Populismo e popolo
Articolo pubblicato da Il Giornale dei Lavoratori.
La definizione più convincente del populismo come ideologia politica è stata data alcuni anni fa da due politologi britannici, Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell, che lo hanno definito come «una ideologia secondo la quale al “popolo” (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle “élite” e una serie di nemici che attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del “popolo sovrano”».
Da notare che in questa concezione il “popolo” viene concepito come una massa indistinta, nel senso che ogni sfumatura relativa a distinzioni di classe o di territorio o di appartenenza religiosa viene sostanzialmente ignorata in quanto il prenderla in considerazione impedirebbe che il messaggio giungesse omogeneamente a tutti gli strati sociali. Il populismo può quindi avere, per così dire, una connotazione “di sinistra” perché il suo messaggio antielitario ha evidenti sfumatura polemiche nei confronti delle classi sociali più alte. Esso tuttavia non contiene mai un messaggio dichiaratamente anticapitalistico, in quanto non mette in discussione il sistema economico ma le sue distorsioni e vira spesso nella dimensione del complottismo, della descrizione di scenari segreti, estranei alla discussione pubblica, per cui ad esempio si fa un gran parlare di Trilaterale e di Gruppo Bilderberg, ma si ignorano le cause strutturali della crisi economica e sociale che richiederebbero un approccio scientifico più rigoroso e anche una maggiore selettività nella scelta dell’uditorio cui rivolgersi, essendo evidente che gli interessi di una classe sociale sono diversi da quelli di un’altra, e spesso sono anzi divergenti. Una formazione politica tacciata non a torto di “populismo” come il Movimento Cinque Stelle italiano fa delle affermazioni che possono sembrare di sinistra, ma è stata oltremodo reticente su questioni come le unioni civili e l’immigrazione, poiché si propone di prendere i consensi anche di quelle fasce sociali che non amano né i gay, né gli immigrati.
Tipica è anche la tendenza a travisare sistematicamente i fatti in modo da creare avversari fittizi contro cui indirizzare l’indignazione popolare: il caso più classico è quello dell’Unione europea, che viene costantemente dipinta come una sorta di mostro burocratico privo di un indirizzo politico preciso e soprattutto espressione della volontà popolare, e quindi naturalmente strumento di tenebrose forze che mirano ad impoverire e censurare il “popolo”. Il dato reale invece è che l’Unione europea è un soggetto istituzionale complesso che dipende da una doppia legittimazione democratica, una espressa direttamente dal Parlamento europeo votato da tutti i cittadini dell’Unione, l’altra di tipo indiretto costituita dal Consiglio europeo che è formato dai Governi degli Stati membri, i quali tutti vengono eletti in base a procedure democratiche e sono quindi espressioni dei loro rispettivi elettorati. La Commissione poi è sì nominata dai Governi nazionali, ma la fiducia le viene accordata dall’Europarlamento che può anche negarla o revocarla. Si aggiunga – ma si fa finta di non saperlo – che dal 2009 in poi l’ambito decisionale del Parlamento è aumentato, non diminuito e ad esso spettano la ratifica dei trattati transnazionali (come il famoso, o famigerato, TTIP) ovvero l’approvazione o la bocciatura in toto del bilancio dell’UE. Quanto alla cosiddetta egemonia tedesca essa è data dai fatti, non è certo un dato strutturale e potrà essere capovolta in futuro, e l’isolamento in cui venne posta la Grecia nell’estate del 2015 non dipese dalla paura di bombardamenti della Luftwaffe sulle capitali europee ma dalla convergente volontà degli altri Governi di costringere i loro colleghi di Atene ad assumersi la responsabilità del disastro della loro economia.
E’ sintomatica di una certa cultura populista anche una certa dose di irresponsabilità: il fatto che i tre principali artefici della cosiddetta Brexit – il Premier Cameron che varò a cuor leggero un referendum pericoloso, il suo rivale interno Boris Johnson e il leader nazionalista Nigel Farage – abbiano, nel giro di breve tempo, abbandonato le loro cariche o rinunciato alle candidature e che i parlamentari laburisti abbiano clamorosamente sfiduciato il loro leader Jeremy Corbyn per l’evidente debolezza della sua campagna pro UE. In sostanza, spesso il populista, che è abilissimo nella pars destruens, condotta generalmente con le armi del sarcasmo, dell’invettiva e della menzogna, si trova a disagio con la pars construens, giacché dopo aver promesso vagamente un indefinito Paese di Bengodi deve farsi carico delle durezze della realtà amministrativa, e si scopre che in realtà l’aspirazione di fondo del movimento populista e del suo leader è quello di ghermire il potere, poi si vedrà. In questo senso il populismo non è affatto antipolitico, in quanto si pone esplicitamente sul piano della politica – e la conquista e l’esercizio del potere sono per l’appunto il tema di fondo e la ragion d’essere della politica – ma di fatto basa le sue fortune sul discredito della politica tradizionale, del gioco dei partiti, di quelli che sembrano essere i privilegi della classe politica. Non è un caso che le fortune del Movimento Cinque Stelle in Italia siano state precedute da ossessive campagne contro i privilegi, le ruberie e gli sprechi della “casta” politica in cui accanto ad alcuni dati di fatto si mischiavano molte esagerazioni e diverse deliberate menzogne, e si sia taciuto sistematicamente su altre “caste” altrettanto privilegiate, se non più, a partire dai proprietari delle case editrici di certi libri e di certi giornali.
Altra caratteristica del populismo è un certo disinteresse alla forma legale: non è un caso che lo Statuto albertino e la Costituzione di Weimar siano rimaste formalmente in vigore durante il fascismo ed il nazismo, perché tanto il potere reale era altrove e la gerarchia delle fonti era cambiata, come indicava chiaramente Carl Schmitt ponendo come norma fondamentale del diritto tedesco la volontà del Führer. Lo stesso Hitler dichiarava che l’obiettivo finale era quello di passare da un Rechtsstaat (Stato di diritto) ad un Volkstaat (Stato del popolo) in cui il richiamo alla categoria indistinta del popolo serviva a meraviglia per creare un legame diretto fra la volontà del Capo e quella del popolo stesso, da cui venivano aprioristicamente esclusi tutti coloro che il Capo dichiarava nemici, nel caso specifico in primo luogo gli ebrei e a discendere tutti i dissenzienti.
Ad un livello meno drammatico, una simile tendenza alla duplicità giuridica è riscontrabile anche nei Cinque Stelle, laddove le regole interne al Movimento, stabilite secondo criteri che sono il contrario della trasparenza, vengono considerate più obbliganti delle leggi della Repubblica, al punto tale che nella recente formazione della Giunta comunale di Roma la responsabilità della nomina degli Assessori, o di parte di essi, e dei vertici della struttura tecnica è stata di fatto sottratta al Sindaco Virginia Raggi, cui spetterebbe per legge, ed è stata invece rivendicata dagli organismi informali – perché non legittimati da alcuna votazione interna in assenza di uno Statuto sociale – del M5S e dallo stesso leader nazionale Beppe Grillo.
E tuttavia il populismo ha una forza intrinseca, che gli deriva dal fatto di presentarsi come soggetto estraneo alla gestione del potere, all’establishment di governo, e di dar voce a sentimenti popolari reali, per quanto deformati e talvolta sbagliati, che attualmente (ma non è sempre stato così?) sono riconducibili all’insicurezza economica e alla paura del diverso, nella fattispecie dello straniero che si presenta con il volto dell’immigrato o del profugo (e l’immigrazione, ammonisce l’antropologo Marco Aime, non è più un’emergenza, ma un fattore strutturale, una tendenza di lungo periodo che chissà quando verrà invertita, se mai lo sarà). Il populismo, si dice, non ha risposte concrete contro l’esclusione sociale e per il rilancio dell’economia, ed è verissimo, poiché pretende di mettere fra parentesi il dato storico della globalizzazione e della riscrittura dell’economia e della società che essa ha operato. E tuttavia l’assunzione da parte della politica tradizionale del linguaggio proprio dell’establishment la mette in condizione di pericolosa debolezza, soprattutto se è accompagnata da frequenti scandali riguardanti veri o presunti abusi di esponenti politici.
Il ragionamento, la ricerca scientifica contro i magismi, l’approfondimento contro l’emotività e la superficialità sono certo cose importanti, ma rimarranno impotenti se non si sostanziano con la presa d’atto della frattura sociale in corso e della necessità di superarla rimanendo al di qua del discorso populista. E’ certo faticoso, ma non c’è altro che si possa fare.