La legalità come sentimento
Articolo del Sole 24 Ore.
“La legalità è un sentimento”, ci dice Nando dalla Chiesa nel titolo del suo ultimo libro appena uscito da Bompiani (250 pp., € 19). Ed è molto più di un programma, o di una pura e semplice dichiarazione d’intenti: è l’affermazione tout court di una verità personale, che poi nel libro si dispiega e prende corpo attraverso pagine insieme saggistiche e quasi narrative.
Ed è vero, ha perfettamente ragione dalla Chiesa: la legalità, intesa come espressione di giustizia, è o dovrebbe essere un sentimento prima ancora che una costruzione teorica e tecnica; così come la stessa educazione alla legalità dovrebbe essere sentimentale, prima ancora che astratta e concettuale.
Ha dunque perfettamente ragione, dalla Chiesa, anche quando sostiene la necessità della parola poetica, e della letteratura in generale, ai fini di questa educazione: vuoi perché hanno molto in comune, la parola della poesia e quella della legge, a cominciare dal fatto che entrambe a ben vedere esprimono un’identica domanda di vita, di infinito, di amore; vuoi perché, in fondo, cos’altro è la letteratura se non appunto un apprendistato sentimentale, una via per educarsi sentimentalmente? Non a caso il libro di dalla Chiesa è a sua volta pieno di letteratura, e sono anzi proprio le pagine che lasciano spazio alla parola degli scrittori quelle che conferiscono al discorso un carattere quasi narrativo in sé stesso, come per un’osmosi fra contenuto e forma, o fra metodo e merito: sono le pagine in cui l’idea della giustizia come domanda di giustizia e di vita viene spiegata attraverso la sua incarnazione nel pensiero e nelle opere di una serie di autori assunti a modelli di riferimento – da Erri De Luca a Corrado Stajano, da Carlo Levi a Calvino, Pasolini, Sciascia.
La legalità è un sentimento, insomma, prima ancora che una speculazione: è il senso della giustizia percepito nella sua immediatezza istintiva, quasi corporale. E del resto, come ad esempio notavano molti anni fa Carlo Maria Martini e Gustavo Zagrebelsky in un loro testo memorabile (“La domanda di giustizia”), è proprio per questo che sarebbe impossibile definire a priori ciò che è giusto e ciò che non lo è, in termini assoluti: proprio perché la giustizia, con la quale la legalità non coincide ma cui dovrebbe sempre aspirare e tendere, non è una vuota astrazione. Al contrario: è il contenuto che ciascuno le riconosce in concreto, è il modo in cui ciascuno la vive e la esperisce. Oppure, come scrivevano gli stessi Martini e Zagrebelsky: il modo in cui ciascuno è disposto ad “intenderne l’ethos”.
È come un vento, il senso della legalità e della giustizia: un vento che tutti dovrebbero sentire dentro di sé, e sopra di sé. E per primi i giuristi, i quali troppo spesso tendono invece a dimenticarlo, o a nascondersi dietro la pura tecnica, dietro la freddezza della distanza: come se la domanda di legalità e di giustizia, di cui tutti siamo portatori, potesse accontentarsi dell’applicazione di una serie di norme quali che fossero. La verità è che, quando invochiamo una norma, ciò che ci interessa non è veramente quella norma, ma ciò che quella norma rappresenta: uno strumento attraverso il quale possa trovare accoglienza il nostro bisogno di umanità. E dalla Chiesa, nel suo libro, lo spiega e lo dimostra, e ce lo ricorda, davvero molto bene.
“La legalità è un sentimento”, ci dice Nando dalla Chiesa nel titolo del suo ultimo libro appena uscito da Bompiani (250 pp., € 19). Ed è molto più di un programma, o di una pura e semplice dichiarazione d’intenti: è l’affermazione tout court di una verità personale, che poi nel libro si dispiega e prende corpo attraverso pagine insieme saggistiche e quasi narrative.
Ed è vero, ha perfettamente ragione dalla Chiesa: la legalità, intesa come espressione di giustizia, è o dovrebbe essere un sentimento prima ancora che una costruzione teorica e tecnica; così come la stessa educazione alla legalità dovrebbe essere sentimentale, prima ancora che astratta e concettuale.
Ha dunque perfettamente ragione, dalla Chiesa, anche quando sostiene la necessità della parola poetica, e della letteratura in generale, ai fini di questa educazione: vuoi perché hanno molto in comune, la parola della poesia e quella della legge, a cominciare dal fatto che entrambe a ben vedere esprimono un’identica domanda di vita, di infinito, di amore; vuoi perché, in fondo, cos’altro è la letteratura se non appunto un apprendistato sentimentale, una via per educarsi sentimentalmente? Non a caso il libro di dalla Chiesa è a sua volta pieno di letteratura, e sono anzi proprio le pagine che lasciano spazio alla parola degli scrittori quelle che conferiscono al discorso un carattere quasi narrativo in sé stesso, come per un’osmosi fra contenuto e forma, o fra metodo e merito: sono le pagine in cui l’idea della giustizia come domanda di giustizia e di vita viene spiegata attraverso la sua incarnazione nel pensiero e nelle opere di una serie di autori assunti a modelli di riferimento – da Erri De Luca a Corrado Stajano, da Carlo Levi a Calvino, Pasolini, Sciascia.
La legalità è un sentimento, insomma, prima ancora che una speculazione: è il senso della giustizia percepito nella sua immediatezza istintiva, quasi corporale. E del resto, come ad esempio notavano molti anni fa Carlo Maria Martini e Gustavo Zagrebelsky in un loro testo memorabile (“La domanda di giustizia”), è proprio per questo che sarebbe impossibile definire a priori ciò che è giusto e ciò che non lo è, in termini assoluti: proprio perché la giustizia, con la quale la legalità non coincide ma cui dovrebbe sempre aspirare e tendere, non è una vuota astrazione. Al contrario: è il contenuto che ciascuno le riconosce in concreto, è il modo in cui ciascuno la vive e la esperisce. Oppure, come scrivevano gli stessi Martini e Zagrebelsky: il modo in cui ciascuno è disposto ad “intenderne l’ethos”.
È come un vento, il senso della legalità e della giustizia: un vento che tutti dovrebbero sentire dentro di sé, e sopra di sé. E per primi i giuristi, i quali troppo spesso tendono invece a dimenticarlo, o a nascondersi dietro la pura tecnica, dietro la freddezza della distanza: come se la domanda di legalità e di giustizia, di cui tutti siamo portatori, potesse accontentarsi dell’applicazione di una serie di norme quali che fossero. La verità è che, quando invochiamo una norma, ciò che ci interessa non è veramente quella norma, ma ciò che quella norma rappresenta: uno strumento attraverso il quale possa trovare accoglienza il nostro bisogno di umanità. E dalla Chiesa, nel suo libro, lo spiega e lo dimostra, e ce lo ricorda, davvero molto bene.