Questi vari privilegi concessi a suo tempo, le cui conseguenze sotto l’aspetto economico continuano fino all’esaurimento delle rispettive pensioni, hanno svuotato le casse dell’INPS, anche perché le entrate contributive si riducono sempre ulteriormente. Coloro che, con tante difficoltà, riescono ad accedere alla pensione, oggi e nel futuro, avranno un ritorno pensionistico molto inferiore rispetto a coloro che hanno beneficiato, e beneficiano tutt’ora delle norme legislative più favorevoli. Ma il peggio arriverà nei prossimi decenni; per scarsità di lavoro, calo dei contributi e il sistema di calcolo più penalizzante.
Di fronte a questa realtà di pesanti ingiustizie il Governo Monti era intervenuto per stabilire un contributo di solidarietà da parte di coloro che superano 90.000 euro di reddito annuo. Ma la Consulta pare che intenda bocciare la decisione governativa, e così le prospettive di trattamenti economici equiparati, a prescindere dall’anzianità delle persone, diventeranno sempre più nebulose, accentuando le divisioni sociali fra generazioni.
Con l’aumento della durata media della vita e l’innalzamento dell’età pensionabile in genere diventa razionale modificare tutte le norme legislative che hanno previsto il 65° anno quale traguardo per ottenere le varie esenzioni, ed accedere all’assegno sociale o altre eventuali prestazioni, nonché il passaggio dall’assegno di invalidità civile alla pensione sociale. Devo ricordare che nel lontano 1972 iniziavo a svolgere, e per circa trent’anni, il ruolo di operatore sociale presso il Patronato delle Acli. Pertanto mi sono cimentato subito con la legge 153 del Maggio 1969 e la 118 del Marzo 1971. In particolare quest’ultima voleva essere un completamento della risposta sociale, da parte dello Stato, con le sue articolazioni periferiche, per quanto riguardava gli invalidi civili, ossia quelle persone nate e cresciute con una forte riduzione della capacità lavorativa e quindi di guadagno.
Nei decenni successivi è stato fatto un uso “disinvolto” dell’assegno di invalidità civile, originariamente previsto per situazioni molto particolari.
Voglio qui inserire un invito affinché si cerchi di porre fine allo scandalo per falsi invalidi o ciechi, di cui veniamo a conoscenza troppo tardivamente.
Già con una verifica della quantità di assegni o pensioni di invalidità posti in pagamento si dovrebbe capire che in moltissimi casi i titolari percepiscono pure un trattamento pensionistico per contributi versati all’Inps.
Ma poiché la verifica individuale richiede dei controlli a tappeto per poter scoprire le irregolarità, credo si debba adottare una norma coercitiva nei confronti di medici o commissioni sanitarie che dichiarino o convalidino delle falsità soggettive di qualsiasi persona. La legge deve essere severa e prevedere la restituzione, con interessi, di prestazioni non dovute, ma pure la radiazione da ogni albo di responsabili sanitari che hanno determinato la truffa a carico dell’Ente previdenziale o Assistenziale.
Oltre a voler estirpare la corruzione, credo sia necessario rivedere la sostenibilità di una norma partita nel 1971 per rispondere a particolari circostanze, di cui nei decenni successivi si è fatto un uso alquanto “disinvolto” e senza specifici controlli di spesa.
Lo stesso passaggio all’INPS come Ente erogatore di tali provvidenze ha portato a non distinguere le pensioni di invalidità poste in pagamento in virtù dei contributi versati, o accreditabili per l’inabilità del soggetto richiedente e quelle prive di una base contributiva.
Di controverso, non dimentichiamo che il Fondo nazionale per la non autosufficienza e le politiche sociali in genere sono a secco, e pertanto sono divenuti insignificanti i servizi che venivano offerti ai cittadini in particolari situazioni di bisogno attraverso i Piani sovra comunali a livello di Distretti sanitari.
In ogni caso, il “tetto dei 65 anni per essere considerati anziani ad ogni effetto, compreso il più favorevole limite di reddito per ottenere l’esenzione alla partecipazione della spesa sanitaria, dovrà essere elevato gradualmente a 70 anni.
Lo esige il fatto che la durata media della vita è radicalmente cambiato negli ultimi decenni, ma anche rispetto alla percentuale di popolazione giovane che si è ridotta notevolmente, e che per ovvi motivi non può supportare dei costi economici sproporzionati.
Il grado di partecipazione alla spesa socio-sanitaria dovrà avvenire sulla base del reddito complessivo disponibile del nucleo familiare e meno per motivi anagrafici.
Infine, per un senso di equità ritengo si debbano adottare norme legislative che permettano il recupero dei costi socio sanitari, nella percentuale stabilità dalla legge, anche per gli incapienti.
E’ l’esempio di una persona che sostiene una spesa per il dentista di euro 3000. Se ha avuto un reddito medio alto può riavere il 19 % di rimborso da parte del fisco. Lo stesso se è fiscalmente a carico di qualcuno (coniuge o genitore). Ma se, tale persona, ha percepito 6 mila euro di pensione ed il coniuge ha pure contribuito con la spesa sanitaria né l’uno né l’altro dei coniugi può avere alcun rimborso.
Va stabilito per legge che il rimborso può essere concesso direttamente o al coniuge attraverso una denuncia documentata dei redditi posseduti e delle spese fatturate. Avremo sanato una pesante ingiustizia.