Per l'Ucraina una pace giusta e sicura
Intervista di Avvenire a Matteo Zuppi
«Quanti giovani vescovi ci sono qui…». Scherza il cardinale Matteo Zuppi mentre esce dall’aula del Pontificio Collegio ucraino di San Giosafat, sul colle del Gianicolo, che ospita i lavori del Sinodo della Chiesa greco-cattolica. Per quasi due ore ha dialogato con i quarantacinque presuli arrivati dal Paese aggredito e da quelli della diaspora ucraina per l’annuale assemblea che quest’anno si tiene a Roma.
Con il suo sorriso, il presidente della Cei vuole infondere speranza dopo aver ascoltato i racconti di dolore e di resistenza di pastori accanto a un popolo sotto attacco. «Grande è la sofferenza. E altrettanto grande deve essere la condivisione», racconta al termine dell’incontro. A fare gli onori di casa il capo della Chiesa greco-cattolica, l’arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk.
«Porto la vicinanza della Chiesa italiana ai cristiani che vivono la tragedia della guerra e che testimoniano il Vangelo in mezzo alle bombe», fa sapere Zuppi. Da qui l’urgenza di «curare le ferite profonde che il conflitto provoca nei piccoli come anche negli adulti», avverte prendendo spunto dal tema del Sinodo: “L’assistenza pastorale delle vittime della guerra”. Dopo l’udienza di mercoledì con Francesco, ieri è stata la volta dell’inviato del Papa impegnato nella missione voluta dal Pontefice che ha già fatto tappa a Kiev, Mosca e Washington. «Occorre chiarezza nel cercare una pace giusta e, aggiungerei, sicura», spiega il presidente della Cei ad Avvenire. E subito tiene a precisare: «Ci vorranno comunque attenzione e pazienza».
Eminenza, che cosa significa “pace giusta” in Ucraina?
Raggiungere la pace non può avere il prezzo della giustizia. No. Perché significherebbe porre le basi per un conflitto futuro. La giustizia non è un termine astratto, ma dentro la storia e il diritto internazionale. Poi ritengo anche che la pace debba essere sicura. Ciò vuol dire che le condizioni di pace devono avere il supporto non solo delle parti direttamente interessate ma di tutti quegli attori internazionali che sono chiamati a garantirne l’applicazione e il rispetto.
Il Papa ha ricordato il suo contributo agli accordi di pace per il Mozambico raggiunti nel 1992 grazie alla Comunità di Sant’Egidio che hanno messo fine a sedici anni di guerra civile. In quale modo quell’esperienza le è di aiuto nella missione di cui l’ha incaricata Francesco?
È stato un percorso che ci conferma in una certezza: la pace è sempre possibile ma richiede uno sforzo incessante per sconfiggere le logiche, gli interessi e le “ragioni” della guerra. La pace è una sorta di rammendo, un’opera di tessitura che ha necessità di molta conoscenza, intelligenza, libertà di interessi. Per questo c’è bisogno del concorso di tanti e qualche volta purtroppo anche di tempo per ricucire ciò che gli scontri, la polarizzazione, le semplificazioni pericolose e ignoranti, l’odio, la propaganda hanno lacerato. Dobbiamo conservare questa ansia per la pace e mai abituarci alla guerra. E penso che la convinzione così evidente dopo la Seconda guerra mondiale che le armi non debbono essere la via per risolvere i conflitti deve essere rilanciata con forza perché stiamo vivendo la Terza guerra mondiale a pezzi.
La liberazione dei prigionieri di guerra e il rilascio dei bambini portati in Russia sono fra gli ambiti d’azione della sua missione. Questioni care al Papa, per le quali si sta spendendo in prima persona, e al centro dell’attività diplomatica della Santa Sede. Possiamo parlare di “mediazione umanitaria”?
Come si sa, la mediazione in senso stretto non è mai stata l’idea del Papa. La sua era ed è la determinazione di cercare tutte le sinergie possibili per favorire la pace e lenire le sofferenze della gente. Lo dimostra quest’attenzione all’emergenza umanitaria, libera dal versante bellico e dalla propaganda.
Francesco ha annunciato, nel volo di ritorno dalla Mongolia, che lei andrà a Pechino.
Vale ciò che ha detto il Papa, sempre in piena unione e collaborazione con la Segreteria di Stato.
Il cardinale Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, ha posto l’accento, qui al Sinodo greco-cattolico, sui gravi danni al dialogo ecumenico che il conflitto sta provocando. Lei ha incontrato i vertici delle Chiese a Kiev e a Mosca. Come la guerra sta dividendo i cristiani?
È vero che si constata un’accentuazione delle tensioni. Ma a maggior ragione i cristiani dovrebbero fare di questo un motivo per crescere ancora di più nel dialogo. Dove c’è il Divisore, i discepoli del Risorto sono tenuti a essere uniti per combatterlo. Il Divisore è il male. In un clima di scontro dovremmo favorire il cammino ecumenico per liberare le Chiese da elementi che le deturpano e per far emergere la forza unitiva che le Chiese portano con sé.
Nell’udienza con i vescovi greco-cattolici il Papa ha detto che non si parla abbastanza del martirio del popolo ucraino. Rischiamo di dimenticare ciò che accade alle porte dell’Europa?
Direi che rischiamo di abituarci alla guerra, di darla per scontata, di tralasciare le cause e soprattutto di non farci toccare più dai drammi delle persone. Questo è pericoloso. Chi si professa cristiano va spronato a declinare la fede anche nella condivisione delle lacrime.
La Chiesa italiana è accanto alle comunità ecclesiali sotto le bombe fin dall’inizio dell’invasione russa.
C’è un’unione profondissima fra le nostre Chiese che ha generato una solidarietà di popolo. Cito l’accoglienza pronta ed esemplare dei profughi da parte di moltissime diocesi, parrocchie e famiglie nella Penisola. Oppure l’ospitalità che stiamo continuando a offrire ai ragazzi: soltanto quest’anno le Chiese che sono in Italia hanno accolto quasi mille bambini. Sono occasioni di tenerezza e protezione, balsami di fronte ai traumi della guerra. Oggi è ancora il tempo dell’emergenza: mancano cibo, cure, un tetto, l’educazione a milioni di persone in Ucraina, in particolare agli sfollati. Poi ci sarà la ricostruzione. Anche in questo caso sono certo la Chiesa italiana darà il suo contributo. Quante relazioni ci legano al popolo ucraino.
«Quanti giovani vescovi ci sono qui…». Scherza il cardinale Matteo Zuppi mentre esce dall’aula del Pontificio Collegio ucraino di San Giosafat, sul colle del Gianicolo, che ospita i lavori del Sinodo della Chiesa greco-cattolica. Per quasi due ore ha dialogato con i quarantacinque presuli arrivati dal Paese aggredito e da quelli della diaspora ucraina per l’annuale assemblea che quest’anno si tiene a Roma.
Con il suo sorriso, il presidente della Cei vuole infondere speranza dopo aver ascoltato i racconti di dolore e di resistenza di pastori accanto a un popolo sotto attacco. «Grande è la sofferenza. E altrettanto grande deve essere la condivisione», racconta al termine dell’incontro. A fare gli onori di casa il capo della Chiesa greco-cattolica, l’arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk.
«Porto la vicinanza della Chiesa italiana ai cristiani che vivono la tragedia della guerra e che testimoniano il Vangelo in mezzo alle bombe», fa sapere Zuppi. Da qui l’urgenza di «curare le ferite profonde che il conflitto provoca nei piccoli come anche negli adulti», avverte prendendo spunto dal tema del Sinodo: “L’assistenza pastorale delle vittime della guerra”. Dopo l’udienza di mercoledì con Francesco, ieri è stata la volta dell’inviato del Papa impegnato nella missione voluta dal Pontefice che ha già fatto tappa a Kiev, Mosca e Washington. «Occorre chiarezza nel cercare una pace giusta e, aggiungerei, sicura», spiega il presidente della Cei ad Avvenire. E subito tiene a precisare: «Ci vorranno comunque attenzione e pazienza».
Eminenza, che cosa significa “pace giusta” in Ucraina?
Raggiungere la pace non può avere il prezzo della giustizia. No. Perché significherebbe porre le basi per un conflitto futuro. La giustizia non è un termine astratto, ma dentro la storia e il diritto internazionale. Poi ritengo anche che la pace debba essere sicura. Ciò vuol dire che le condizioni di pace devono avere il supporto non solo delle parti direttamente interessate ma di tutti quegli attori internazionali che sono chiamati a garantirne l’applicazione e il rispetto.
Il Papa ha ricordato il suo contributo agli accordi di pace per il Mozambico raggiunti nel 1992 grazie alla Comunità di Sant’Egidio che hanno messo fine a sedici anni di guerra civile. In quale modo quell’esperienza le è di aiuto nella missione di cui l’ha incaricata Francesco?
È stato un percorso che ci conferma in una certezza: la pace è sempre possibile ma richiede uno sforzo incessante per sconfiggere le logiche, gli interessi e le “ragioni” della guerra. La pace è una sorta di rammendo, un’opera di tessitura che ha necessità di molta conoscenza, intelligenza, libertà di interessi. Per questo c’è bisogno del concorso di tanti e qualche volta purtroppo anche di tempo per ricucire ciò che gli scontri, la polarizzazione, le semplificazioni pericolose e ignoranti, l’odio, la propaganda hanno lacerato. Dobbiamo conservare questa ansia per la pace e mai abituarci alla guerra. E penso che la convinzione così evidente dopo la Seconda guerra mondiale che le armi non debbono essere la via per risolvere i conflitti deve essere rilanciata con forza perché stiamo vivendo la Terza guerra mondiale a pezzi.
La liberazione dei prigionieri di guerra e il rilascio dei bambini portati in Russia sono fra gli ambiti d’azione della sua missione. Questioni care al Papa, per le quali si sta spendendo in prima persona, e al centro dell’attività diplomatica della Santa Sede. Possiamo parlare di “mediazione umanitaria”?
Come si sa, la mediazione in senso stretto non è mai stata l’idea del Papa. La sua era ed è la determinazione di cercare tutte le sinergie possibili per favorire la pace e lenire le sofferenze della gente. Lo dimostra quest’attenzione all’emergenza umanitaria, libera dal versante bellico e dalla propaganda.
Francesco ha annunciato, nel volo di ritorno dalla Mongolia, che lei andrà a Pechino.
Vale ciò che ha detto il Papa, sempre in piena unione e collaborazione con la Segreteria di Stato.
Il cardinale Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, ha posto l’accento, qui al Sinodo greco-cattolico, sui gravi danni al dialogo ecumenico che il conflitto sta provocando. Lei ha incontrato i vertici delle Chiese a Kiev e a Mosca. Come la guerra sta dividendo i cristiani?
È vero che si constata un’accentuazione delle tensioni. Ma a maggior ragione i cristiani dovrebbero fare di questo un motivo per crescere ancora di più nel dialogo. Dove c’è il Divisore, i discepoli del Risorto sono tenuti a essere uniti per combatterlo. Il Divisore è il male. In un clima di scontro dovremmo favorire il cammino ecumenico per liberare le Chiese da elementi che le deturpano e per far emergere la forza unitiva che le Chiese portano con sé.
Nell’udienza con i vescovi greco-cattolici il Papa ha detto che non si parla abbastanza del martirio del popolo ucraino. Rischiamo di dimenticare ciò che accade alle porte dell’Europa?
Direi che rischiamo di abituarci alla guerra, di darla per scontata, di tralasciare le cause e soprattutto di non farci toccare più dai drammi delle persone. Questo è pericoloso. Chi si professa cristiano va spronato a declinare la fede anche nella condivisione delle lacrime.
La Chiesa italiana è accanto alle comunità ecclesiali sotto le bombe fin dall’inizio dell’invasione russa.
C’è un’unione profondissima fra le nostre Chiese che ha generato una solidarietà di popolo. Cito l’accoglienza pronta ed esemplare dei profughi da parte di moltissime diocesi, parrocchie e famiglie nella Penisola. Oppure l’ospitalità che stiamo continuando a offrire ai ragazzi: soltanto quest’anno le Chiese che sono in Italia hanno accolto quasi mille bambini. Sono occasioni di tenerezza e protezione, balsami di fronte ai traumi della guerra. Oggi è ancora il tempo dell’emergenza: mancano cibo, cure, un tetto, l’educazione a milioni di persone in Ucraina, in particolare agli sfollati. Poi ci sarà la ricostruzione. Anche in questo caso sono certo la Chiesa italiana darà il suo contributo. Quante relazioni ci legano al popolo ucraino.