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La nostra risposta al virus e il futuro della democrazia

Written by Mauro Magatti.

Mauro MagattiArticolo di Mauro Magatti pubblicato dal Corriere della Sera.

Secondo i dati pubblicati da World-Meter, il numero di morti Covid per milioni di abitanti è enormemente diverso nelle varie regioni del mondo. Per schematizzare si può dire così: ad oggi, la Cina fa registrare 3 morti per milione di abitanti. Molto contenute sono anche le perdite negli altri grandi Paesi orientali, come il Giappone (14) ò l'Indonesia (49). L'Europa mostra differenze significative al suo interno: si va da un gruppo di Paesi che hanno gestito piuttosto bene l'epidemia - Germania (122), Austria (in), Danimarca (142) - a quelli che hanno invece rivelato molte falle - Francia (536), Gran Bretagna (662), Italia (62o).
Con risultati peggiori per Spagna (749) e pessimi per Belgio (939). In generale vanno male i Paesi sudamericani (Brasile, 739) e soprattutto il Perù (maglia nera mondiale con 1.070 morti per milione di abitanti). Ma ugualmente insoddisfacente è il dato del Paese più potente del mondo, gli Stati Uniti (697).
Non è possibile spiegare in poche righe questi andamenti, che dipendono da molte variabili.
A cominciare dalla affidabilità di questi dati che riflettono, tra le altre cose, la diversa contabilità nazionale (morti «di» o «con» Covid, trasparenza della comunicazione e così via). Tuttavia, anche se prese con la dovuta cautela, le differenze sono così marcate da permettere di avanzare alcune ipotesi (da verificare ulteriormente).
Appare evidente che i Paesi dell'Asia orientale escono nettamente meglio dalla prova della pandemia. A parte il caso quasi incredibile della Cina - che sostanzialmente ha saputo evitare la seconda ondata! - anche altri Paesi di quell'area hanno fatto molto bene. Come si spiega questo risultato? Potrebbero esserci fattori ambientali, con un minore adattamento del virus a quel contesto geografico. Ma tale ipotesi per il momento non ha alcun riscontro.
È invece ragionevole pensare che un peso rilevante lo abbiano avuto le differenze culturali: una maggiore «compliance» della popolazione (cioè la disponibilità a seguire le regole e a conformarsi alle indicazioni della autorità); la prevalenza della comunità sull'autonomia personale.
Non a caso, in quei Paesi, non solo non si sono avute le proteste, registrate in Occidente, di chi ha vissuto le limitazioni alla libertà individuale come costrizioni ingiustificate, ma si è anche registrato un aumento del consenso nei confronti dei governi.
Un secondo elemento ha a che fare con gli strumenti usati per la gestione di un fenomeno complesso come la pandemia. L'Occidente - specie gli Usa - arrivano a questo appuntamento dopo che per decenni si sono affidati quasi unicamente alla regolazione di mercato che, di fronte al contagio, non funziona.
In effetti, ad andare meglio sono stati quei Paesi in grado di controllare - anche mediante l'azione della polizia e in qualche caso persino l'uso della forza - i comportamenti individuali; di riorganizzare rapidamente il sistema sanitario; di mettere in campo le nuove tecnologie necessarie per il tracciamento.
Tutti strumenti congeniali a Paesi che hanno tratti autocratici più o meno marcati. Tanto per avere una idea: in Cina lo scorso inverno i positivi venivano isolati forzosamente; mentre il tampone di massa è stato realizzato in poche settimane a Wuhan (11 milioni di test effettuati), a Pechino (10 milioni) e più di recente a Qingdao (14 milioni). In Occidente tutto è invece apparso rigido, lento, inadeguato: burocrazie, sistemi sanitari, catene decisionali. Persino le tecnologie, che, da sole, non fanno miracoli.
Al di là della pandemia, quello che sta accadendo in questi mesi può essere considerato come una sorta di prova generale di quello che potrebbe seguire nei prossimi anni. Le società avanzate sono realtà estremamente complesse che si troveranno a gestire problemi sempre più intricati ed emergenze sempre più frequenti.
Per quanto essenziale, il solo mercato - cioè la somma di decisioni individuali basate sui prezzi dei beni - non basta più a coordinare e regolare i comportamenti individuali. Né tantomeno servono leadership che pretendono di voler gestire la complessità a colpi di slogan e improvvisazioni.
Servono, piuttosto, un governo che decide, uno Stato efficiente, infrastrutture capillari, tecnologie avanzate, un senso di solidarietà condiviso. Il tutto nel quadro di una ridefinizione del rapporto individuo/comunità.
A stare ai dati sopra ricordati, sembrerebbe chiaro che l'epoca neoliberista volga al termine semplicemente perché non è più in grado di far fronte alla natura dei problemi da affrontare.
Anche se non è chiaro come quali nuovi equilibri si verranno a determinare. Molto dipenderà dalle conseguenze economiche e sociali di questa lunga pandemia e dal modo in cui i diversi Paesi ne usciranno. Nel quadro di una rapida ridefinizione delle gerarchie internazionali, tutti saranno costretti a domandarsi il grado di sacrificio della libertà individuale accettabile per raggiungere determinati risultati collettivi.
Il differenziale del numero di morti che abbiamo sopra ricordato riassume il costo umano della inadeguatezza dei sistemi occidentali. Nei fallimenti della nostra risposta alla pandemia non c'è in ballo solo una questione tecnica o politica.
Al fondo si coglie una questione di civiltà: in quale modo possiamo realizzare la convivenza di persone libere all'interno di sistemi complessi che si trovano a prevenire rischi e gestire emergenze? Quali sono le condizioni che rendono ancora possibile la pratica della libertà nelle nuove condizioni della vita sociale? E cioè, come rimodellare la relazione tra Stato e mercato, tra democrazia e autorità?
Per quanto difficile, è una sfida che occorre avere il coraggio di porre e affrontare fin dal modo in cui gestiremo i prossimi mesi, imparando dalle evidenti insufficienze finora emerse.
E questo vale in modo particolare per l'Italia che, anche in questa prova, rivela delle preoccupanti fragilità.
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