Kamala Harris unisce l’America dei diritti
Articolo di Repubblica.
Le bandierine con i colori delle tribù native-americane del Nebraska, i cappellini blu luminosi dei delegati dello Stato di Washington, le camicie sgargianti delle Isole Vergini e la danza continua degli eletti della Georgia: sono i mille volti del parterre dello United Center di Chicago a descrivere l’identità della Convention democratica e quindi anche della coalizione elettorale con cui Kamala Harris vuole conquistare la Casa Bianca.
Basta uno sguardo per rendersi conto che la componente più numerosa e carica di energia è quella delle donne. Giovani e anziane, ispaniche e asiatiche, afroamericane e bianche, impiegate e manager, elette ed elettrici sono ovunque: sul palco e sugli spalti. Si riconoscono nella giovane Hadley Duvall del Kentucky, che racconta di essere stata stuprata a 12 anni dal patrigno che la mise incinta, si emozionano per Kate Fox obbligata a lasciare il Texas per abortire quando annuncia di aspettare di nuovo un figlio, si identificano con la definizione di Alexandria Ocasio-Cortez «noi lavoriamo per vivere» e hanno le leader indiscusse in Hillary Clinton e Michelle Obama.
Le due ex First Lady sono portatrici di modelli, messaggi tanto diversi quanto complementari. Hillary è stata la prima donna candidata presidente, fu sconfitta da Trump nel 2016, racconta dal palco la battaglia per i diritti delle donne in America dal periodo in cui non esistevano - «quando mia madre nacque qui a Chicago 104 anni fa» - fino alla sfida di Harris, ripetendo il motto “Keep going” - andate avanti - che trascina gli oltre 4600 delegati accompagnandoli con la forza della Storia all’appuntamento con l’Election Day.
Michelle invece parla da leader indiscussa. Con il messaggio sulla “speranza contro la paura” rilancia in avanti il motto che portò il marito Barack a diventare il primo afroamericano nello Studio Ovale, indicando nella «dignità un valore della democrazia» fa appello al ruolo delle donne nel trainare partner e famiglie di ogni tipo, ed equiparandosi a Kamala, «perché siamo simili», punta a spingere il popolo che si riconosce in lei «ad andare tutti, ma proprio tutti, alle urne perché è inutile nasconderci che l’esito dipenderà da pochi voti». Ecco perché è l’appello a “democratici, repubblicani ed indipendenti” quello che conta di più perché - ripetuto anche da Barack - descrive il cuore della campagna di Harris: creare dal basso una coalizione di americani, di ogni estrazione politica, determinati a unirsi per «rilanciare in avanti libertà e democrazia» impedendo a Donald Trump di «far prevalere la paura e farci tornare indietro». Come riassume la texana Jasmine Crockett: «Lo scontro è fra il sogno americano e l’incubo americano».
Se le donne sono la forza trainante della coalizione multietnica e bipartisan con cui Kamala Harris vuole diventare la prima presidente della storia americana, il secondo strategico tassello è la classe media. Per questo la Convention si svolge a Chicago «dove la classe media è nata» dice il governatore J.B. Pritzker, disegnando l’agenda delle priorità della famiglia media: salute, salari, diritti. È un approccio che affianca e sovrappone diritti civili e diritti economici: una ricetta contro le diseguaglianze basata sull’importanza di migliorare la qualità della vita della grande maggioranza della popolazione.
Tim Kaine, il senatore della Virginia che fu candidato vice di Hillary, lo dice così: «Trump vuole solo i tagli fiscali a favore dei miliardari, per i democratici invece la priorità è far crescere l’economia affinché tutti possano vivere in modo migliore». Nella campagna del 2007 Obama scelse Joe Biden, senatore del Delaware, come vice per rivolgersi alla classe media, Kamala ora ripete la scelta con Tim Walz, governatore del Minnesota. Ed è per consolidare questo messaggio «centrista lontano dagli estremismi», come lo definisce un operativo della campagna di Harris, che Bill Clinton chiude la terza giornata all’Union Center con l’appello all’“unità”.
Essere uniti significa parlare al centro, rivolgersi al pubblico più grande possibile. Come riassume Barack Obama: «Il contrasto è fra Trump che pensa solo a se stesso e noi che pensiamo all’America intera». Steve Kerr, super campione di basket, già a casa sul campo dello United Center con Michael Jordan e anche ex allenatore del Team Usa, ricorre all’espressione con cui Stephen Curry ha battuto la Francia nella finale di Parigi, per descrivere ciò che unisce il popolo democratico: «Night, Night Trump», mandiamo a dormire Trump.
Questo significa rivolgersi a tutti quei repubblicani e quegli indipendenti che, per le ragioni più differenti, non si riconoscono nel movimento “Make America Great Again” di Trump. Per questo il governatore del Kentucky, Andy Beshear, evoca la scelta di Abramo Lincoln — che era repubblicano — di «sfidare gli estremisti», che pur di difendere la schiavitù dei neri innescarono la guerra di secessione, e Franklin Delano Roosevelt che «sfidò il fascismo» entrando nella Seconda guerra mondiale a dispetto degli isolazionisti a oltranza. Pritzker, Kaine, Beshear e Clinton sono tutti uomini bianchi e anche questo è un elemento strategico della campagna perché è il settore dell’elettorato dove i repubblicani sono in maggiore vantaggio. È l’identità stessa dei delegati a descrivere i Democrats come il partito delle mille diversità d’America: di genere, di fede, di origine, per il colore della pelle e anche per la fede politica. Sale sul palco perfino Stephanie Grisham, l’ex vice portavoce di Trump che abbandonò il tycoon dopo l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021: «Ero una delle più strette collaboratrici di Trump, la sua famiglia era diventata la mia ma poi ho capito che non ha alcuna morale, crede solo in ciò che gli fa più comodo in quel preciso momento. Per questo sono stata la prima ad andarmene quel 6 gennaio e ora sono qui perché amo il mio Paese ancor più del mio partito». Il volto delle minoranze invece è quello di Maxwell Frost, 27 anni, il più giovane deputato a Capitol Hill, che declina l’essere afroamericano nella battaglia più liberal: «Il diritto alla casa». Il tema del diritto all’abitazione per i più poveri è il collante fra afroamericani e ispanici. Non a caso da quando Biden ha gettato la spugna il sostegno degli ispanici per i Democrats è balzato dal 52 al 58 per cento. È un tema che tocca i giovani, le coppie appena sposate e la lotta contro i prezzi alti. Solo riuscendo a portare a votare il numero più alto possibile di questi votanti, si può vincere nell’Election Day. Michelle lo spiega con queste parole: «Non ci sono scuse, non aspettate che qualcuno vi contatti, dovete essere voi a registrarvi e votare».
Se Kamala punta a diventare la prima presidente donna grazie a una coalizione che rilancia “forward” — in avanti — l’eredità di Hillary e Barack, ciò che più la minacciava era lo scenario di un assise a Chicago nel 2024 teatro di gravi disordini di piazza come avvenne nel 1968. Per disinnescare il pericolo il team Harris si è mobilitato in maniera capillare. Il primo passo è stato nella narrazione: «Nel 1968 c’era la guerra in Vietnam, morivano migliaia di americani, Gaza è una grave crisi ma non è il Vietnam». Poi è sceso in campo il sindaco per arginare le proteste pro-Gaza. L’afroamericano Brandon Johnson viene dalla base più liberal, conosce di persona molti dei leader più giovani e ha convinto i manifestanti a riunirsi lontano dallo United Center, riuscendo a scongiurare grandi rally. E dentro la Convention tutti i portavoce dell’ala più progressista - dalla deputata di New York Ocasio-Cortez al senatore del Vermont Bernie Sanders - hanno fatto proprio il linguaggio di Harris in favore di «cessate il fuoco e liberazione degli ostaggi» senza cedere alle richieste dei circa 40 delegati uncommitted con la kefiah che chiedevano la fine degli aiuti - non solo militari - a Israele. Ecco perché Abbas Alawieh, voce di spicco degli uncommitted, accusa senza mezzi termini la Convention di «non averci fatto parlare dal palco».
E quando, durante il discorso di Biden, i delegati pro-Gaza hanno tirato fuori uno striscione di protesta sono stati subissati da grida «Thank You, Joe» mentre la sicurezza sequestrava le scritte. Il tutto in una cornice dove Chuck Schumer, capo dei senatori democratici, ha guidato la Convention nella più ferma condanna dell’antisemitismo - imputandolo ai suprematisti filo Trump - e il marito di Harris, Doug Emhoff, ha descritto così il legame con la moglie sposata dieci anni fa: «Abbiamo fedi diverse, io vado in chiesa con lei e passo il Natale con la sua famiglia e lei viene il sabato in sinagoga con me e fa la cena del Seder con la mia famiglia, niente è più lontano di lei dall’antisemitismo». La lunga fila, di ebrei e non, davanti al carretto degli hot dog kasher, a pochi metri di distanza dalle postazioni dei delegati pro-Gaza riassume cosa sta avvenendo. Harris vuole includere le proteste pro-Gaza nella coalizione, anche perché danno voce alla minoranza arabo-americana in Stati in bilico come il Michigan, ma le spinge a convivere con un partito che, dai tempi di Franklin Delano Roosevelt, raccoglie la grande maggioranza del voto dei quasi sei milioni di ebrei americani.
Riconoscendosi nelle parole di Debbie Wasserman Schultz, deputata della Florida ed ex presidente del Democratic National Committee: «La priorità è essere uniti e sconfiggere Trump, Israele ha diritto a difendersi e Hamas è un’organizzazione terrorista». Per questo quando alcuni militanti pro-Gaza interrompono un’intervista tv di Nancy Pelosi chiedendole perché non boicottare lo Stato ebraico, la risposta della combattiva ex Speaker della Camera dei Rappresentanti è immediata e cristallina: «Israele ha diritto di difendersi». In realtà la vera concessione fatta da Harris ai pro-Gaza è stata politica: rinunciare a Josh Shapiro, governatore ebreo della decisiva Pennsylvania, come candidato vice in contrasto con quanto fece Al Gore nel 2000 scegliendo di avere a fianco Joe Lieberman.
È un approccio a Israele e alla crisi in Medio Oriente che tenta, anche qui, di tenere in bilico l’eredità moderata di Clinton e quella più progressista di Obama. Spiegando quanto dice dal palco Bernie Sanders, che ama definirsi socialista, quando rivendica: «Noi rappresentiamo i progressisti, abbiamo avuto in Biden il nostro presidente e ora dobbiamo stare dentro il partito democratico come in Europa si sta nelle coalizioni politiche composte da partiti differenti».
Per il resto sono i cartelli dei delegati a descrivere l’energia di un popolo democratico che crede nel motto «We Fight, We Win», si riconosce nella definizione di Kamala “gioiosa combattente” — coniata dal marito Doug — e balla senza interruzione sulle note del rapper Lil Jon, nato ad Atlanta, che quasi divora il microfono gridando: «We’re not going back!», non torneremo indietro agli anni di Trump. Il tutto in un costante richiamo al «valore della libertà» e alla «difesa della democrazia» indicate da Joe Biden come i motivi fondamentali «per impedire a un individuo come Trump di essere, né domani né mai, presidente, comandante in capo e leader del mondo libero». La voce rauca e stanca del presidente uscente, che nella prima serata dei lavori ha parlato per oltre un’ora per rivendicare con orgoglio i risultati dell’amministrazione «più progressista di sempre» - come la definisce Bernie Sanders - ha segnato il momento di passaggio del testimone a Kamala. Ritmicamente confermato in più momenti dei lavori perché il parterre dei delegati appena sente un riferimento a Biden reagisce d’istinto ritmando il canto in crescendo «Thank You, Joe». Che è poi anche una maniera per sottolineare la fedeltà alle origini del partito che Lyndon B. Johnson con il Civil Rights Act del 1964 trasformò nel protagonista delle battaglie dei diritti civili, rompendo con i nostalgici del segregazionismo negli Stati del Sud.
In ultima istanza è proprio questa la maggiore differenza fra la Convention di Milwaukee e quella di Chicago: Trumpguida un movimento popolare basato sulla sua personalità in aperta rottura con il Partito repubblicano del recente passato, mentre Harris è la candidata di una coalizione che richiamandosi all’identità del Partito democratico vuole allargare la coalizione tradizionale, composta da donne e minoranze, per includervi il numero più grande possibile di cittadini americani. Ecco perché se la scommessa di Harris avrà successo, il laboratorio delle innovazioni americane consegnerà alle altre democrazie non solo la prima donna “Commander in Chief” ma anche una formula politica bipartisan basata sull’inclusività per rigettare populismo e sovranismo.
Le bandierine con i colori delle tribù native-americane del Nebraska, i cappellini blu luminosi dei delegati dello Stato di Washington, le camicie sgargianti delle Isole Vergini e la danza continua degli eletti della Georgia: sono i mille volti del parterre dello United Center di Chicago a descrivere l’identità della Convention democratica e quindi anche della coalizione elettorale con cui Kamala Harris vuole conquistare la Casa Bianca.
Basta uno sguardo per rendersi conto che la componente più numerosa e carica di energia è quella delle donne. Giovani e anziane, ispaniche e asiatiche, afroamericane e bianche, impiegate e manager, elette ed elettrici sono ovunque: sul palco e sugli spalti. Si riconoscono nella giovane Hadley Duvall del Kentucky, che racconta di essere stata stuprata a 12 anni dal patrigno che la mise incinta, si emozionano per Kate Fox obbligata a lasciare il Texas per abortire quando annuncia di aspettare di nuovo un figlio, si identificano con la definizione di Alexandria Ocasio-Cortez «noi lavoriamo per vivere» e hanno le leader indiscusse in Hillary Clinton e Michelle Obama.
Le due ex First Lady sono portatrici di modelli, messaggi tanto diversi quanto complementari. Hillary è stata la prima donna candidata presidente, fu sconfitta da Trump nel 2016, racconta dal palco la battaglia per i diritti delle donne in America dal periodo in cui non esistevano - «quando mia madre nacque qui a Chicago 104 anni fa» - fino alla sfida di Harris, ripetendo il motto “Keep going” - andate avanti - che trascina gli oltre 4600 delegati accompagnandoli con la forza della Storia all’appuntamento con l’Election Day.
Michelle invece parla da leader indiscussa. Con il messaggio sulla “speranza contro la paura” rilancia in avanti il motto che portò il marito Barack a diventare il primo afroamericano nello Studio Ovale, indicando nella «dignità un valore della democrazia» fa appello al ruolo delle donne nel trainare partner e famiglie di ogni tipo, ed equiparandosi a Kamala, «perché siamo simili», punta a spingere il popolo che si riconosce in lei «ad andare tutti, ma proprio tutti, alle urne perché è inutile nasconderci che l’esito dipenderà da pochi voti». Ecco perché è l’appello a “democratici, repubblicani ed indipendenti” quello che conta di più perché - ripetuto anche da Barack - descrive il cuore della campagna di Harris: creare dal basso una coalizione di americani, di ogni estrazione politica, determinati a unirsi per «rilanciare in avanti libertà e democrazia» impedendo a Donald Trump di «far prevalere la paura e farci tornare indietro». Come riassume la texana Jasmine Crockett: «Lo scontro è fra il sogno americano e l’incubo americano».
Se le donne sono la forza trainante della coalizione multietnica e bipartisan con cui Kamala Harris vuole diventare la prima presidente della storia americana, il secondo strategico tassello è la classe media. Per questo la Convention si svolge a Chicago «dove la classe media è nata» dice il governatore J.B. Pritzker, disegnando l’agenda delle priorità della famiglia media: salute, salari, diritti. È un approccio che affianca e sovrappone diritti civili e diritti economici: una ricetta contro le diseguaglianze basata sull’importanza di migliorare la qualità della vita della grande maggioranza della popolazione.
Tim Kaine, il senatore della Virginia che fu candidato vice di Hillary, lo dice così: «Trump vuole solo i tagli fiscali a favore dei miliardari, per i democratici invece la priorità è far crescere l’economia affinché tutti possano vivere in modo migliore». Nella campagna del 2007 Obama scelse Joe Biden, senatore del Delaware, come vice per rivolgersi alla classe media, Kamala ora ripete la scelta con Tim Walz, governatore del Minnesota. Ed è per consolidare questo messaggio «centrista lontano dagli estremismi», come lo definisce un operativo della campagna di Harris, che Bill Clinton chiude la terza giornata all’Union Center con l’appello all’“unità”.
Essere uniti significa parlare al centro, rivolgersi al pubblico più grande possibile. Come riassume Barack Obama: «Il contrasto è fra Trump che pensa solo a se stesso e noi che pensiamo all’America intera». Steve Kerr, super campione di basket, già a casa sul campo dello United Center con Michael Jordan e anche ex allenatore del Team Usa, ricorre all’espressione con cui Stephen Curry ha battuto la Francia nella finale di Parigi, per descrivere ciò che unisce il popolo democratico: «Night, Night Trump», mandiamo a dormire Trump.
Questo significa rivolgersi a tutti quei repubblicani e quegli indipendenti che, per le ragioni più differenti, non si riconoscono nel movimento “Make America Great Again” di Trump. Per questo il governatore del Kentucky, Andy Beshear, evoca la scelta di Abramo Lincoln — che era repubblicano — di «sfidare gli estremisti», che pur di difendere la schiavitù dei neri innescarono la guerra di secessione, e Franklin Delano Roosevelt che «sfidò il fascismo» entrando nella Seconda guerra mondiale a dispetto degli isolazionisti a oltranza. Pritzker, Kaine, Beshear e Clinton sono tutti uomini bianchi e anche questo è un elemento strategico della campagna perché è il settore dell’elettorato dove i repubblicani sono in maggiore vantaggio. È l’identità stessa dei delegati a descrivere i Democrats come il partito delle mille diversità d’America: di genere, di fede, di origine, per il colore della pelle e anche per la fede politica. Sale sul palco perfino Stephanie Grisham, l’ex vice portavoce di Trump che abbandonò il tycoon dopo l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021: «Ero una delle più strette collaboratrici di Trump, la sua famiglia era diventata la mia ma poi ho capito che non ha alcuna morale, crede solo in ciò che gli fa più comodo in quel preciso momento. Per questo sono stata la prima ad andarmene quel 6 gennaio e ora sono qui perché amo il mio Paese ancor più del mio partito». Il volto delle minoranze invece è quello di Maxwell Frost, 27 anni, il più giovane deputato a Capitol Hill, che declina l’essere afroamericano nella battaglia più liberal: «Il diritto alla casa». Il tema del diritto all’abitazione per i più poveri è il collante fra afroamericani e ispanici. Non a caso da quando Biden ha gettato la spugna il sostegno degli ispanici per i Democrats è balzato dal 52 al 58 per cento. È un tema che tocca i giovani, le coppie appena sposate e la lotta contro i prezzi alti. Solo riuscendo a portare a votare il numero più alto possibile di questi votanti, si può vincere nell’Election Day. Michelle lo spiega con queste parole: «Non ci sono scuse, non aspettate che qualcuno vi contatti, dovete essere voi a registrarvi e votare».
Se Kamala punta a diventare la prima presidente donna grazie a una coalizione che rilancia “forward” — in avanti — l’eredità di Hillary e Barack, ciò che più la minacciava era lo scenario di un assise a Chicago nel 2024 teatro di gravi disordini di piazza come avvenne nel 1968. Per disinnescare il pericolo il team Harris si è mobilitato in maniera capillare. Il primo passo è stato nella narrazione: «Nel 1968 c’era la guerra in Vietnam, morivano migliaia di americani, Gaza è una grave crisi ma non è il Vietnam». Poi è sceso in campo il sindaco per arginare le proteste pro-Gaza. L’afroamericano Brandon Johnson viene dalla base più liberal, conosce di persona molti dei leader più giovani e ha convinto i manifestanti a riunirsi lontano dallo United Center, riuscendo a scongiurare grandi rally. E dentro la Convention tutti i portavoce dell’ala più progressista - dalla deputata di New York Ocasio-Cortez al senatore del Vermont Bernie Sanders - hanno fatto proprio il linguaggio di Harris in favore di «cessate il fuoco e liberazione degli ostaggi» senza cedere alle richieste dei circa 40 delegati uncommitted con la kefiah che chiedevano la fine degli aiuti - non solo militari - a Israele. Ecco perché Abbas Alawieh, voce di spicco degli uncommitted, accusa senza mezzi termini la Convention di «non averci fatto parlare dal palco».
E quando, durante il discorso di Biden, i delegati pro-Gaza hanno tirato fuori uno striscione di protesta sono stati subissati da grida «Thank You, Joe» mentre la sicurezza sequestrava le scritte. Il tutto in una cornice dove Chuck Schumer, capo dei senatori democratici, ha guidato la Convention nella più ferma condanna dell’antisemitismo - imputandolo ai suprematisti filo Trump - e il marito di Harris, Doug Emhoff, ha descritto così il legame con la moglie sposata dieci anni fa: «Abbiamo fedi diverse, io vado in chiesa con lei e passo il Natale con la sua famiglia e lei viene il sabato in sinagoga con me e fa la cena del Seder con la mia famiglia, niente è più lontano di lei dall’antisemitismo». La lunga fila, di ebrei e non, davanti al carretto degli hot dog kasher, a pochi metri di distanza dalle postazioni dei delegati pro-Gaza riassume cosa sta avvenendo. Harris vuole includere le proteste pro-Gaza nella coalizione, anche perché danno voce alla minoranza arabo-americana in Stati in bilico come il Michigan, ma le spinge a convivere con un partito che, dai tempi di Franklin Delano Roosevelt, raccoglie la grande maggioranza del voto dei quasi sei milioni di ebrei americani.
Riconoscendosi nelle parole di Debbie Wasserman Schultz, deputata della Florida ed ex presidente del Democratic National Committee: «La priorità è essere uniti e sconfiggere Trump, Israele ha diritto a difendersi e Hamas è un’organizzazione terrorista». Per questo quando alcuni militanti pro-Gaza interrompono un’intervista tv di Nancy Pelosi chiedendole perché non boicottare lo Stato ebraico, la risposta della combattiva ex Speaker della Camera dei Rappresentanti è immediata e cristallina: «Israele ha diritto di difendersi». In realtà la vera concessione fatta da Harris ai pro-Gaza è stata politica: rinunciare a Josh Shapiro, governatore ebreo della decisiva Pennsylvania, come candidato vice in contrasto con quanto fece Al Gore nel 2000 scegliendo di avere a fianco Joe Lieberman.
È un approccio a Israele e alla crisi in Medio Oriente che tenta, anche qui, di tenere in bilico l’eredità moderata di Clinton e quella più progressista di Obama. Spiegando quanto dice dal palco Bernie Sanders, che ama definirsi socialista, quando rivendica: «Noi rappresentiamo i progressisti, abbiamo avuto in Biden il nostro presidente e ora dobbiamo stare dentro il partito democratico come in Europa si sta nelle coalizioni politiche composte da partiti differenti».
Per il resto sono i cartelli dei delegati a descrivere l’energia di un popolo democratico che crede nel motto «We Fight, We Win», si riconosce nella definizione di Kamala “gioiosa combattente” — coniata dal marito Doug — e balla senza interruzione sulle note del rapper Lil Jon, nato ad Atlanta, che quasi divora il microfono gridando: «We’re not going back!», non torneremo indietro agli anni di Trump. Il tutto in un costante richiamo al «valore della libertà» e alla «difesa della democrazia» indicate da Joe Biden come i motivi fondamentali «per impedire a un individuo come Trump di essere, né domani né mai, presidente, comandante in capo e leader del mondo libero». La voce rauca e stanca del presidente uscente, che nella prima serata dei lavori ha parlato per oltre un’ora per rivendicare con orgoglio i risultati dell’amministrazione «più progressista di sempre» - come la definisce Bernie Sanders - ha segnato il momento di passaggio del testimone a Kamala. Ritmicamente confermato in più momenti dei lavori perché il parterre dei delegati appena sente un riferimento a Biden reagisce d’istinto ritmando il canto in crescendo «Thank You, Joe». Che è poi anche una maniera per sottolineare la fedeltà alle origini del partito che Lyndon B. Johnson con il Civil Rights Act del 1964 trasformò nel protagonista delle battaglie dei diritti civili, rompendo con i nostalgici del segregazionismo negli Stati del Sud.
In ultima istanza è proprio questa la maggiore differenza fra la Convention di Milwaukee e quella di Chicago: Trumpguida un movimento popolare basato sulla sua personalità in aperta rottura con il Partito repubblicano del recente passato, mentre Harris è la candidata di una coalizione che richiamandosi all’identità del Partito democratico vuole allargare la coalizione tradizionale, composta da donne e minoranze, per includervi il numero più grande possibile di cittadini americani. Ecco perché se la scommessa di Harris avrà successo, il laboratorio delle innovazioni americane consegnerà alle altre democrazie non solo la prima donna “Commander in Chief” ma anche una formula politica bipartisan basata sull’inclusività per rigettare populismo e sovranismo.