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Merito,moda sbagliata

Written by Francesco Bizzotto.

Francesco Bizzotto
Articolo pubblicato da Movimenti Metropolitani.

Cosa non va nell’arte grande (la prima carità – Paolo VI) del fare Politica oggi? Direi soprattutto il professionismo (la politica come carriera), e un certo ruolo separato, regolatore, super partes, privo di rischi, dello Stato, delle pubbliche Istituzioni e dei concreti soggetti chiamati a gestirle. Il professionismo politico mostra sempre più spesso il suo lato patologico, mentale (un calcolo solo razionale, limitato): l’incompetenza. Mentre perde peso il racconto ideologico, che prefigura, servirebbe una progettualità nuova, intessuta di ideali e creatività, fatta da organizzazioni politiche un po’ verticali, per passioni, ricerche, competenze.
Non ci siamo. Intanto, il vero tabù è il ruolo dello Stato. Ha a che fare con il Merito, dirò, che sembra il rimedio e invece è la santificazione del male sociale, di separazioni e ingiustizie. Vediamo. Penso che le Istituzioni (lo Stato) devono recuperare un ruolo di mediazione alta, a rischio, per favorire dinamiche utili (etiche, economiche e sociali): indicare l’orizzonte, proporre un cammino, indirizzare. E rischiare il consenso sostenendo progetti, motivandoli e favorendoli fiscalmente. In modo aperto – alla Trump –, per poter essere valutate, pesate. In altri termini: il problema è amministrare o governare, distribuire o creare risorse? Possiamo accontentarci di quel che siamo e abbiamo, oppure no? Pensiamo alla questione cardine: l’economia, le imprese, il lavoro. Basta che organizziamo meglio la distribuzione di quel che c’è e si fa (allora è sufficiente riconoscere i meriti, premiare le conoscenze, le capacità – un dato espresso e isolabile), oppure è decisivo favorire insieme dinamiche creative e produttività latenti, un positivo con-correre, il massimo vantaggio evolutivo, ovvero l’innovazione continua di prodotto e di processo? “Il vero problema di oggi non è premiare i meritevoli, ma portare il maggior numero di persone in condizione di realizzare il massimo delle loro potenzialità.” Così Salvatore Natoli (filosofo milanese – 1942) su Il Sole 24 Ore del 18.02.2010. Puntare sul potenziale significa offrire chance di ruolo (possibilità, occasioni, rischi), tenere aperti i giochi, pensare davvero alla crescita possibile. Fare mobilità attiva e positiva. E giustizia sociale. Allora si premia il merito. Senza politiche di mobilità sociale ci si premia. Lo dice bene Michael Walzer ne Il filo della politica (ed. Diabasis, ’02, p. 91): “Poiché la società civile, lasciata a se stessa, ingenera rapporti di potere radicalmente disuguali, che solo il potere dello stato può sfidare (…) lo stato non può mai essere, come appare nella teoria liberale, una mera struttura per la società civile. E’ altresì strumento di lotta, usato per dare una forma particolare alla vita comune.” Ai liberali vien da dire: siamo oltre il ‘900. In concreto? Parliamo di lavoro. Sul Corriere (editoriale del 22 febbraio.) Alesina e Giavazzi attaccano la Sinistra della conservazione con esempi calzanti. Sul lavoro dicono: “La sinistra tradizionale si è sempre opposta a qualunque riforma rendesse più flessibile la licenziabilità e quindi l’assunzione di nuove leve. Era una politica che proteggeva i lavoratori anziani a scapito dei giovani. (…) Il Jobs act, cancellando l’art. 18 (…) ha impresso una svolta storica al nostro mercato del lavoro.” Una volta, flessibile era il lavoro. Adesso, la licenziabilità. Potenza del linguaggio. Giovani contro anziani: si tratta di distribuire il lavoro? Di premiare i giovani, bravi, laureati? Alesina e Giavazzi fanno qui un’operazione mentale, senza dire che del Jobs act fa parte anche l’Agenzia nazionale per le Politiche attive, istituita con il D.Lgs. 150/15 e azzoppata dal Referendum che ha confermato il potere delle regioni (di fare fumo, ammuina, sulle Politiche attive). E non dicono che Germania e Gran Bretagna fanno 10 volte più di noi su questo decisivo strumento di presa in carico e accompagnamento dei giovani inoccupati, dei precari e dei lavoratori scontenti o fuori posto, comunque bloccati alla catena, in un modo stupido e indegno. E non dicono che Milano ha investito molti milioni sulla sua Agenzia metropolitana del lavoro AFOL, che è pronta e sta andando in fumo perché tutti guardano da altre parti (fanno operazioni mentali). E poi piacerebbe sapere cosa pensano della riforma delle Camere di commercio (fatta da Renzi) che impegna le imprese a contribuire alle Politiche attive del lavoro. Perché ha il freno tirato? Forse perché la mobilità del lavoro (in positivo: per tutti, non solo per licenziati e sfigati) introdurrebbe subito un maggior tasso di concorrenza nel fare impresa (concorrere per accaparrarsi il capitale umano migliore)? Non sarebbe un bel passo avanti? E ai molti liberali (mentali) del nostro tempo chiedo: il futuro del fare impresa e mercato non dovrà essere un complesso e intenso lavorare in gruppo, ben oltre l’inservibile dinamica piramidale del comando e dell’esecuzione? Papa Francesco indirizza la Chiesa e la stessa idea di Dio verso la centralità della relazione (azione reciproca). Non dice niente? E a Milano? C’è un solo modo per uscire dal pantano e realizzare la Città metropolitana: fare reti di Municipi e servizi, e indirizzare tutti i livelli di amministrazione a operare in gruppo, non isolati. A partire dai Sindaci. Si risparmia un miliardo l’anno, si vedono meglio i problemi, si taglia di netto la corruzione e non si licenzia nessuno, perché si rilancia il ruolo delle PA (oggi in discredito). Basta e avanza per fare Politiche attive del lavoro e altro. E i partiti? Non dovrebbero discutere e dividersi su queste cose? Non lo fanno per via del primo problema indicato: il professionismo politico. Chi fa politica è indotto più a tenere d’occhio il posto che a lasciare un segno bello e giusto del suo passaggio.
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