Le paci difficili
Articolo di Piero Fassino.
Di fronte a ogni guerra e al suo carico di lutti, sofferenze, distruzioni, la prima richiesta che chiunque avanza è la sospensione delle operazioni militari e la ricerca di soluzioni di pace.
È ragionevole che sia così, ma le paci non sono mai facili.
Ci sono paci in cui il vincitore impone al vinto le sue condizioni. Fu così a Versailles nel 1919. E fu così al termine della seconda guerra mondiale nelle dure condizioni imposte dagli Alleati a Germania e Giappone.
Ci sono paci che scaturiscono da compromessi patteggiati dai contendenti che consentano a ciascuno di non sentirsi sconfitto. E ci sono paci - come nei Balcani - mediate dalla comunità internazionale a parti in conflitto che da sole non sarebbero in grado di trovare un accordo. In ogni caso nessun accordo di pace è indenne da limiti e contraddizioni che spesso generano altri conflitti.
Il cardinal Zuppi, nell'esperire generosamente una mediazione umanitaria al conflitto tra Kiev e Mosca, ha sottolineato che la pace deve essere "giusta e sicura". Parole impegnative, che ci ricordano che non qualsiasi pace lo è.
Quando nel 1938 Chamberlain tornò a Londra, dopo aver sottoscritto con Hitler, Mussolini e Daladier il patto di Monaco, fu accolto da una folla che lo salutava come il salvatore della pace. Un anno dopo Hitler invadeva la Polonia e precipitava l'intera Europa nella tragedia della guerra e dell'Olocausto.
Se dunque invocare la pace è giusto, è altrettanto doveroso misurarsi con i passaggi stretti che occorre attraversare per conseguire una pace "giusta e sicura".
Lo vediamo nel conflitto russo-ucraino che si trascina da più di 600 giorni, conoscendo i massacri di Bucha, la distruzione di Mariupol, i bombardamenti sulle popolazioni inermi di Kiev, Karkiv, Kerson, Odessa e decine di migliaia di soldati ucraini e russi caduti in battaglia.
Le autorità ucraine continuano a perseguire la liberazione di tutti i territori occupati dai russi, invocando legittimamente il rispetto della integrità territoriale del loro Paese entro i confini del 24 febbraio 2022. Putin rifiuta questo esito e annettendo i territori occupati ha inteso rendere irreversibile la loro integrazione nella Federazione Russa, sottraendoli così alla sovranità ucraina. E ipocritamente si dice disponibile a negoziati alla condizione che si riconosca il nuovo stato di fatto, quando sa bene che per Kiev è una condizione inaccettabile.
Uno scenario che prospetta vie di uscite tutte problematiche.
La vittoria militare di uno dei due contendenti allo stato appare problematica e in ogni caso sconta ancora un periodo non breve di guerra di trincea.
Un cessate il fuoco temporaneo è soluzione che consoliderebbe l'annessione russa di territori del Donbass - del tutto rifiutata da Kiev - senza alcuna certezza sulla apertura di negoziati.
Circola in alcune cancellerie, anche se non esplicitata, l'ipotesi di un compromesso in cui si chiederebbe agli ucraini di accettare la perdita dei territori annessi dalla Russia in cambio della integrazione di Kiev nell'Unione europea e nella Nato. Un compromesso che di fatto riconoscerebbe a Putin quel che fin dall'inizio il leader russo si proponeva - l'acquisizione di territori del Donbass - anche se il leader russo dovrebbe accettare una collocazione euro-atlantica dell'Ucraina che ha sempre contestato aspramente. La si può considerare una pace "giusta e sicura"? E la integrazione di Kiev nelle istituzioni euro-atlantiche sarebbe sufficiente a evitare che la società ucraina viva la perdita del Donbass con un sentimento di sconfitta? E quale sarebbe la reazione di quei Paesi, dalla Polonia ai Baltici, che vivono da sempre la contiguità fisica russa come una minaccia? Come si vede non basta invocare la pace perché sia a portata di mano.
Occorre creare le condizioni perché sia praticabile e sostenibile. E qui c'è la responsabilità della comunità internazionale che, a dispetto delle difficoltà, ha il dovere di promuovere la ricerca di soluzioni possibili.
Questione che si pone anche di fronte alla guerra in Medio Oriente.
Il massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre ha innescato un conflitto di giorno in giorno più feroce con conseguenze drammatiche sulle popolazioni civili. Si chiede a Israele di evitare una reazione indiscriminata e di non impedire che alla popolazione di Gaza siano assicurati i beni essenziali per la vita quotidiana. Richieste mosse da giusti motivi umanitari ed è auspicabile che abbia esito l'azione di Biden e Blinken per convincere il governo israeliano.
Non ignorando tuttavia che le pause umanitarie, giustamente invocate per allentare le critiche condizioni della popolazione civile, non necessariamente contribuiranno a bloccare l'attività di Hamas che continua ad agire con strutture militari disseminate su tutto il territorio e il sottosuolo di Gaza, in una contiguità inscindibile con scuole, ospedali, moschee, campi profughi, facendosene scudo per impedire all'esercito israeliano di smantellare l'organizzazione terroristica. E a mano a mano che l'esercito israeliano penetra nei tunnel emergono prove inconfutabili di come Hamas abbia trasformato l'intero territorio di Gaza in una estesa base di micidiali arsenali militari di cui è impossibile che le strutture civili soprastanti non avessero quantomeno percezione.
Il massacro del 7 ottobre e la asprezza della guerra di Gaza stanno scavando un solco di odio e rancore che porta a chiedersi se ci siano le condizioni per una pace "giusta e sicura" in Terra Santa. A questo interrogativo la comunità internazionale risponde con la proposta di riprendere un percorso negoziale per arrivare alla soluzione 2 popoli/2 Stati.
È certo l'unica soluzione possibile, ma allo stato assai complessa, a partire dal chiedersi chi ne sarebbero i negoziatori.
Nethanyahu non crede in quella soluzione e nei tanti anni di suo governo ha ostacolato in ogni modo qualsiasi negoziato. E, dunque, servirebbe una diversa leadership israeliana decisa a intraprendere davvero la strada di un accordo. Scenario che una parte della società israeliana reclama a gran voce, ma affatto scontata. È infatti probabile che Nethanyahu, a guerra esaurita, chieda nuove elezioni. Il cui esito è imprevedibile.
Abu Mazen e l'ANP sono deboli, minati da troppi episodi di corruzione, contestati da ampi settori palestinesi e insidiati dal consenso che Hamas, con la radicalizzazione, ha raccolto soprattutto tra i giovani nati e cresciuti in un regime di occupazione. Ma il passaggio a una nuova leadership palestinese deve scontare le molte divisioni che percorrono l'OLP e Al Fatah.
Peraltro Hamas e la Jihad - sostenuti da Iran, Hezbollah, Houti - continuano a proclamare la distruzione di Israele. E quand'anche si arrivasse a un accordo tra Israele e ANP, Hamas lo contesterebbe inasprendo la sua violenta "lotta di liberazione". E qualora mai Hamas, per non essere esclusa da nuovi assetti, accettasse, come fece l'OLP, di riconoscere il diritto di Israele a esistere - ipotesi a oggi assolutamente astratta - Israele, dopo tutto quel che è accaduto, potrebbe mai accettarla come controparte?
Come si vede evocare la ripresa di un negoziato è doveroso, ma gli ostacoli sono molti. Così come non appare credibile l'ipotesi di uno Stato unico per ebrei e palestinesi, che sarebbe minato dalle lacerazioni profonde che un unico Stato provocherebbe in entrambi i campi e da dinamiche demografiche che vedrebbero ben presto la popolazione ebraica in minoranza.
Anche in Medio Oriente una pace "giusta e sicura" richiede la paziente e tenace costruzione di condizioni con un attivo impegno internazionale individuando soluzioni praticabili, accompagnando le parti nel negoziato, proponendo le mediazioni possibili, allestendo le garanzie necessarie.
È quel che l'amministrazione americana sta facendo in Medio Oriente, coinvolgendo i paesi arabi moderati, scommettendo sul rinnovamento dell'ANP e sollecitando la leadership israeliana a non trasformare la giusta lotta ad Hamas in un'indiscriminata azione contro la popolazione palestinese. Una iniziativa che l'Europa, affiancando gli Stati Uniti, deve sostenere attivamente e con convinzione.
In sostanza, la pace è un valore primario e perseguirla è un dovere morale e politico. Ma non basta invocarla, bisogna costruirne le condizioni, i contenuti, gli esiti per far sì che sia "giusta e sicura".
Di fronte a ogni guerra e al suo carico di lutti, sofferenze, distruzioni, la prima richiesta che chiunque avanza è la sospensione delle operazioni militari e la ricerca di soluzioni di pace.
È ragionevole che sia così, ma le paci non sono mai facili.
Ci sono paci in cui il vincitore impone al vinto le sue condizioni. Fu così a Versailles nel 1919. E fu così al termine della seconda guerra mondiale nelle dure condizioni imposte dagli Alleati a Germania e Giappone.
Ci sono paci che scaturiscono da compromessi patteggiati dai contendenti che consentano a ciascuno di non sentirsi sconfitto. E ci sono paci - come nei Balcani - mediate dalla comunità internazionale a parti in conflitto che da sole non sarebbero in grado di trovare un accordo. In ogni caso nessun accordo di pace è indenne da limiti e contraddizioni che spesso generano altri conflitti.
Il cardinal Zuppi, nell'esperire generosamente una mediazione umanitaria al conflitto tra Kiev e Mosca, ha sottolineato che la pace deve essere "giusta e sicura". Parole impegnative, che ci ricordano che non qualsiasi pace lo è.
Quando nel 1938 Chamberlain tornò a Londra, dopo aver sottoscritto con Hitler, Mussolini e Daladier il patto di Monaco, fu accolto da una folla che lo salutava come il salvatore della pace. Un anno dopo Hitler invadeva la Polonia e precipitava l'intera Europa nella tragedia della guerra e dell'Olocausto.
Se dunque invocare la pace è giusto, è altrettanto doveroso misurarsi con i passaggi stretti che occorre attraversare per conseguire una pace "giusta e sicura".
Lo vediamo nel conflitto russo-ucraino che si trascina da più di 600 giorni, conoscendo i massacri di Bucha, la distruzione di Mariupol, i bombardamenti sulle popolazioni inermi di Kiev, Karkiv, Kerson, Odessa e decine di migliaia di soldati ucraini e russi caduti in battaglia.
Le autorità ucraine continuano a perseguire la liberazione di tutti i territori occupati dai russi, invocando legittimamente il rispetto della integrità territoriale del loro Paese entro i confini del 24 febbraio 2022. Putin rifiuta questo esito e annettendo i territori occupati ha inteso rendere irreversibile la loro integrazione nella Federazione Russa, sottraendoli così alla sovranità ucraina. E ipocritamente si dice disponibile a negoziati alla condizione che si riconosca il nuovo stato di fatto, quando sa bene che per Kiev è una condizione inaccettabile.
Uno scenario che prospetta vie di uscite tutte problematiche.
La vittoria militare di uno dei due contendenti allo stato appare problematica e in ogni caso sconta ancora un periodo non breve di guerra di trincea.
Un cessate il fuoco temporaneo è soluzione che consoliderebbe l'annessione russa di territori del Donbass - del tutto rifiutata da Kiev - senza alcuna certezza sulla apertura di negoziati.
Circola in alcune cancellerie, anche se non esplicitata, l'ipotesi di un compromesso in cui si chiederebbe agli ucraini di accettare la perdita dei territori annessi dalla Russia in cambio della integrazione di Kiev nell'Unione europea e nella Nato. Un compromesso che di fatto riconoscerebbe a Putin quel che fin dall'inizio il leader russo si proponeva - l'acquisizione di territori del Donbass - anche se il leader russo dovrebbe accettare una collocazione euro-atlantica dell'Ucraina che ha sempre contestato aspramente. La si può considerare una pace "giusta e sicura"? E la integrazione di Kiev nelle istituzioni euro-atlantiche sarebbe sufficiente a evitare che la società ucraina viva la perdita del Donbass con un sentimento di sconfitta? E quale sarebbe la reazione di quei Paesi, dalla Polonia ai Baltici, che vivono da sempre la contiguità fisica russa come una minaccia? Come si vede non basta invocare la pace perché sia a portata di mano.
Occorre creare le condizioni perché sia praticabile e sostenibile. E qui c'è la responsabilità della comunità internazionale che, a dispetto delle difficoltà, ha il dovere di promuovere la ricerca di soluzioni possibili.
Questione che si pone anche di fronte alla guerra in Medio Oriente.
Il massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre ha innescato un conflitto di giorno in giorno più feroce con conseguenze drammatiche sulle popolazioni civili. Si chiede a Israele di evitare una reazione indiscriminata e di non impedire che alla popolazione di Gaza siano assicurati i beni essenziali per la vita quotidiana. Richieste mosse da giusti motivi umanitari ed è auspicabile che abbia esito l'azione di Biden e Blinken per convincere il governo israeliano.
Non ignorando tuttavia che le pause umanitarie, giustamente invocate per allentare le critiche condizioni della popolazione civile, non necessariamente contribuiranno a bloccare l'attività di Hamas che continua ad agire con strutture militari disseminate su tutto il territorio e il sottosuolo di Gaza, in una contiguità inscindibile con scuole, ospedali, moschee, campi profughi, facendosene scudo per impedire all'esercito israeliano di smantellare l'organizzazione terroristica. E a mano a mano che l'esercito israeliano penetra nei tunnel emergono prove inconfutabili di come Hamas abbia trasformato l'intero territorio di Gaza in una estesa base di micidiali arsenali militari di cui è impossibile che le strutture civili soprastanti non avessero quantomeno percezione.
Il massacro del 7 ottobre e la asprezza della guerra di Gaza stanno scavando un solco di odio e rancore che porta a chiedersi se ci siano le condizioni per una pace "giusta e sicura" in Terra Santa. A questo interrogativo la comunità internazionale risponde con la proposta di riprendere un percorso negoziale per arrivare alla soluzione 2 popoli/2 Stati.
È certo l'unica soluzione possibile, ma allo stato assai complessa, a partire dal chiedersi chi ne sarebbero i negoziatori.
Nethanyahu non crede in quella soluzione e nei tanti anni di suo governo ha ostacolato in ogni modo qualsiasi negoziato. E, dunque, servirebbe una diversa leadership israeliana decisa a intraprendere davvero la strada di un accordo. Scenario che una parte della società israeliana reclama a gran voce, ma affatto scontata. È infatti probabile che Nethanyahu, a guerra esaurita, chieda nuove elezioni. Il cui esito è imprevedibile.
Abu Mazen e l'ANP sono deboli, minati da troppi episodi di corruzione, contestati da ampi settori palestinesi e insidiati dal consenso che Hamas, con la radicalizzazione, ha raccolto soprattutto tra i giovani nati e cresciuti in un regime di occupazione. Ma il passaggio a una nuova leadership palestinese deve scontare le molte divisioni che percorrono l'OLP e Al Fatah.
Peraltro Hamas e la Jihad - sostenuti da Iran, Hezbollah, Houti - continuano a proclamare la distruzione di Israele. E quand'anche si arrivasse a un accordo tra Israele e ANP, Hamas lo contesterebbe inasprendo la sua violenta "lotta di liberazione". E qualora mai Hamas, per non essere esclusa da nuovi assetti, accettasse, come fece l'OLP, di riconoscere il diritto di Israele a esistere - ipotesi a oggi assolutamente astratta - Israele, dopo tutto quel che è accaduto, potrebbe mai accettarla come controparte?
Come si vede evocare la ripresa di un negoziato è doveroso, ma gli ostacoli sono molti. Così come non appare credibile l'ipotesi di uno Stato unico per ebrei e palestinesi, che sarebbe minato dalle lacerazioni profonde che un unico Stato provocherebbe in entrambi i campi e da dinamiche demografiche che vedrebbero ben presto la popolazione ebraica in minoranza.
Anche in Medio Oriente una pace "giusta e sicura" richiede la paziente e tenace costruzione di condizioni con un attivo impegno internazionale individuando soluzioni praticabili, accompagnando le parti nel negoziato, proponendo le mediazioni possibili, allestendo le garanzie necessarie.
È quel che l'amministrazione americana sta facendo in Medio Oriente, coinvolgendo i paesi arabi moderati, scommettendo sul rinnovamento dell'ANP e sollecitando la leadership israeliana a non trasformare la giusta lotta ad Hamas in un'indiscriminata azione contro la popolazione palestinese. Una iniziativa che l'Europa, affiancando gli Stati Uniti, deve sostenere attivamente e con convinzione.
In sostanza, la pace è un valore primario e perseguirla è un dovere morale e politico. Ma non basta invocarla, bisogna costruirne le condizioni, i contenuti, gli esiti per far sì che sia "giusta e sicura".