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Beni di consumo tra civiltà materiale e crisi ambientale

Written by Aldo Bonomi.

Aldo BonomiArticolo di Aldo Bonomi pubblicato da Il Sole 24 Ore.

Mi interrogo sul destino del nostro capitalismo di territorio. È l’ossatura diffusa del made in Italy che si ritrova nel salto d’epoca verso sostenibilità-green economy-digitale per cogliere le opportunità di inserirsi e utilizzare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Pare tenere, se guardiamo ai numeri dei distretti e delle imprese che descrivono un capitalismo adattivo che ha nella sua antropologia opportunistica la capacità, come scriveva Giorgio Fua, «di coltivare settori poco bazzicati o tutti da inventare complementari allo sviluppo dei settori chiave dello sviluppo mondiale». Stiamo parlando dell’alimentare, del sistema moda, del sistema casa, della cura e dell’intrattenimento che Ibc (Industria beni di consumo) racconta come un aggregato di 32mila imprese per 100 miliardi di fatturato. Certo, settori “poco bazzicati” ai tempi del fordismo da grande impresa e anche oggi nell’epoca dei flussi, delle economie globali, degli algoritmi del capitalismo delle reti hard e soft. Flussi che impattano nei territori con Amazon o con normative sul cibo e sul vino o interrogandoci sul futuro del Salone del Mobile. Anche il Pnrr è un flusso nel suo indicare opportunità e regole per ambiente, digitale e reti... Qui siamo e molto dipenderà da quanto il capitalismo adattivo nel fare impresa incorporerà innovazione da green economy sostenibile e digitale mutante, comunicazione e forme dei lavori, cogliendo le opportunità del Pnrr. Ma soprattutto, dall’avere coscienza di luogo e una identità nel fare impresa che colga che la metamorfosi che viene avanti fa dei beni di consumo, non più settori poco bazzicati, ma una iper-industrializzazione della vita quotidiana. Ci siamo forse già scordati che la pandemia ha posto al centro del salto d’epoca il cibo, il vestire, l’abitare, il corpo e la socialità, ricordandoci che quello che decliniamo solo come sistemi produttivi sta dentro l’evoluzione della civiltà materiale di fronte alla crisi ambientale. Il produrre beni di consumo, il racconto del made in Italy si ritrovano al centro dei cambiamenti degli stili di vita. Da qui la necessità di scomporre e ricomporre il fare sostenibilità. Certo facendo green economy che vuol dire incorporare il concetto della qualità ambientale dall’agricoltura alla domotica alla moda ai turismi. Che non è una pura questione tecnologica o di modelli organizzativi di impresa o di nuovi materiali o di economia circolare, dove il nostro fare in Italia già ben si posiziona da sempre con il suo modello di impresa flessibile e attenta ai consumatori.
Il salto d’epoca declina la sostenibilità e mette le imprese in mezzo alla dialettica tra green economy e green society.
Se non incorpora le passioni calde dei nuovi “consumattori”, cioè gli attori del consumo che fanno tendenza nella crisi ambientale, la green economy dell’impresa da sola non basta. La catena del valore del produrre deve incorporare la ragnatela del valore del “consumattore” che fa e vuole green society. Tematiche sfidanti i nostri distretti e il capitalismo di territorio, anima e rete delle 32mila imprese della Ibc che innervano piattaforme che producono per competere nella globalizzazione. Sarà bene ricordare che fanno filiera e traino del capitalismo molecolare e non fermarsi a quei numeri, ma guardare anche all’intreccio tra alimentare e agricoltura, tra artigiania, design, moda e arredamento e che l’intrattenimento non è solo parchi a tema, ma creatività, lavoratori dello spettacolo ed enogastronomia e commercio.
Se guardiamo all’albero delle imprese del made in Italy, in cima ci sono multinazionali tascabili come Ferrero, un grappolo di medie imprese eccellenti, per questo spesso imitate e taroccate nel sistema moda-casa-arredamento. Ma è alle radici che occorre guardare, all’agroalimentare di nicchia e di denominazione territoriale patrimonio di biodiversità, così come alla microfisica dei saperi locali che alimentano l’artigiania di qualità che il mondo ci invidia. Il tema della sostenibilità e della green economy è ben presente ai piani alti dell’albero, basta guardare le loro campagne pubblicitarie, ma va fatta scendere e deve diventare non selezione, ma maturità e crescita del nostro saper fare. Perché anche nel salto alla sostenibilità nessuno si salva da solo ma, portandosi dietro fornitori o e subfornitori nelle piattaforme. A fare rete ci può aiutare l’altra polarità del cambiamento: la digitalizzazione che non è solo tecnologia, ma modello di strategia di impresa. Usando anche per l’albero delle imprese dei beni di consumo la metafora dei due capitalismi, quello di sgocciolamento dall’alto o del trascinamento inclusivo, spero in una stagione di trascinamento inclusivo del nostro made in Italy. Molto dipenderà anche dalle rappresentanze di impresa e dei lavori che sono nate partendo dai territori del nostro capitalismo.
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