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Storie dalle carceri

Written by Stefano Pasta.

Stefano PastaArticolo pubblicato per La Repubblica.
Bollate, l'isola felice delle carceri italiane che ospita l'esperienza di monaci tibetani.
Cosa c'entrano i monaci tibetani con le carceri italiane? Da febbraio a maggio 2013, sono entrati in quello di Bollate, alle porte di Milano, per realizzare e distruggere un mandala, simbolo fondamentale della loro tradizione, e rappresentazione dell'"impermanenza": tutto passa e niente è eterno, esiste solo il presente. Era la prima volta che succedeva in un istituto di detenzione italiano, uno dei pochissimi casi al mondo. Grazie all'artista italiana Ciriaca+Erre, ne è nato il video "Epoché - Sospensione del Giudizio", presentato all'interno del carcere milanese il 28 maggio scorso ed esposto nel Padiglione Tibet alla Biennale di Venezia.
Monaci tibetani e prigioni italiane. Il Tibet e i detenuti di un carcere italiano possono sembrare due realtà molto distanti, socialmente e geograficamente, ma per Ciriaca+Erre esiste un filo conduttore molto forte. "In Tibet i monaci muoiono "di carcere", mentre a Bollate sono gli stessi monaci che si recano in carcere. Al tempo stesso, alcuni detenuti fanno un percorso di autoconsapevolezza, di cui a tratti, durante le interviste, intuiamo la vicinanza alla filosofia buddista, cercando di raggiungere un nuovo equilibrio, di dare ordine e senso alle cose, che nel mondo fuori dalle sbarre non avevano". Nelle sequenze, si alternano immagini di giardini, corpi costretti, fluire di sabbie colorate, cavalli, monaci tibetani, poliziotti, scorci d'interviste. Uno sparo conduce l'osservatore in un labirinto di sensazioni scandite da voci che sussurrano, respiri, preghiere, cigolii e passi. L'artista cerca di far sospendere il giudizio di chi guarda affinché viva da inconsapevole un viaggio tra le mura del carcere, descrivendo realtà vicine quanto lontane e suggerendoci di abbandonare le nostre paure e i pregiudizi.
A Bollate la recidiva è del 20%, in Italia del 70%. I detenuti raccontano il loro cambiamento, anche grazie al percorso con i monaci tibetani: "Più credevo negli altri - dice Gualtiero - più riuscivo a credere in me stesso. Solo dando fiducia, riesci ad averne". Gianluca, che in altri carceri aveva dormito per terra tra gli scarafaggi, spiega che "all'inizio facevo fatica anche a respirare, guardarsi dentro è molto difficile". Ma il mandala è uno dei tanti esempi di come Bollate sia da tempo diventato un modello di carcere, che mira alla rieducazione, alla legalità e al rispetto della dignità, per restituire alla società persone libere e responsabili. Per produrre, in definitiva, più sicurezza. Lo spiega bene l'agente Francesco Mondello, intervistato nel video: "Qui la porta la lasciamo aperta. Ho visto persone che venivano da carceri bui e avevano paura della luce. Educare vuol dire tirar fuori". Per permettere ad alcuni detenuti di cantare e suonare, Mondello ha addirittura creato una sala musica: insonorizzata con scatole delle uova e con luci create dalle latte del pomodoro. I risultati si vedono: a Bollate la recidiva è del 20%, in Italia del 70%.
Il cimitero dei vivi. Eppure, rapporti e fatti di cronaca parlano invece di un sistema carcere italiano che sembra considerare la chiave da buttare via come il simbolo della sicurezza. Un carcere chiuso, con pochi progetti di recupero sociale, che Lucia Castellano, ex direttrice di Bollate, ha chiamato "cimitero dei vivi". Tra le ultime notizie, il 28 maggio un ventinovenne si è impiccato nella sua cella a Bari, mentre il giorno prima Giovanni Aireti, 64 anni, ha scelto la stessa fine nel carcere di Ancona.
Tortura e trattamento inumano. Proprio in questi giorni, è attesa la sentenza sul sovraffollamento nelle carceri che potrebbe costare all'Italia fino a 100 milioni di euro. Un anno fa, infatti, la Corte Europea dei Diritti umani ha condannato l'Italia per aver detenuto persone in meno di tre metri quadri per "violazione dei diritti umani, tortura e trattamento inumano e degradante" secondo l'articolo 3 della Convenzione Europea. "Gli stessi diritti - conclude Ciriaca+Erre - che vengono da anni violati in Tibet e per cui molti monaci si danno fuoco nella speranza di rompere un terribile silenzio".

I libri umani del Parco Sempione - Articolo pubblicato per Famiglia Cristiana
Il 7 giugno, nel parco milanese, si è svolta l’VIII edizione dell’iniziativa: la Biblioteca vivente organizzata dalla cooperativa ABCittà. Di che si tratta? Di libri umani, consultabili, ossia persone che aprono la propria vita nella narrazione e, rispondendo alle domande più dirette e spontanee, cominciano a scardinare pregiudizi e luoghi comuni. Quest’anno il tema è stato il carcere. Titolo: “Fuori-dentro”.
Antonella è un libro umano intitolato “Sulla porta di casa”; così si legge nella quarta di copertina: «Nella vita di prima tutto era frenetico: lavoro, figli, casa… Era “sulla porta di casa” quando il carcere le ha strappato la famiglia, un’occupazione a tempo indeterminato, i risparmi, la vita. Ora Antonella ha iniziato di nuovo a uscire (dal carcere) e ogni volta che si trova sulla porta di casa prova ancora frenesia, questa volta perché deve tornare di nuovo dentro».
Ne “Il cerchio di gesso”, Genti scegli invece di ricordare un’usanza dell’Albania di 30 anni fa: un cerchio bianco per indicare un oggetto smarrito e il divieto di toccarlo. La trama è la sua storia: l’immigrazione, il ribaltamento dei valori, la scuola dei reati, il carcere. Ora come volontario accudisce gli anziani alla Casa della Carità. «Chi lo avrebbe mai detto che mi sarei occupato di qualcun altro».
Se Einstein diceva che «è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio», la cooperativa ABCittà (www.abcitta.org) ci prova con un’iniziativa ospitata, il 7 giugno, presso la Biblioteca del Parco Sempione di Milano: libri umani consultabili nella Biblioteca Vivente “Oltre il muro”, dal titolo “fuori-dentro”.
Ma che cos’è una Biblioteca vivente? Una lista di “titoli” che colpiscono nel segno i nostri pregiudizi, quelli evidenti e quelli più sottili e inespressi. Dietro a ciascun titolo, un libro umano, una persona che apre la propria vita nella narrazione a episodi personali e, rispondendo alle domande più dirette e spontanee, comincia a scardinare quel pregiudizio proprio dalle sue fondamenta: la mancanza di conoscenza e la paura. Un contesto, la biblioteca pubblica, che offre la possibilità di un incontro inconsueto.
È un’esperienza nata nel 2000 con la danese Human Library, quando, in seguito a un violento episodio di razzismo, un gruppo di giovani volle rispondere non con le tradizionali forme di denuncia civile ma attraverso un processo di coinvolgimento diretto sulle tematiche all’origine dello scontro.
Nel 2011, è stata ABCittà a portare questo metodo a Milano, in quartieri e contesti diversi, toccando i temi dell’immigrazione, della disabilità e della malattia psichica. Nell’ottava edizione, il tema è il carcere, grazie a un percorso partecipato che ha trasformato 30 detenuti del V reparto del carcere di Bollate in libri umani. Spiega Ulderico Maggi di ABCittà: «Se non è possibile abbattere i muri che nella città dividono le persone, almeno si può provare a scavalcarne qualcuno. È un modo per dare dignità ai detenuti, metterli in comunicazione con il mondo fuori e superare i pregiudizi che isolano il carcere».
«Il carcere è un’accademia del crimine, chi ci entra ci ritorna sempre, “loro”, quelli che stanno dentro, sono violenti di natura, escono sempre troppo presto, vivono a nostre spese come se fossero in albergo, e alla fine stanno meglio di noi». Sono tra i tanti pregiudizi che la Biblioteca Vivente vuole affrontare e spezzare, pregiudizi che si incontrano e scontrano con scorci di autobiografie, narrate dalla viva voce dei protagonisti. Spiega Maggi: «È necessario iscriversi (gratuitamente), scegliere nel catalogo di oltre venti titoli il libro che si desidera consultare e immergersi nella lettura. È un incontro fatto di domande (nessuna è mai banale), di dialogo, di conoscenza e arricchimento reciproco».
Il libro umano Michele narra i 23 istituti in cui ha vissuto, Vincenzo la scoperta della fede e Antonio dello sport come chiave per «evadere legalmente»; la storia di Gualtiero è un “trattato filosofico” sulla bellezza e l’utilità della cultura: dietro le sbarre, ha frequentato un corso come ausiliario d’ospedale, si è iscritto al gruppo di poesia, fa parte della Commissione Cultura, si è immatricolato all’università e spera, il prossimo anno, di laurearsi in Scienze dell’Educazione…
I generi letterari sono vari: Santino, detenuto da molti anni, sceglie l’ironia e in “La panca dei mille culi” spiega come è cambiato il carcere pensando alle tante persone che, appena arrivate, si sono sedute sopra una lunga panca per aspettare la conclusione delle procedure d’ingresso.
In tutte le storie, torna il tratto umano. Christian, libro umano intitolato “Mia figlia mi chiama papà!”, racconta «il grande cruccio di un genitore che vede nascere e crescere da lontano i propri figli: padre presente o assente?». La bimba di Christian lo chiama papà, è felice perché s’incontrano una volta a settimana, anche se in un centro commerciale. Il futuro di Christian «è fare solo passi in avanti, per lei».
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