Print

Testimone di ingiustizia

Written by Franco Mirabelli.

Franco Mirabelli Intervento di Franco Mirabelli alla presentazione del libro “Testimone di ingiustizia” di Eugenio Arcidiacono (video).

Voglio fare, innanzitutto, alcune considerazioni sul libro “Testimone di ingiustizia”.
È un libro importante, scritto molto bene da Eugenio Arcidiacono, che si vede che ha appreso la materia durante questo lavoro e fa capire bene una serie di temi che espone.
È un libro anche molto duro perché racconta una storia molto dura e racconta quanto una vicenda abbia condizionato negativamente la vita una famiglia.
Questo libro è importante perché racconta che cos’è la ‘ndrangheta.
Molti imprenditori, purtroppo, sono abituati a pensare alla ‘ndrangheta come una sorta di organizzazione illegale che però in fondo non fa male a nessuno e dei cui servizi, nei momenti di difficoltà, si può anche usufruire.
Non è un mistero che la ‘ndrangheta in questi anni stia cercando di aggredire l’economia legale. Ci sono molte inchieste lombarde, venete, piemontesi in cui si vede che la ‘ndrangheta si sta proponendo come una società di servizi (come recupero crediti, finanziamenti) a molti imprenditori che li accettano.
Questo libro, invece, fa vedere cos’è davvero la ‘ndrangheta a chi la immagina come un’organizzazione illegale ma poco differente dall’evasione fiscale.
Il libro spiega che la ‘ndrangheta spara; racconta come è organizzata in una struttura piramidale e fondata sulla famiglia e, di conseguenza, trovare i pentiti è molto difficile perché denunciare un crimine implica il denunciare un parente.
Credo che sia utile, dunque, raccontare tutto questo, soprattutto al Nord, dove la ‘ndrangheta è insediata: ci sono locali a Legnano, Como, Cisliano che hanno un radicamento e hanno avuto la capacità non solo di cercare di infiltrarsi nell’economia ma anche di insediarsi sui territori e farsi accettare, soprattutto nei Comuni piccoli.
Una vicenda emblematica della ‘ndrangheta in Emilia è quella di Brescello, dove Grande Aracri - diventato il capo dopo una faida in cui sono stati uccisi tutti i referenti di tutte le altre locali - era considerato solo come un vecchietto che andava in giro in bicicletta e salutava il sindaco.
Il libro, inoltre, racconta una storia che elenca tutte le ragioni per cui alla fine della scorsa Legislatura abbiamo modificato la legge sui testimoni di giustizia.
Per troppo tempo c’è stata una sorta di sovrapposizione tra i testimoni di giustizia e i pentiti (collaboratori di giustizia), perdendo di vista un elemento fondamentale, cioè che i pentiti comunque avevano anche delle convenienze a collaborare una volta arrestati mentre i testimoni di giustizia sono persone che hanno solo subito violenza o sono stati testimoni di reati violenti e hanno avuto il coraggio di denunciare.
Fino alla modifica della legge, ai testimoni di giustizia accadeva ciò che è raccontato nel libro.
Esisteva già l’obbligo di assumere i testimoni di giustizia nella Pubblica Amministrazione e veniva più o meno rispettato senza, però, tener conto del gradimento e del fatto che comunque si era interrotta una storia di vita con la testimonianza e, inoltre, era un rapporto che ad un certo punto si interrompeva nel momento in cui finiva il processo. Con la chiusura del processo, lo Stato non si occupava più dei testimoni, da nessun punto di vista.
Qui si inserisce anche il tema del risarcimento che è sempre stato erogato dallo Stato ma si è verificato essere insufficiente: la protagonista della storia racconta di aver perso tutti i beni che aveva in Calabria perché sono stati acquistati e venduti dallo Stato.
Questa storia, quindi, spiega perché abbiamo fatto una legge sui testimoni di giustizia che parte dal principio che i testimoni di giustizia devono stare sul loro territorio e devono essere messi nelle condizioni di poterci stare, quindi protetti e non a scadenza, sostenuti economicamente se ne hanno bisogno e il tema del lavoro deve diventare fondamentale.
Dalla nuova legge sono rimasti fuori alcuni casi, come quello della protagonista del libro di Arcidiacono o di altri, per cui ancora non è stato risolto né il problema del risarcimento né di una stabilizzazione che garantisca loro di poter lavorare e di potersi sentire al sicuro.
Questi casi sono oggetto di attenzione da parte del Sottosegretario e stiamo cercando di capire come poter intervenire perché anche queste persone abbiano i diritti che agli altri sono stati riconosciuti con la nuova legge.

La protagonista del libro è una donna che ha mostrato un grande coraggio, un rigore straordinario e un senso dello Stato e delle istituzioni, nonostante tutto ciò che è successo, che le va riconosciuto.
Dobbiamo sapere che senza queste persone non si fa la lotta alle mafie. Senza persone come queste, che hanno avuto il coraggio di denunciare, probabilmente, saremmo ancora molto indietro nella lotta alle mafie. Senza i pentiti e i testimoni, senza persone che hanno avuto il coraggio di mettere a repentaglio la propria vita, molte delle cose che abbiamo fatto in questi anni non ci sarebbero state e, in particolare, la mafia siciliana non avrebbe subito lo sconquasso che ha avuto, così come la camorra non avrebbe visto devastare la propria organizzazione. Sulla ‘ndrangheta, però, è più complicato trovare persone che denunciano e che hanno il coraggio di mettere in discussione anche i rapporti familiari.
A Milano si fa la manifestazione per ricordare Lea Garofalo, che è un’altra donna che ha avuto il coraggio di denunciare la ‘ndrangheta.
Il libro pone il tema di come rendiamo giustizia a queste persone e questo è decisivo.
Chi decide di testimoniare o di collaborare con la giustizia da pentito deve sapere che lo Stato è in grado di tutelarlo e di salvaguardare la sua vita, non solo dal punto di vista della sicurezza ma anche della qualità della vita. Se non ci riusciamo, mettiamo in discussione uno strumento fondamentale per combattere l’illegalità e le mafie e questo dobbiamo sempre ricordarcelo. Politicamente e dal punto di vista della lotta alle mafie, questo è un tema centrale.

Nella storia che viene raccontata in questo libro, ad un certo punto lo Stato ha smesso di occuparsi della protagonista e della sua famiglia, che addirittura sono stati sfrattati dall’appartamento in cui erano stati messi.
Al Ministero degli Interni si sono succedute diverse persone nel corso degli anni, sono cambiate le cose a volte in meglio altre volte in peggio, c’è stata anche una disumanizzazione della vicenda.
Credo che la politica debba riprendere questo caso, così come altri, e risarcire queste persone perché credo che sia un atto di giustizia.
C’è stata una fase in cui la politica anche su queste cose ha preferito fare propaganda piuttosto che dare risposte a quelle persone che sono spesso state esaltate e poi abbandonate.
Il fatto che i commercianti del quartiere di Borgo Vecchio, a Palermo, dove c’è il più altro controllo mafioso, abbiano denunciato il racket, consentendo l’arresto di 20 boss che controllavano quel territorio, è un fatto straordinario che può aprire uno scenario ulteriore nella lotta alla mafia in quelle terre ma noi dobbiamo essere in grado di dimostrare che quelle persone adesso non vengano lasciate sole e che potranno continuare a camminare a testa alta nel loro quartiere, protette dallo Stato.
Questo è il tema su cui c’è stato il cambio vero con la legge del 2018 e che, se ci fosse stata in precedenza, avrebbe cambiato anche la storia della protagonista: se lei avesse potuto stare in Calabria, nella sua casa e mantenere le sue terre ed essere protetta lì, la storia sarebbe stata meno dolorosa.
Lo sradicamento dalla propria terra e il non poter più vedere la propria terra è un tema che nel libro ricorre ed è un dato pesante in questa vicenda.

La struttura della ‘ndrangheta ha una sua specificità che è una rete familiare. Inoltre, ci sono pezzi importanti della Calabria dove lo Stato fa fatica ad esserci. San Luca, Platì, alcuni Comuni della riviera jonica sono territori legati alla ‘ndrangheta.
Avevo incontrato Cafiero De Raho, quando era Procuratore a Reggio Calabria, per capire se era possibile avanzare una candidatura progressista a Platì, che era un Comune sciolto per ‘ndrangheta un’infinità di volte e dove poi non si presentava più nessuno alle elezioni, e il Procuratore disse che a Platì c’è la caserma dei carabinieri e tutto ciò che c’è attorno è ‘ndrangheta e c’è un controllo molto forte.
Ci sono realtà in Calabria in cui c’è un controllo molto forte da parte della ‘ndrangheta. Lo Stato deve lottare ma è una lotta difficile.
Ormai la ‘ndrangheta è una delle mafie più grandi e pericolose del mondo; è invasiva, presente in oltre 50 Paesi e ha grandissimi investimenti negli Stati Uniti, in Canada, Germania, Olanda, Spagna, Australia e tutto questo è rigidamente controllato dalle locali di appartenenza che hanno la casa madre in Calabria.
Gratteri sostiene che anche per il grande investimento all’estero alla fine decide il vecchietto che al sabato vende gli uccellini al mercato di San Luca.
Abbiamo dato grandi colpi alla criminalità organizzata grazie alla legge Rognoni-La Torre e alla confisca preventiva dei beni, colpendo le mafie sugli interessi.
Studiando la ‘ndrangheta, però, si capisce che gli ‘ndranghetisti non vivono per diventare più ricchi ma vivono per “esportare la Calabria nel mondo” e per altre cose.
Nella scorsa Legislatura, in Commissiona Antimafia, abbiamo fatto una ricerca in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e Nando Dalla Chiesa da cui è emerso che tutti i capi delle locali del Nord facevano lavori umili (erano parrucchieri, guidavano le ruspe e le moglie erano donne di servizio). L’interesse della ‘ndrangheta, quindi, non è l’arricchimento e anche questo rende più difficile contrastarla.
Alla fine penso che lo Stato ce la farà. Qualche collaboratore di giustizia in più comincia ad esserci anche nella ‘ndrangheta. Bisogna, però, avere chiaro che non è la mafia che abbiamo in mente noi con la coppola ma è una cosa seria, che infiltra le aziende, anche importanti e grazie a questo può arrivare a controllare centinaia di subappalti e, quindi, far lavorare la propria gente e, di conseguenza, costruirsi un consenso sociale.
La ‘ndrangheta è una cosa molto seria e pericolosa; ora penso che lo Stato stia prendendo le misure e le inchieste che si stanno susseguendo mi fanno essere ottimista.
È vero però che la mafia siciliana è stata sconfitta dallo Stato perché le forze dell’ordine, la magistratura e i nostri strumenti che sono i migliori al mondo, non sono stati lasciati soli: dopo le stragi si è creata una rivolta della società civile. In Calabria questa cosa ancora non c’è in maniera significativa.
La Chiesa ancora non è tutta dalla parte giusta.
La Chiesa oggi sta cambiando posizione rispetto alle mafie. C’è ancora qualche contrasto ma le visite del Papa, che ha detto parole chiarissime contro gli ‘ndranghetisti, hanno aiutato.
Non dimentichiamo, inoltre, che la Calabria è una terra di cultura e che moltissimi funzionari dello Stato e magistrati sono calabresi. Il problema è che fanno fatica a trovare uno spazio in cui è possibile far germogliare qualcosa perché molto lì dipende dalla ‘ndrangheta, esplicitamente o non esplicitamente.
Fare i commercianti in Calabria è complicato e non solo perché c’è il pizzo ma perché c’è un condizionamento che va molto oltre e che avrebbe bisogno di una reazione che non può essere delegata solo alle forze dell’ordine o alla magistratura. Forse con gli anni si riuscirà a costruire, però, bisogna lavorare molto perché, anche a causa dell’abbandono da parte dello Stato, c’è da costruire molto in termini di cultura della legalità.
Chiacchieriamo spesso sulla “Padania” o il “Nord” ma gli ‘ndranghetisti nelle intercettazioni dicono “portiamo la Calabria in Canada” o “portiamo la Calabria in Lombardia”. Questo è un tema forte, in assenza di un’alternativa: nessuno si sente un criminale perché orgoglioso della propria terra che è stata abbandonata dallo Stato. Abbiamo, quindi, molto da lavorare su questi aspetti.

Video della presentazione»  
Video del dibattito» 

Per seguire l'attività del senatore Franco Mirabelli: sito web - pagina facebook

Pin It