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Usare il presepe come un'arma

Written by Emilia De Biasi.

Emilia De Biasi
Articolo pubblicato da Lettera 43.
Natale in casa Cupiello, di Edoardo De Filippo, uno dei capolavori del teatro italiano, inizia con un lungo dialogo fra padre e figlio a proposito del presepe. Il padre chiede: «Ti piace o’ presepe?» E il figlio risponde con un «no» indolente e indispettito. Magnifica performance di due grandi teatranti, Eduardo e Luca, quest’ultimo scomparso da poco, dopo aver lasciato le repliche proprio di quel Natale in cui vestiva i panni del padre. Era un uomo gentile e dolce, e un grande attore. Ci mancherà. 
Ma quel Natale e quel «no» suonano oggi profetici, se pensiamo all’ennesimo rifiuto di un preside, a Rozzano, nel Milanese, di fare il presepe per Natale, per non urtare la sensibilità dei bambini di altre religioni.
IL MIO NO ALL'ORA DI RELIGIONE. L’ho già scritto, ma lo ripeto volentieri: secondo me è una prova di miseria educativa.
E stiamo attenti a non regalare ai Salvini di turno e alle motivazioni retrive ciò di cui viceversa andare fieri: la nostra storia, le nostre abitudini, le nostre feste, che sono da sempre feste popolari aperte al mondo, non riunioni di sette segrete.
La scuola è scuola pubblica, aperta a tutte le etnie e a tutte le religioni, e risponde al dettato costituzionale sul diritto al sapere, alla convivenza, all’uguaglianza. E oggi anche a quella negoziazione continua che è la convivenza sociale. Sono e resto contraria all’ora di religione nelle scuole, perché credo che la fede non si insegni ma si viva, qualunque essa sia. E sono anche convinta che esista un credo laico, una religione civile che appartiene a chi non crede.
Che male c’è a fare il presepe e a cantare canti antichi e bellissimi? Cosa c’è di diseducativo nel Natale? Cosa ci frena di fronte alla sfida fra universalismo e differenze?
RIPARTIAMO DALLA SAGGEZZA DEI BAMBINI. Un genitore di religione islamica ha detto la cosa più saggia: i bambini si divertono, anche al mio piace festeggiare il Natale.
E forse dobbiamo ripartire dalla saggezza naturale dei più piccoli.
L’antropologo Marco Aime, nel suo saggio Eccessi di culture - il titolo già dice tutto - riporta un episodio fantastico, che vale più di mille discorsi.
Siamo a Torino, in una scuola del quartiere di San Salvario, a forte immigrazione. «In una scuola materna del quartiere, frequentata da molti bambini maghrebini, le maestre hanno deciso un giorno di preparare il cous cous.
Hanno cercato la ricetta “originale” per cucinarlo secondo la tradizione. I bambini erano contenti. Poi una maestra ha chiesto a un piccolo marocchino: “Ti piace?” “Sì”. “È come quello della tua mamma?”. “Quello della mia mamma è più buono perché mette uno strato di cous cous e uno strato di tortellini, uno di cous cous…”».
GUARDIAMOCI NEGLI OCCHI SENZA PAURA. Che ci piaccia o no siamo destinati alla mescolanza dei sapori. L’altro da noi è vicino a noi, e noi siamo accanto a lui.
Conviene guardarsi negli occhi, senza paura, e non nasconderci, ma riconoscere nell’altro anche una parte di noi. Con rispetto e con dignità reciproci.
E, cito ancora Aime, essere consapevoli che «ogni identità è fatta di memoria e oblio. Più che nel passato, va cercata nel suo costante divenire».
Vengano dunque tutti i presepi del mondo, perché ogni religione alla fin fine ha comunque un suo modo di fare presepe, di essere comunità in ascolto dell’umanità per lanciare un messaggio di pace. Non è il presepe che dobbiamo temere, ma chi lo vuole usare come arma per una guerra di civiltà e all’interno di ogni civiltà.

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