La battaglia del governo Meloni contro la mafia non va oltre le ricorrenze
Articolo di Franco Mirabelli pubblicato su Domani.
Certamente il governo Meloni non può essere accusato di non parlare di mafia. Non c’è ricorrenza che non sia celebrata o vittima che non venga doverosamente ricordata e dall’altra parte non si perde occasione per rivendicare il merito di aver salvato il 41 bis e l’ergastolo ostativo, cosa peraltro discutibile, dato che il testo approvato su questo, per recepire i rilievi della Corte Costituzionale, è del tutto identico a quello, sostenuto da tutte le forze politiche, che nella scorsa legislatura non è andato a buon fine solo per lo scioglimento anticipato delle Camere.
Dopo un anno di governo è però utile chiedersi se ai buoni propositi e alle tante parole di circostanza siano seguiti atti e fatti conseguenti o se, come penso, ci sia una distanza significativa e preoccupante tra le dichiarazioni e molte scelte fatte che vanno in altra direzione.
CONTANTI E APPALTI - È ormai chiaro che le mafie hanno spostato una gran parte della propria attenzione sull’economia legale, con l’obiettivo di utilizzare i proventi illeciti per penetrarla e condizionarla utilizzando gli strumenti digitali per muovere il denaro.
In questo contesto serve uno Stato capace di prendere le contromisure e di rafforzare i presidi di legalità e i controlli. Il governo ha, invece, scelto la strada opposta, dando un segnale evidente prima rialzando a 5mila euro il tetto al contante, misura che favorisce il riciclaggio e il nero, poi, soprattutto, con il nuovo codice degli appalti.
Qui, in nome di una malintesa velocizzazione delle opere che solo la riduzione e la professionalizzazione delle stazioni appaltanti può garantire, si è deciso di procedere senza gara sotto la soglia dei 5 milioni di euro, cioè per oltre il 90 per cento degli affidamenti. È lampante che questa scelta espone gli stessi amministratori al rischio di pressioni e condizionamenti. Ma accanto a ciò nel codice è contenuta anche la liberalizzazione dei subappalti che riduce la sicurezza sul lavoro e espone alla infiltrazione di ditte controllate dalla criminalità organizzata.
Se a queste norme si aggiunge la carenza di persone e professionalità con cui devono fare i conti le prefetture nel lavoro di verifica per la certificazione antimafia, è chiaro che sugli appalti, proprio mentre arrivano i soldi del Pnrr, si è scelto di ridurre le difese di legalità, cosa non certo coerente con la dichiarata volontà di combattere le mafie.
CONFISCHE DORMIENTI - L’altro tema su cui è evidente la contraddizione tra parole e fatti riguarda l’utilizzo dei beni confiscati alle mafie. C’è una questione che riguarda il malfunzionamento dell’Agenzia per i beni confiscati. Cosa che denunciamo da tempo e che è ben descritta dai dati della fine 2021 che non sono cambiati: oltre 19mila beni immobili e 2.014 aziende confiscati non utilizzati.
Questo rende ancora più assurda e incomprensibile la scelta del governo di rinunciare ai 300 milioni che erano previsti nel Pnrr per aiutare i comuni nell’utilizzo dei beni a favore delle comunità. La generica e vaga promessa di recuperare quei soldi altrove non cambia la sostanza di una scelta che rappresenta un ulteriore concreto segnale negativo per la lotta alle mafie.
SIMBOLI DELEGITTIMATI - E c’è infine un’altra riflessione da fare sul fastidio che parti del governo e della maggioranza dimostrano di fronte a ogni sollecitazione o preoccupazione che venga dal mondo dell’antimafia o, peggio, di fronte alla stessa legislazione antimafia.
La virulenza con cui Salvini ha attaccato il presidente dell’anticorruzione Busia prima, e Don Luigi Ciotti poi, va oltre la dialettica e il confronto tra opinioni diverse, rischia di indebolire o delegittimare figure, per ragioni diverse, rappresentative della lotta alle mafie facendo danni evidenti.
MISURE CHE NON CONTRASTANO - Allo stesso modo, l’ipotesi di Nordio di rivedere la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa, insieme alle iniziative legislative che vogliono cancellare le interdittive antimafia o alle dichiarazioni che spingono per rivedere sequestri e confische di prevenzione dei beni, raccontano di una parte della maggioranza che mal sopporta le misure di contrasto alle mafie.
Insomma la distanza tra i buoni propositi e i fatti è evidente e può diventare pericolosa, tanto più in un momento in cui, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro e la scelta delle mafie di agire nascoste nel digitale e senza episodi eclatanti di violenza, rischiano di abbassarsi l’allarme sociale e l’attenzione dell’opinione pubblica a tutto vantaggio della criminalità organizzata.
Certamente il governo Meloni non può essere accusato di non parlare di mafia. Non c’è ricorrenza che non sia celebrata o vittima che non venga doverosamente ricordata e dall’altra parte non si perde occasione per rivendicare il merito di aver salvato il 41 bis e l’ergastolo ostativo, cosa peraltro discutibile, dato che il testo approvato su questo, per recepire i rilievi della Corte Costituzionale, è del tutto identico a quello, sostenuto da tutte le forze politiche, che nella scorsa legislatura non è andato a buon fine solo per lo scioglimento anticipato delle Camere.
Dopo un anno di governo è però utile chiedersi se ai buoni propositi e alle tante parole di circostanza siano seguiti atti e fatti conseguenti o se, come penso, ci sia una distanza significativa e preoccupante tra le dichiarazioni e molte scelte fatte che vanno in altra direzione.
CONTANTI E APPALTI - È ormai chiaro che le mafie hanno spostato una gran parte della propria attenzione sull’economia legale, con l’obiettivo di utilizzare i proventi illeciti per penetrarla e condizionarla utilizzando gli strumenti digitali per muovere il denaro.
In questo contesto serve uno Stato capace di prendere le contromisure e di rafforzare i presidi di legalità e i controlli. Il governo ha, invece, scelto la strada opposta, dando un segnale evidente prima rialzando a 5mila euro il tetto al contante, misura che favorisce il riciclaggio e il nero, poi, soprattutto, con il nuovo codice degli appalti.
Qui, in nome di una malintesa velocizzazione delle opere che solo la riduzione e la professionalizzazione delle stazioni appaltanti può garantire, si è deciso di procedere senza gara sotto la soglia dei 5 milioni di euro, cioè per oltre il 90 per cento degli affidamenti. È lampante che questa scelta espone gli stessi amministratori al rischio di pressioni e condizionamenti. Ma accanto a ciò nel codice è contenuta anche la liberalizzazione dei subappalti che riduce la sicurezza sul lavoro e espone alla infiltrazione di ditte controllate dalla criminalità organizzata.
Se a queste norme si aggiunge la carenza di persone e professionalità con cui devono fare i conti le prefetture nel lavoro di verifica per la certificazione antimafia, è chiaro che sugli appalti, proprio mentre arrivano i soldi del Pnrr, si è scelto di ridurre le difese di legalità, cosa non certo coerente con la dichiarata volontà di combattere le mafie.
CONFISCHE DORMIENTI - L’altro tema su cui è evidente la contraddizione tra parole e fatti riguarda l’utilizzo dei beni confiscati alle mafie. C’è una questione che riguarda il malfunzionamento dell’Agenzia per i beni confiscati. Cosa che denunciamo da tempo e che è ben descritta dai dati della fine 2021 che non sono cambiati: oltre 19mila beni immobili e 2.014 aziende confiscati non utilizzati.
Questo rende ancora più assurda e incomprensibile la scelta del governo di rinunciare ai 300 milioni che erano previsti nel Pnrr per aiutare i comuni nell’utilizzo dei beni a favore delle comunità. La generica e vaga promessa di recuperare quei soldi altrove non cambia la sostanza di una scelta che rappresenta un ulteriore concreto segnale negativo per la lotta alle mafie.
SIMBOLI DELEGITTIMATI - E c’è infine un’altra riflessione da fare sul fastidio che parti del governo e della maggioranza dimostrano di fronte a ogni sollecitazione o preoccupazione che venga dal mondo dell’antimafia o, peggio, di fronte alla stessa legislazione antimafia.
La virulenza con cui Salvini ha attaccato il presidente dell’anticorruzione Busia prima, e Don Luigi Ciotti poi, va oltre la dialettica e il confronto tra opinioni diverse, rischia di indebolire o delegittimare figure, per ragioni diverse, rappresentative della lotta alle mafie facendo danni evidenti.
MISURE CHE NON CONTRASTANO - Allo stesso modo, l’ipotesi di Nordio di rivedere la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa, insieme alle iniziative legislative che vogliono cancellare le interdittive antimafia o alle dichiarazioni che spingono per rivedere sequestri e confische di prevenzione dei beni, raccontano di una parte della maggioranza che mal sopporta le misure di contrasto alle mafie.
Insomma la distanza tra i buoni propositi e i fatti è evidente e può diventare pericolosa, tanto più in un momento in cui, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro e la scelta delle mafie di agire nascoste nel digitale e senza episodi eclatanti di violenza, rischiano di abbassarsi l’allarme sociale e l’attenzione dell’opinione pubblica a tutto vantaggio della criminalità organizzata.
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